Corriere della Sera - La Lettura
Attraverso le Alpi l’epos dei piccoli servi
Tra il Settecento e l’inizio del Novecento figli di famiglie povere dell’Alto Adige e di altre località di montagna venivano «acquistati» da contadini tedeschi e affrontavano un viaggio di 200-300 chilometri a piedi per lavorare per lunghi periodi, a volte per sempre. «I bambini di Svevia» sono un fenomeno poco noto che il romanzo di Romina Casagrande segnala alla nostra coscienza: «Salvo la memoria», dice a «la Lettura»
Per costruire i suoi personaggi il più possibile vicini alla realtà dell’epoca, ha studiato a lungo le vecchie fotografie in bianco e nero disponibili nel museo della val Venosta, a Sluderno, uno degli ultimi avamposti dell’Alto Adige, prima del confine con la Svizzera e l’Austria. La scrittrice e studiosa Romina Casagrande nel silenzio del sua casa di Merano (Bolzano) — con una luce puntata sulle immagini e con il buio tutt’intorno — ha osservato per ore le foto di quei bambini con il vestito del giorno di festa, è entrata nel loro tempo, penetrando la storia con la fantasia. Una storia di sradicamento, fatiche e lontananze che nelle pagine del suo romanzo I bambini di Svevia (Garzanti) fa luce su un fenomeno della nostra storia poco noto, ma che ha lasciato un segno profondo in Alto Adige (in val Venosta soprattutto), Austria, Liechtenstein e Svizzera, a partire dal Settecento fino agli inizi del Novecento.
Gli Schwabenkinder (i bambini di Svevia), così venivano chiamati, erano piccoli di famiglie povere e venivano venduti per andare a lavorare stagionalmente in Svevia dai grandi proprietari terrieri come contadini o servi. Il romanzo ridà vita a questi bambini, come se la scrittura li tirasse fisicamente fuori da quelle foto, con i loro sguardi da adulti, a volte beffardi, altre rassegnati e senza speranza, altre ancora sorridenti perché ignari, ma contenti di avere portato a termine quel lungo viaggio a piedi di 200-300 chilometri — si partiva a marzo quando spesso ancora c’era la neve — da Merano verso Laces, Sluderno e poi in Austria, a Landeck e, attraverso il Vorarlberg, su ancora a nord, verso Dornbirn e Bregenz fino alla Svevia. Da dove sarebbero ridiscesi soltanto a novembre. Se tutto fosse andato bene.
Erano bambini e bambine fra i 5 e i 13-14 anni, che venivano accompagnati attraverso le montagne fino al posto dove sarebbero stati messi in vendita e comprati per un periodo stagionale, durante il quale avevano la dispensa per non andare a scuola. Cadeva di solito il 19 di marzo, quel giorno, data deputata al grande mercato del bestiame cui partecipavano i proprietari terrieri. Dalla val Venosta ogni stagione partivano 200 bambini e non tutti facevano ritorno. Ufficialmente il fenomeno viene vietato nel 1918, ma ci sono testimonianze di bambini partiti ancora fra il 1934 e il 1935. Trecento anni di storia, mai raccontata fino in fondo. Bambine stuprate o che facevano ritorno a casa incinte. Bambini che morivano durante il viaggio o tornavano a casa fisicamente compromessi, per il troppo lavoro.
Casagrande ha scritto un libro che è un romanzo ma, insieme, un saggio storico, un libro nel quale una delle tracce è l’idea del viaggio. «La memoria personale di Edna, la mia protagonista — spiega l’autrice a “la Lettura” — diventa la memoria del territorio. Le cicatrici di Edna sono le cicatrici di questi luoghi». «La sveglia — scrive Casagrande — alla fattoria veniva data alle quattro della mattina. A Edna toccava badare agli animali. Mungere le mucche e pulire le stalle, però soltanto dopo aver riempito fino all’orlo le mangiatoie dei maiali. Raccogliere il lino e le spighe, lavare le stoviglie, rifare i letti, strofinare i pavimenti e battere i cereali erano lavori faticosi».
Il tempo passava, gli anni passavano e Edna, che era arrivata in Svevia da bambina, «non conosceva calendario più affidabile del suo giardino». C’è molta natura in queste pagine. La penna di Casagrande porta il lettore in mezzo a boschi, prati, primavere, inverni, notti stellate,
fa respirare le stagioni tra profumi, fiori, piccoli animali che popolano l’universo di Edna, che al suo fianco ha un pappagallo dal nome Emil.
È un mondo (anche) di tenerezza ottocentesca, di un trascendentalismo dove la componente romantica è marcata. Edna attende un segno. È da più di 75 anni che aspetta, immaginandolo, il giorno in cui potrà mantenere la promessa data, una promessa alla quale non hai mai smesso di pensare. Legata al suo amico Jacob, che non vede da quando erano bambini e insieme hanno affrontato, mano nella mano, il lungo viaggio verso la Svevia, dove credevano di trovare la felicità agreste che era loro mancata in Alto Adige. Dopo tanti anni Edna, per caso, nelle pagine di un articolo sul settimanale «Stern» — in cui si racconta di una frana e di un uomo anziano e coraggioso, rimasto ferito, che si è sempre battuto per la difesa della natura — ritrova in una delle fotografie il volto del suo Jacob (torna il Leitmotiv della fotografia). «L’uomo era stato travolto — scrive Casagrande — da una frana di fango che lo aveva sorpreso nella sua abitazione (...). Ora era ricoverato all’ospedale di Ravensburg».
Edna ricorda come fossero «arrivati in una terra straniera all’inizio di una primavera, dopo lunghi viaggi da paesi diversi che alcuni di loro non avrebbero mai rivisto. Nemmeno il sopraggiungere dell’inverno aveva ricondotto a casa i più sfortunati e il loro coraggio non era bastato a vincere la malattia, la fatica, il volere di chi aveva deciso». In tutti quegli occhi, Edna aveva visto «la declinazione della stessa malinconia». Lei e Jacob erano vicini, uno di fianco all’altra e ora dopo così tanti anni lei sentiva che per mantenere quella promessa, e svelare una verità nascosta che li avrebbe forse salvati, sarebbe dovuta tornare dove tutto era cominciato. Ripercorrere le stesse strade, seguendo la mappa che si era disegnata da bambina, ma al contrario. Ha così inizio il viaggio del ritorno nel presente con Edna anziana, che come Ulisse verso la sua Itaca — attraverso gli stessi sentieri che erano prima antiche strade romane e poi vie per i pellegrini — realizza qualcosa di molto vicino a un viaggio iniziatico, durante il quale farà molti incontri con persone dalla natura più svariata. «La struttura del romanzo — dice Casagrande — si muove su due fronti, ha due anime. C’è il filone del romanzo storico attraverso la memoria e quello del viaggio picaresco del ritorno che fa Edna nel presente».
Nel romanzo incombe l’immagine della montagna,
topos di tanta letteratura romantica di lingua tedesca. «Qui — dice Casagrande — il territorio ha una funzione importante. Per me la montagna non è il muro che separa. Per me la montagna unisce. È la via dei bambini, che prima era la via dei pellegrini. Mi affascina tantissimo il recupero delle radici, in un percorso di viaggio, movimento, trasformazione, e questa è la storia di due destini che si separano e si allontanano. Quello dei bambini di Svevia era un fenomeno socialmente accettato e loro si aiutavano a vicenda come potevano. Al mercato quelli che conoscevano già la situazione facevano un piccolo segno con un gessetto sulla giacca dei contadini più cattivi, in modo da avvertire i nuovi arrivati perché potessero provare a evitarli». Molti non ci sono riusciti.