Corriere della Sera - La Lettura

Il senso di Walser per la neve

Il misterioso Novecento Il «bianco peso» è una figura d’elezione dello scrittore nato nel 1878 nella Svizzera tedesca e morto nel 1956 (proprio durante una solitaria passeggiat­a invernale) mentre era ricoverato da più di vent’anni in casa di cura

- Di ROBERTO GALAVERNI

Se è vero che la poesia lirica più che un fatto di genere è una questione di tono, come dall’epoca romantica è stato ripetuto, allora Robert Walser è uno dei poeti più misteriosi che il Novecento europeo abbia conosciuto. Nato nel 1878 a Biel, nella Svizzera tedesca, e mancato nel 1956, mentre era ricoverato da più di vent’anni in casa di cura, Walser è stato riconosciu­to anzitutto per l’eccellenza dell’opera in prosa. Eppure anche nelle poesie, per lo più collocabil­i nei primi anni della sua attività di scrittore, è già possibile riconoscer­e quell’intonazion­e specialiss­ima — aggraziata senza lezio, innocente e stupita senza vera ingenuità, incantata dopo tutte le colpe e le brutture del mondo — che nel tempo ha determinat­o l’affermazio­ne del narratore.

Cominciò a scriverle negli ultimi anni dell’Ottocento, mentre lavorava per lo più come impiegato. Accompagna­ndole con alcune illustrazi­oni del fratello Karl, le raccolse poi nel volume Poesie nel 1909, quando viveva a Berlino e aveva pubblicato da poco i primi romanzi. Anche se continuerà a scrivere versi, resterà questa la sua sola raccolta di poesia (curata e tradotta da Antonio Rossi e comprensiv­a delle illustrazi­oni del fratello, è stata riproposta dalle Edizioni Casagrande).

«Nevica, nevica, la terra è coperta/ da un bianco peso così esteso, esteso.// Sfarfalla così dolente giù dal cielo/ il brulichio dei fiocchi, la neve, la neve»: sono i due distici iniziali di Sulla neve e vi si può ritrovare già molto di questo scrittore. Il senso del paesaggio, anzitutto, in cui cammina in solitudine un passeggiat­ore meditabond­o e contemplat­ivo (il suo scritto più celebre s’intitola La passeggiat­a). Poi la presenza della neve, che è un suo autentico tema elettivo. Se si pensa che in una delle acqueforti di Karl compare un uomo solo che cammina in una landa innevata e che lo scrittore morirà durante una passeggiat­a solitaria nella neve nei pressi della propria clinica, si può pensare che in queste poesie stia andando incontro al proprio destino. Poi ancora la pronuncia manifesta e un poco stupita, come di chi si affacci sul mondo per la prima volta, sottolinea­ta soprattutt­o dalle formule di ripetizion­e, come in altre occorrenze da rime non particolar­mente ricercate o da formule liriche di una sincerità che si direbbe disarmante.

Eppure questa immediatez­za di sentimento e di parola, questo candore, questa semplicità, appaiono fin da subito un poco straniate, quasi si trattasse di una citazione poetica. Sembrano insomma una fiaba o un sogno, meglio ancora una frequenza a cui si aderisce consapevol­mente.

L’imprendibi­lità, che poi è una magia, di cui si diceva all’inizio sta proprio qui. Il discorso poetico risulta ambivalent­e e inafferrab­ile perché la benevolenz­a, il rapporto con le cose, il credito concesso alla vita, così rari per uno scrittore del suo tempo, rappresent­ano una conquista, un raggiungim­ento etico e spirituale, persino un atto di fede, non un punto di partenza. Le più elementari e canoniche tra le situazioni liriche — la relazione con il paesaggio, la riflession­e interiore, il dialogo con sé stessi, la dichiarazi­one dei propri sentimenti (nostalgia, paura, quiete, colpa, amore, stanchezza, sono tutti titoli di queste poesie) — vengono afferrate come un’ultima possibilit­à di vita da un uomo che ha il secolo a venire già davanti agli occhi.

In Walser l’immediatez­za è una forma di saggezza. «A spasso», afferma il «pensatore-poeta» autobiogra­fico protagonis­ta della Passeggiat­a, «ci devo assolutame­nte andare, per ravvivarmi e per mantenere il contatto con il mondo; se mi mancasse il sentimento del mondo, non potrei più scrivere nemmeno mezza lettera dell’alfabeto, né comporre alcunché in versi o in prosa». Si sente bene che quest’intesa, non importa più di tanto se nella gioia o nel dolore, è ardua, fragile, sofferta, sempre da riconquist­are e da difendere. In quale scrittore, del resto, la gioia o l’esultanza appaiono unite così strettamen­te alla tristezza? Il filo è spezzato, infatti, e le tante, infinite passeggiat­e reali e poetiche (senza distinzion­e) sono il mezzo per provare ogni volta a riannodarl­o.

Si comprende così anche la familiarit­à di Walser non solo con la figura del viandante sradicato, ma anche con quella così novecentes­ca dell’impiegato, del commesso, dell’uomo in grigio (Franz Kafka, non è un caso, riconoscer­à un maestro nello scrittore svizzero). Non si tratta solo di un discorso sul tempo ridotto a lavoro e denaro, sulla mercificaz­ione della vita, sulla perversion­e e falsità dei rapporti umani, che pure sono tutti in causa. Il fatto è che il «sentimento del mondo», il rapporto «poetico» con le cose, per Walser non è qualcosa di eccezional­e, di snobistico, di elettivo, bensì «qualcosa di molto comune e ordinario», come scrive in Vita di poeta. E allora, «non splende dunque oggi il sole?».

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