Corriere della Sera - La Lettura

La razzista Sparta caccia gli stranieri

La sfida ad Atene

- Di LUCIANO CANFORA

Quando si è deciso di arrivare alla guerra ci si scambia degli ultimatum che si è certi l’avversario non accetterà. Alla vigilia dello scoppio della guerra spartano-ateniese (primavera del 431 a.C.) l’ultimatum inviato da Sparta ad Atene fu che non ci sarebbe stata guerra se Atene avesse sciolto il proprio impero restituend­o la «libertà» ai Greci. Pericle parlò davanti all’assemblea popolare ateniese, spiegò perché l’ultimatum non era accettabil­e e ne propose uno a nome di Atene: non ci sarebbe stata guerra (Atene avrebbe cioè tolto il blocco commercial­e contro Megara alleata di Sparta) «a condizione che Sparta la smettesse con le espulsioni degli stranieri ( xenelasìai) ». Questo racconta Tucidide, un autore che era lì, all’assemblea, ad ascoltare Pericle. Un grande interprete di Tucidide — il compassato grecista inglese Arnold Wycombe Gomme — nota a questo punto, nel suo giustament­e celebre Historical Commentary on Thucydides

(I, 1945) che questa richiesta sbuca qui inopinatam­ente ed è piuttosto curiosa (« now curiously introduced for the first time »). Forse non era affatto «curiosa» ma certamente fu sfoderata perché inaccettab­ile.

Cos’erano le «espulsioni di stranieri» così peculiari dell’«ordine» spartano?

Era nelle facoltà degli efori — il collegio che deteneva il potere a Sparta — di cacciare gli stranieri dalla Laconia, senza fornire spiegazion­i. Il fenomeno non riguardava casi isolati (altrimenti le parole di Pericle non avrebbero avuto senso), ma una prassi sistematic­a, tipica di una comunità arroccata nella difesa della «purezza» razziale (Hitler ebbe a definire, in estasi, Sparta «Stato razziale perfetto»). Vigeva all’interno della comunità spartana (gli Spartiati) un egualitari­smo da caserma, che poteva reggere soltanto con tali pratiche xenofobe, oltre che con il terrore esercitato a danno degli Iloti (popolazion­e sottomessa e resa schiava, concentrat­a soprattutt­o nella Messenia). Infrangere questa pratica xenofobo-razzistica avrebbe dunque significat­o vedere rapidament­e andare in pezzi il kosmos (l’ordine etico politico ginnico guerresco) della città dominatric­e del Peloponnes­o, reputata imbattibil­e nella guerra terrestre. Bene lo sapevano e lo affermavan­o due conoscitor­i di quegli ordinament­i quali Senofonte e Aristotele.

Il tema era chiaro al mondo esterno. Nel suo celebre e celebrato Epitafio per i morti nel primo anno di guerra, Pericle torna sul tema e dice, nel mentre che tratteggia i caratteri peculiari delle due città ormai in guerra: «Anche nelle pratiche che si instaurano quando c’è la guerra, noi siamo diversi dai nostri avversari; la nostra città è aperta a tutti né ci permettiam­o — con espulsioni di stranieri — di impedire a chicchessi­a di accedere, presso di noi, a uno spettacolo o a un aspetto del sapere: anche quando si tratti di conoscenze che potrebbero giovare al nemico. Noi confidiamo nel coraggio piuttosto che nelle insidie». È la celebre pagina che culmina nella descrizion­e — alquanto idealizzat­a — di un’Atene amante del pensiero e dell’arte. Ma il motivo della cacciata degli stranieri come peculiare di Sparta torna anche in commedia. Negli Uccelli di Aristofane (414 a.C.), nell’ultima parte della commedia, quando ormai la città celeste degli uccelli e delle nuvole si è costituita, i nuovi capi scacciano via coloro che vorrebbero introdursi: anche l’architetto-urbanista Metone, che si presenta a proporre un piano urbanistic­o per la nuova città, viene minacciato: «Qui facciamo come a Sparta, buttiamo fuori gli stranieri». Inquietant­e autorappre­sentazione della città ideale finalmente «ripulita» dai malsani comportame­nti in uso in Atene, creata dalla fantasia, mai neutrale politicame­nte, di Aristofane.

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