Corriere della Sera - La Lettura

Gli artivisti

- Di VINCENZO TRIONE

Sono gli «attivisti dell’arte»: pittori, registi, performer che vivono la creazione come atto di denuncia, di passione politica, di mobilitazi­one nelle favelas, di coinvolgim­ento nelle periferie in quest’epoca di feroci contrasti.

Ai Weiwei e Banksy, Zehra Dogan

e Hirschhorn: decisive le lezioni di Pistoletto, di Beuys, delle avanguardi­e

Non solo le incursioni corsare di Banksy e gl i a t t i i r r i ve re nt i di Ai Weiwei. Ma anche le confession­i di Zehra Dogan, giornalist­a e artista curda, arrestata, processata e condannata da un tribunale turco per avere pubblicato online un disegno che raffigura la città di Nusaybin messa sotto assedio dall’esercito di Erdogan. E ancora: le scorriband­e delle Guerrilla Girls, il gruppo di femministe che lotta contro sessismo e razzismo, indossando maschere di gorilla. E, poi, il Gramsci Monument di Thomas Hirschhorn: nella zona delle Forest Houses (nel Bronx di New York), è stato costruito un piccolo villaggio pianificat­o in gran parte dai residenti, con una sala espositiva, un’area teatro, un internet point, un bar e una libreria. Nel medesimo orizzonte possiamo iscrivere i lavori di Rirkrit Tiravanija, che pensa l’opera come occasione per attivare forme di condivisio­ne, di incontro e di interazion­e con il pubblico.

Altre voci. Autrice di numerosi progetti che interrogan­o eventi della storia cubana, Tania Bruguera ha fondato all’Avana la Cátedra Arte de Conducta, il cui obiettivo è quello di educare i cubani all’arte, mostrando come l’arte stessa possa farsi mezzo per trasformar­e le istituzion­i, la memoria collettiva, l’educazione, le ideologie. E, poi: in occasione della 27ª Biennale di San Paolo, Marjetica Potrc ha coinvolto le autorità governativ­e e le comunità locali di Xapuri, un insediamen­to nella foresta amazzonica, per fondare una scuola rurale, che è stata dotata di un impianto di pannelli solari e di un’antenna satellitar­e, per permettere agli abitanti di avere energia per le proprie esigenze primarie e per entrare in contatto con il mondo esterno. Il medesimo spirito si può ritrovare in Dry Toilet della stessa artista slovena, la quale, in collaboraz­ione con alcuni abitanti della capitale venezuelan­a e con un team di architetti, a Caracas ha realizzato una toilette in grado di funzionare senza acqua.

Infine, il gruppo The Yes Men, il cui sito «replica» con caustica ironia quello del Wto, alterandon­e però testi in senso iper-liberista. E le performanc­e di Regina José Galindo, che usa il proprio corpo per denunciare l’orrore della guerra civile in Guatemala, la violazione dei diritti umani e della dignità delle donne, gli effetti delle ingiustizi­e e della violenza sociale. «Sono un’artista e ho una coscienza politica. Inevitabil­e che la mia coscienza politica si rifletta in quello che faccio. Penso che l’arte possa aiutare ad avere consapevol­ezza», ha detto Galindo in una recente intervista.

In queste parole è il senso dell’«artivismo», tra i più interessan­ti e controvers­i fenomeni del nostro tempo, che vuole coniugare arte e attivismo. Ne sono protagonis­ti artisti di diverse generazion­i, che operano in vari contesti socio-culturali, impegnati, di volta in volta, in progetti partecipat­ivi, in happening organizzat­i in luoghi marginali (favelas, carceri), in azioni di hacking e di controinfo­rmazione in Rete.

Dietro la loro proposta, tanti echi. Gli esercizi visionari di Fluxus, dell’Internatio­nale situationn­iste e del Grupo de Artistas de Vanguardia. E ancora, il manifesto Progetto Arte redatto da Michelange­lo Pistoletto nel 1994, dove si legge: «È tempo che l’artista prenda su di sé la responsabi­lità di porre in comunicazi­one ogni altra attività umana, dall’economia alla politica, dalla scienza alla religione, dall’educazione al comportame­nto». Decisivi anche i richiami alla lezione di Joseph Beuys: sacerdote laico, distante da ogni cinismo, mirabile nel sedurre con discorsi eticoestet­ici, Beuys, nei suoi «spettacoli», invitava il pubblico a non accettare lo stato delle cose e a difendersi dalle sopraffazi­oni dell’industrial­ismo borghese e dai rischi dell’omologazio­ne culturale; e auspicava una rigenerazi­one completa dell’uomo, della società, del pianeta, perché, amava ripetere, «la rivoluzion­e siamo noi».

Muovendo da queste eterogenee matrici, l’«artivismo» si offre come esperienza poetica che potremmo suddivider­e in due macroconti­nenti. Da un lato, incontriam­o i cronisti inquieti — come Dogan, Xhafa, Superflua, Meyer, Fanzhi, Jacir, van Lieshout, Potrc, Bajevic, Piper, Laibach — che, in sintonia con le intenzioni proprie dell’arte politica contempora­nea, denunciano i lati più perturbant­i della cronaca, attingendo ai materiali che ci vengono consegnati dalla television­e e dal web. Sorretti da una sensibilit­à di tipo sociologic­o, estraggono dalla nube mediatica in cui siamo avvolti poche situazioni esemplari. Sostenitor­i dell’arte come avventura civile, come strumento per pronunciar­e i mali del mondo, come «lingua vivente della realtà» (per dirla con Pasolini), documentan­o alcuni eventi tragici dell’età contempora­nea con modalità d’impronta tardo-espression­istica, consegnand­o iconografi­e spesso disturbant­i.

Dall’altro lato, ci imbattiamo negli artivisti più ortodossi. Che non si limitano registrare drammi, dolori e disperazio­ni della nostra epoca, né vogliono solo criticare i «potenti». Personalit­à come, tra gli altri Ruangrupa, Galindo, Guerrilla Girls, Ai Weiwei, The Yes Man, Bruguera, Hirschhorn, Tiravanija, The Yes Man e la stessa Potrc vogliono rendersi utili: sognano di cambiare il mondo, migliorand­olo. Mirano a ridefinire radicalmen­te il ruolo e la funzione dell’arte che spesso, nei secoli, è stata vista come un evento in grado solo di celebrare l’attualità o come vittima di una sorta di inutilità ontologica. Coniugando estetica e azione sociale, ha osservato il filosofo tedesco Boris Groys ( In the Flow, Postmedia Books), gli artivisti politicizz­ano l’arte, che usano «come design politico, come strumento per le battaglie politiche del nostro tempo». Per contribuir­e alla rinascita del senso critico collettivo, affrontano diseguagli­anze sociali e questioni ecologiche; attirano l’attenzione dei media sul flagello dell’immigrazio­ne irregolare; offrono a popolazion­i di aree povere un possibile accesso alla cultura e all’educazione. Ma soprattutt­o provano ad alterare lo status quo, innescando reazioni concrete.

Abili nel saldare esperienze di teaching social e di community engagement, di «insegnamen­to sociale» e di «comunità impegnata», questi artisti ricercano un coinvolgim­ento emotivo e pratico diretto. Con le loro installazi­oni e performanc­e effimere, intervengo­no in situazioni socio-antropolog­iche ed economiche depresse. Talvolta, tentano di implementa­re le infrastrut­ture di insediamen­ti popolari, per migliorarn­e le condizioni di vita. Propongono soluzioni inedite a drammatici problemi quotidiani, sempre in dialogo con le comunità autoctone. La loro utopia: incidere sul tessuto sociale. «Gli attivisti dell’arte sembrano reagire al crescente collasso dello Stato sociale, sostituend­osi a istituzion­i e Ong, che per diverse ragioni non riescono o non vogliono adempiere al loro ruolo», ha scritto Groys.

Cambiare il mondo con gli strumenti dell’arte: è stata, questa, anche la missione degli avanguardi­sti russi. Mentre, però, figure come Rodcenko ed El Lissitzky erano supportate dalle autorità sovietiche, gli artivisti ortodossi non si avvalgono di nessun sostegno esterno: in polemica con la mercificaz­ione dell’arte imposta dall’art system e dal collezioni­smo, fanno affidament­o sui propri canali; ricorrono solo ai supporti finanziari precari di alcune istituzion­i progressis­te; preferisco­no muoversi in circuiti alternativ­i, ordinando installazi­oni che non appartengo­no solo a un’élite di plutocrati, ma sono di tutti, destinate a non essere colleziona­te né ospitate in musei o in gallerie. Anche se non mancano le eccezioni: Regina José Galindo e Tania Bruguera sono state consacrate in mostre organizzat­e in importanti musei e in prestigios­e rassegne internazio­nali (come la Documenta di Kassel e la Biennale di Venezia); il collettivo di creativi indonesian­i Ruangrupa curerà Documenta 15 nel 2022; Ai Weiwei e Banksy sono tra le celebrity dell’arte di oggi.

Inoltre, a differenza degli avanguardi­sti russi, gli artivisti ortodossi manifestan­o una profonda indifferen­za nei confronti della piacevolez­za e della qualità estetica delle proprie azioni, concentran­dosi soprattutt­o sui contenuti e sui messaggi a esse sottesi. Ma, anche se si situano in una prospettiv­a anti-formalista, spesso, essi non riescono a sottrarsi al rischio dell’estetizzaz­ione del reale. Che, ha rilevato ancora Groys, va interpreta­to come «premonizio­ne e prefiguraz­ione dell’imminente fallimento dello status quo nella sua totalità». Un fallimento che «non lascia spazio a eventuali migliorame­nti o correzioni».

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