Corriere della Sera - La Lettura
El Greco Il grande innovatore
I colori di Tiziano, l’audacia di Tintoretto, l’eroismo di Michelangelo: Parigi celebra il «madonnaro» cretese che cambiò la storia dell’arte. Una rivelazione modernissima per tutte le avanguardie
Icolori (il blu Puffo, il verde acido, il rosso carminio, il giallo cromo) fanno pensare a certi milk shake, i frappè americani belli densi di sciroppo. Il sapore non è però quello, leggero e lievemente stucchevole, di un musical di altri tempi, tipo My Fair Lady o Grease, ma fa piuttosto venire in mente certe sensazioni aspre e poco rassicuranti di un film come C’era una volta... a Hollywood di Quentin Tarantino. In questa modernità continuamente rinnovata a ogni epoca sta la vera forza di Domínikos Theotokópoulos detto El Greco (1541-1614), pittore cretese formatosi a Venezia (seguendo la lezione di Tiziano e Bassano) ma che, dopo un breve passaggio a Roma dove entrò nella cerchia del cardinale Alessandro Farnese (dimostrandosi critico persino nei confronti degli affreschi di Michelangelo), approdò finalmente in quella Toledo ricca di intrecci culturali, religiosi e artistici che diventerà la sua nuova patria. Qui realizzerà opere memorabili in uno stile tormentato e tragico, in cui si intrecc i a no re a l i s mo e t a l ento v i s i onario, opere di una modernità incredibilmente ancora contemporanea come La Sepoltura del conte di Orgaz (1586-1588), forse l’opera oggi più popolare di El Greco, un grande olio su tela (480×360 centimetri) conservato nella Chiesa di Santo Tomé, così tanto innovativo da suggerire a Picasso, ai primi del Novecento, la via da seguire per la sua Sepoltura di Casagemas.
L’ombra di Picasso aleggia spesso nella mostra curata da Guillaume Kientz che il Grand Palais di Parigi dedica fino al 10 febbraio a El Greco (l’esposizione passerà poi dall’8 marzo al 21 giugno all’Art Institute of Chicago che la produce con Grand Palais e Louvre). A lui tocca il compito di chiudere idealmente il percorso scandito da 65 opere spesso sorprendenti: l’ultima esposta è infatti quella stessa Visione di San Giovanni (1610-1614) che, come recita la didascalia, avrebbe per l’ennesima volta ispirato Picasso, in questo caso per Les Demoiselles d’Avignon (1907), che l’aveva vista a Parigi, in casa dell’amico Ignacio Zuloaga. Il gioco del curatore è d’altra parte chiarissimo: riportare alla luce tutto il talento del «Grande Innovatore» con un percorso essenziale ma preciso che parte dagli inizi di El Greco (diventato solo Greco nel titolo dell’esposizione) sotto il segno dell’antica arte bizantina ( La Cena prestata dalla Pinacoteca nazionale di Bologna, 1567-1570 circa, e la Sepoltura di Cristo in arrivo dalla Pinacoteca nazionale di Atene, 15681570 circa) per arrivare ai trionfi della maturità. Quelli del Sogno di Filippo II (1575-1580), dell’Assunzione della Vergine (1577-1579), di San Martino e il povero (15971599), del Ritratto del cardinale Niño de Guevara (1600 circa), il Grande Inquisitore generale dal profilo minaccioso «alleggerito» con un (ancora una volta) modernissimo paio di occhiali.
Per farlo Guillaume Kientz non esita a utilizzare metodi inusuali, ma efficaci, come il giochino del «Se Greco fosse...» (riportato nel grafico qui accanto): inanellando accanto a connessioni abbastanza scontate (se fosse uno scrittore, logico che avrebbe scelto di essere Jean Cocteau che nel suo Le Mythe du Gréco del 1948 lo aveva sviscerato come pochi altri) altre non prevedibili come quelle che associano l’artista ai Queen, a Sergej Eisenstein, alla Fenice, a un’agave, a un lupo, alla perseve
ranza, all’estasi, all’arroganza e addirittura a Dio. In un contesto che, comunque, descrive alla perfezione l’importanza di questo maestro, morto quattro anni dopo Caravaggio, che attratto dalla prospettiva di decorare un luogo così incredibile come l’Escorial, il Pantheon-residenza dei re di Spagna fatto costruire da Filippo II alle porte di Madrid come residenza e pantheon dei re di Spagna, «portò lì — spiega il curatore — i colori di Tiziano, l’audacia di Tintoretto, lo stile eroico di Michelangelo». Ritagliandosi un ruolo unico nella storia dell’arte: ultimo grande maestro del Rinascimento e primo grande pittore dell’Età dell’Oro.
Seguendo le orme del quarantenne curatore, si potrebbe dire che se questa mostra fosse un’emozione sarebbe la sorpresa. O meglio, le sorprese. Quella (tecnica) di una serie di prestiti eccellenti americani: New York, Boston, Filadelfia, Baltimora, Cleveland, San Francisco, Kansas City, Newark (ai «fondi oro» della collezione Alana che ha concesso la sua Sepoltura di Cristo è dedicata fino al 20 gennaio un’esposizione al Musée Jacquemart-André), Washington, Minneapolis. Quella (storico-affettiva) legata alla storia dei singoli dipinti: la grande pala (403,2x211,8 centimetri) con l’Assunzione della
Vergine era stata ad esempio donata nel 1906 all’Art Institute of Chicago dalla mecenate Nancy Atwood Sprague (in memoria del marito Albert Arnold) partendo però da una sottoscrizione avviata da Mary Cassatt, l’artista americana allieva e amica di Degas e degli impressionisti. Quella (meno nota) di un El Greco architetto e scultore, come testimoniano il tabernacolo in legno dorato e policromo con il Cristo resuscitato e il VI libro (con tanto di annotazioni) del De architectura di Vitruvio prestato dalla Biblioteca Nacional de España.
Ma, soprattutto, c’è la sorpresa dell’infinita modernità di El Greco (testimoniata anche dai Santi Pietro e Paolo proveniente dalle collezioni dell’Ermitage di San Pietroburgo esposti fino al 15 marzo alla Fondazione Alda Fendi di Roma): perc hé , s pi e g a Ki e nt z , « s e Ve l á z q u e z r a p p r e s e n t a una rivelazione per la generazione romantica di Manet, El Greco lo è per tutte le avanguardie, cominciando da Picasso». Un primato dovuto alla capacità dell’artista cretese (agli esordi bollato come semplice madonnero per le tante Madonne raffigurate) di coniugare tradizione e invenzione. Come bene dimostra la Veronica
(1480 circa) acquistata dal Prado nel 1944 con l’eredità del conte de Cartagena, che apre il percorso espositivo.
Un primato che appare universalmente riconosciuto (con un particolare a p p r e z z a me n t o , c o me confermano i prestiti, negli Stati Uniti). Perché a El Greco hanno guardato senza nemmeno il timore di dichiararlo pubblicamente (oltre naturalmente a Cocteau) scrittori e poeti come Apollinaire, Rilke (autore di una raccolta di versi ispirata all’Immacolata concezione), Hemingway, Malraux, Théophile Gautier e Marcel Proust (che nella
Recherche sogna di contemplare l’apocalisse come il Conte di Orgaz). E, naturalmente artisti come Bacon, Cézanne, Chagall, gli espressionisti, i pittori del gruppo del Cavaliere Azzurro mentre la poco nota Maddalena
penitente del Museo nazionale di Budapest sembra anticipare languidezze e occhi lucidi delle divine di Francesco Vezzoli.
Da buon innovatore El Greco dimostra di sapersi confrontare anche con quelle nuove forme di creatività che non poteva certo conoscere: El Greco è il titolo del sedicesimo album in studio del musicista greco Vangelis (pubblicato nel 1998) che nel 2007 firmerà la colonna sonora del film che ripercorre la vita del pittore (tra i tanti biopic quello diretto da Luciano Salce nel 1966 con Mel Ferrer protagonista). Allo stesso modo il cinema guarderà sempre con passione a El Greco, ai suoi colori (ai blu, verdi, rossi, gialli) e ai suoi dipinti. Citati, raccontati, esibiti: in Sangue e arena di Mamoulian (1941) come in Passion di Godard (1983). Mentre Potere assoluto
(1997) si apre addirittura con Clint Eastwood, anziano professionista del furto con la passione per l’arte, intento a copiare le Stimmate di San Francesco (al Gran Palais c’è la versione dell’Accademia Carrara di Bergamo): un buon thriller da gustare con in mano un buon milk shake. Blu Puffo, verde acido, rosso carminio, giallo cromo alla maniera di El Greco.