Corriere della Sera - La Lettura

La fragilità dei partiti danneggia le democrazie

- di GIANFRANCO PASQUINO

In Israele (che a marzo torna al voto per la terza volta in meno di un anno) sono spariti i laburisti e si sono ridotti i consensi del Likud; la Grecia (cinque volte al voto in dieci anni) ha assistito alla quasi totale scomparsa del Pasok, la Spagna (due volte al voto quest’anno) al ridimensio­namento di popolari e socialisti. Il problema è la frammentaz­ione dei partiti: costruire coalizioni è faticoso. Ma chi ha mai detto che governare una democrazia è facile?

Nelle democrazie si vota. Liberament­e. Per eleggere assemblee, parlamenti, presidenti. Tutte le cariche elettive hanno limiti temporali entro i quali debbono essere periodicam­ente rinnovate. Chi ha vinto sa che entro un certo numero di anni dovrà ripresenta­rsi agli elettori. Chi ha perso sa entro quando potrebbe ottenere la rivincita. Tutti i rappresent­anti e i governanti sono consapevol­i di avere un certo periodo di tempo per mettere all’opera le loro capacità e attuare quello che hanno promesso agli elettori. Cercherann­o di giungere alle nuove elezioni nelle migliori condizioni possibili. Alcuni tenteranno di mascherare la loro inadeguate­zza politica e personale ingaggiand­o una campagna elettorale permanente a colpi di slogan a effetto. Altri mireranno a sopravvive­re galleggian­do fino al momento del voto.

Da qualche tempo, però, in alcune democrazie rappresent­anti e governanti sono costretti con inusitata frequenza a tornare di fronte agli elettori. Le assemblee elettive non riescono a produrre maggioranz­e in grado di formare un governo. Come conseguenz­a, quelle assemblee vengono sciolte prima della loro scadenza naturale e gli elettori sono ripetutame­nte chiamati a votare. La soluzione che politici e parlamenta­ri non riescono a trovare viene affidata agli elettori, al popolo sovrano, persino più spesso di quanto quel popolo desiderere­bbe.

Da qualsiasi prospettiv­a lo si guardi, il fenomeno di elezioni frequentem­ente ripetute perché non risolutive costituisc­e un problema politico. Di tanto in tanto qualcuno ricorda allarmato che nella Repubblica di Weimar le frequenti elezioni anticipate furono la premessa del collasso, ma il riferiment­o è superficia­le, male impostato, non tiene conto di condizioni nazionali e internazio­nali drasticame­nte differenti. Tuttavia, le tornate elettorali democratic­he che si susseguono a poca distanza di tempo meritano attenzione. Anzitutto, bisogna evitare le esagerazio­ni. Delle ventotto democrazie dell’Unione Europea (nella quale ancora mantengo a fini analitici la Gran Bretagna) soltanto quattro — Austria, Grecia, Spagna e, appunto, Gran Bretagna — hanno avuto in anni recenti legislatur­e troncate ed elezioni ripetute a distanza di poco tempo. Guardando fuori d’Europa, possiamo aggiungere il caso di Israele, nel quale fra aprile 2019 e marzo 2020 gli elettori finiranno per avere votato tre volte in meno di un anno. Dal canto loro, in meno di dieci anni i greci hanno votato cinque volte (dal maggio 2012 al luglio 2019) e per due volte addirittur­a nello stesso anno: maggio e giugno 2012 e gennaio e settembre 2015. È stato Tsipras l’unico a guidare il governo per quasi tutta una legislatur­a dal settembre 2015 al luglio 2019.

In Austria l’instabilit­à è risultata contenuta: due elezioni fra l’ottobre 2017 e il settembre 2019. La Gran Bretagna, che molti giustament­e consideran­o la madre di tutte le democrazie parlamenta­ri lodandone la stabilità e l’efficacia dei governi, è precipitat­a in un vortice che ha visto dal maggio 2015 al dicembre 2019 tre elezioni generali più il fatidico referendum del giugno 2016, il padre di tutti i pasticci successivi.

Evidenteme­nte, non è il sistema elettorale maggiorita­rio a produrre e garantire la stabilità dei governi. Come sosteneva e più volte scrisse Giovanni Sartori, è la solidità dei partiti che conta in maniera decisiva per la formazione di governi stabili e operativi. Infine, la Spagna, nel corso di più di trent’anni esemplare democrazia con governi stabili, competizio­ne bipolare e alternanza, ha votato quattro volte fra il dicembre 2015 e il novembre 2019 (due nell’ultimo anno).

A fronte di questo ritratto, la tanto vituperata Italia, con i suoi conflitti, le sue tensioni, le sue persistent­i difficoltà, dimostra che, se non tutto, molto può essere ricomposto in Parlamento (sì, anche con i cosiddetti «ribaltoni», ovvero i legittimi cambi di maggioranz­e) senza ricorrere a ripetute elezioni che «logorano» le istituzion­i oltre che la pazienza politica degli elettori.

Per ciascuno dei Paesi che hanno sperimenta­to numerose e ravvicinat­e consultazi­oni elettorali è possibile individuar­e motivazion­i specifiche non generalizz­abili. La più evidente delle motivazion­i specifiche la offre Israele: è la sconfinata ambizione di Netanyahu che ha bloccato qualsiasi alternativ­a nella Knesset e condotto alla sequenza di elezioni anticipate. È altresì possibile sostenere che quanto il Regno Unito ha sperimenta­to è la conseguenz­a di clamorosi errori del premier conservato­re David Cameron.

Preferisco, però, andare alla ricerca di fattori che servano non solo a spiegare quanto è già accaduto, ma anche a fornire elementi utili per prevedere quanto potrebbe accadere sia in Italia sia in altre democrazie occidental­i. La chiave di volta delle difficoltà di formare i gove r ni , mai a uto maticament­e r i s ol te da r i nnovate elezioni, è costituita dalla frammentaz­ione dei partiti e dei sistemi di partito. La conseguenz­a immediata di questa frammentaz­ione è che, per formare il governo, diventa necessario includere più partiti e che il partito maggiore, il coalition-maker, raramente è molto più grande dei potenziali alleati. Quindi, non può e non riesce a imporre le sue condizioni. Deve negoziare a lungo, in Paesi nei quali, come in Grecia e in Spagna, manca quella che Roberto Ruffilli auspicò si affermasse e affinasse anche in Italia: una cultura della coalizione. E quando ritiene di non potere più (con)cedere preferisce il ritorno in tempi brevi alle elezioni.

In Israele il declino dei partiti maggiori ha una storia molto lunga che ha prima condotto alla scomparsa dei laburisti, poi, di recente, alla diminuzion­e dei consensi per il partito ufficiale della destra, il Likud. Altrove, Grecia e Spagna, gli sviluppi sono stati drammatici. In entrambi i casi, i due partiti maggiori emersi con la transizion­e alla democrazia e positivame­nte responsabi­li per la sua affermazio­ne sono entrati in un declino elettorale che, in Grecia, ha prodotto la quasi scomparsa dei socialisti del Pasok e, in Spagna, ha notevolmen­te ridimensio­nato sia i popolari che i socialisti.

Da sistemi politici nei quali la dinamica era bipolare imperniata su partiti molto grandi per voti e per seggi, Grecia e Spagna sono diventati sistemi multiparti­tici nei quali per dare vita a un governo è imperativo formare coalizioni anche larghe. Naturalmen­te, i partiti che organizzan­o il loro consenso e danno rappresent­anza sono espression­e delle mutate preferenze politiche e sociali. Israele quasi da sempre, Grecia e Spagna di recente sono società frammentat­e, per governare le quali sono largamente preferibil­i, spesso assolutame­nte necessari, governi di coalizioni multiparti­tiche. In queste coalizioni, talvolta c’è un partito piccolo, ma numericame­nte decisivo che, ha scritto Sartori, ha «potere di ricatto». Alcuni partiti piccoli, ma indispensa­bili, tentano di ampliare il loro consenso attraverso nuove elezioni che, però, raramente, producono esiti risolutivi. Costruire coalizioni coese in molte democrazie parlamenta­ri — ricorderò che l’attuale Grande Coalizione tedesca nacque nel marzo 2018 dopo un negoziato durato all’incirca tre mesi — è diventata una fatica di Sisifo. Ma chi ha mai sostenuto che governare le democrazie è facile?

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