Corriere della Sera - La Lettura
Abusi stupefacenti
Cent’anni fa negli Usa iniziava il Proibizionismo, età clamorosa di gangster, jazz e ottima letteratura («Il grande Gatsby»).
Sul tema della liberalizzazione di droghe e alcol parlano in queste pagine Gaetano Di Chiara, farmacologo, e il sociologo Luigi Manconi. Seguono un testo di Carlo Rovelli, uno dello storico Tiziano Bonazzi e un’intervista a Dennis Lehane, che ha romanzato quell’epoca
Cento anni fa, nel gennaio del 1920, entrò in vigore l’emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti che metteva al bando gli alcolici. Cominciava così il periodo del Proibizionismo, che si concluse nel dicembre 1933 con il ritorno alla situazione precedente voluto dal presidente Franklin D. Roosevelt. Un secolo dopo quell’esperimento fallito, la questione dei danni prodotti dall’uso di sostanze che danno dipendenza, vietate o consentite dalla legge, resta di grande attualità in tutto il mondo. Per approfondire il tema ci siamo rivolti a due esperti che hanno opinioni diverse. Luigi Manconi, sociologo e senatore per tre legislature (prima dei Verdi e poi del Partito democratico), è favorevole a forme di legalizzazione degli stupefacenti. Contrario è invece Gaetano Di Chiara, professore emerito di Farmacologia all’Università di Cagliari e presidente onorario della Società italiana tossicodipendenze (Sitd).
LUIGI MANCONI — Vorrei partire dal problema della cannabis. E per sgombrare il campo da ogni equivoco comincio da un’affermazione sintetica: l’abuso dei derivati della cannabis, specie in età adolescenziale, è nocivo. Pongo subito dopo una domanda che in mezzo secolo di discussione non ha trovato alcuna risposta adeguata, anzi è stata ignorata. Perché i derivati della cannabis non possono essere sottoposti allo stesso identico regime oggi in vigore per sostanze come l’alcol e il tabacco — altrettanto, anzi più dannose — il cui uso e il cui commercio sono perfettamente legali? Si tratta di considerare insieme questi due punti e di trarne le conseguenze. Io ne traggo l’ipotesi che vada assolutamente sperimentata la legalizzazione: una regolamentazione da parte dello Stato della produzione, distribuzione, commercio dei derivati della cannabis.
GAETANO DI CHIARA — Sono lieto che Luigi Manconi abbia detto con chiarezza che la cannabis può essere molto nociva. Io aggiungo che lo è particolarmente alle concentrazioni di principio attivo in circolazione oggi, ben maggiori rispetto a quelle di un tempo; per non parlare degli estratti, preparazioni in cui lo stesso principio attivo può arrivare addirittura al 90 per cento. Ma se riconosciamo l’estrema pericolosità di queste sostanze, perché proporre di legalizzarle e non fare lo stesso con le droghe un tempo chiamate pesanti (vedo con piacere che Manconi non usa la definizione impropria di «droga leggera» per la cannabis), come la cocaina, l’eroina e
altre sostanze analoghe? Perché non consentire anche il commercio di quegli stupefacenti? I cannabinoidi sintetici sono altrettanto dannosi, possono mandare le persone in coma. Ed è abbastanza facile procurarseli attraverso internet da laboratori in diverse parti del mondo. Se ci si mette su quella via, diventa un inseguimento senza fine a sempre nuove sostanze tossiche. Però l’alcol, che è senza dubbio dannoso, rimane consentito e accessibile.
GAETANO DI CHIARA — Non mi sembra affatto un argomento valido per giustificare la legalizzazione delle droghe. Per fare le dovute distinzioni, la questione va affrontata correttamente sotto il profilo storico e sociologico. Da questo punto di vista c’è una bella differenza tra le bevande alcoliche e droghe come la marijuana, la cocaina e l’eroina. Il vino, la birra e altri preparati del genere appartengono in maniera indelebile alla nostra cultura non soltanto alimentare, ma anche religiosa, prima a quella pagana e poi a quella cristiana. Sono parte della civiltà occidentale così come si è sedimentata nel corso dei millenni. In America con il Proibizionismo si cercò di rendere illegale all’improvviso una sostanza che l’uomo usava da sempre come alimento del tutto accettato a livello sociale. Uno status che la cannabis non ha e non ha mai avuto.
LUIGI MANCONI — Non sono d’accordo. Per fasce consistenti delle società occidentali, compresa quella italiana, il consumo ricreativo della marijuana ha una sua legittimazione e una tradizione. È un’attività che fa parte della vita quotidiana e non comporta la rottura delle normali relazioni sociali, è accettata o comunque è oggetto di una tenue riprovazione morale. Però ancora una volta il quesito che ponevo non ha avuto risposta. Perché l’alcol è legale, se produce danni incommensurabilmente più gravi rispetto alla cannabis, e nessuno in Occidente si sogna di metterlo al bando e criminalizzarne il consumo? Perché questo regime non può valere anche per l’hashish e la marijuana? La disparità di trattamento non si spiega in termini sociali, giuridici, medico-scientifici. E risulta incomprensibile al singolo consumatore, il quale si chiede perché può bere tutto l’alcol che vuole, con effetti spesso rovinosi, e deve invece essere sanzionato per un uso equilibrato o anche semplicemente occasionale di cannabis. Infatti, nonostante la
messa fuorilegge di hashish e marijuana, quelle sostanze sono sempre più utilizzate, non soltanto dai giovani, ma anche da persone avanti con l’età. Quando un consumo diventa abitudine di strati sociali ampi, non lo si può sottoporre a una politica di pura repressione. Il proibizionismo pretende di eliminare consumi che fanno parte di una tendenza dell’indole umana, ma così produce solo sofferenza, come ricordava giustamente Marco Pannella. GAETANO DI CHIARA — La visione proposta da Manconi risale agli anni Settanta, quando io studiavo negli Stati Uniti. Allora la concentrazione di principio attivo nella marijuana era bassa, intorno all’1-2 per cento, risibile rispetto a quella attuale, che supera il 10. E la legalizzazione introdotta in alcuni Stati degli Usa ha provocato un suo ulteriore aumento. Circolano in America dei concentrati che, come dicevo prima, toccano l’80-90 per cento di principio attivo e sono alla base del cosiddetto
vaping: i consumatori mettono nelle sigarette elettroniche un estratto di cannabis che assomiglia esteriormente al miele e si procurano pesanti danni alla salute. Non è accettabile quindi dire che l’alcol è molto più nocivo della marijuana. Perché le bevande alcoliche diventino pericolose bisogna eccedere parecchio nell’assumerle, ma nell’uso che ne faccio io, come la schiacciante maggioranza delle persone, non meritano la qualifica di droga.
LUIGI MANCONI —Benissimo, ma appunto centinaia di migliaia di individui hanno con la cannabis lo stesso rapporto che tanti altri hanno con il vino o la birra.
GAETANO DI CHIARA — Nessuna ricerca scientifica ha mai sostenuto che un uso moderato di alcol, per quanto giornaliero, abbia effetti nocivi. Anzi in Francia l’incidenza dei disturbi cardiovascolari è inferiore rispetto alla Germania, anche se il vino, consumato perlopiù dai francesi, ha un tenore di alcol più elevato rispetto alla birra, preferita dai tedeschi. Invece l’uso giornaliero di cannabis negli adolescenti, come dimostrano diversi studi, provoca gravi danni alla psiche. Una ricerca pubblicata nel marzo dello scorso anno sulla rivista scientifica «The Lancet», firmata da Marta Di Forti e numerosi altri autori, conferma che l’uso abituale di marijuana porta a un aumento dell’incidenza di psicosi e schizofrenie che ad Amsterdam tocca il 50 per cento. Questo non vale per l’alcol, che può essere micidiale in quantità elevate, ma non ha l’effetto tossico sottile, a lungo termine, della cannabis. Il problema riguarda soprattutto i ragazzi, più propensi a consumare marijuana, più vulnerabili per la delicatezza del loro sistema nervoso non ancora completamente formato e più esposti, per la loro giovane età, agli effetti di lunga durata. Negli Stati degli Usa dove ha prevalso l’antiproibizionismo viene trasmesso agli adolescenti un messaggio contraddittorio: la cannabis è legale, quindi pare che non faccia male, ma i minori di 21 anni non possono accedervi. In quelle parti d’America l’etica individualista si è associata al profitto che i privati — ma anche lo Stato, con gli introiti fiscali — ricavano dal commercio di cannabis: una combinazione esplosiva. In Europa per fortuna non è ancora avvenuto.
LUIGI MANCONI — Non credo però che sia preferibile una situazione in cui i ricavi derivanti dal consumo di cannabis vanno alla criminalità organizzata, piuttosto che a imprenditori privati e, attraverso una forma di tassazione, alle casse dello Stato. Oggi quel mercato è completamente in mano alle mafie. E di fatto è liberalizzato. Infatti, quello attuale è definibile, secondo i parametri dell’economia classica, un regime di liberalizzazione. Un elevatissimo numero di esercizi commerciali, aperti giorno e notte in tutte le strade e le piazze di tutte le città, gestiti da innumerevoli commercianti, su incarico della criminalità organizzata. Sarebbe meglio se almeno una parte di quel mercato, tendenzialmente quella maggioritaria, fosse invece gestita da organi pubblici. Ammettiamo pure che l’assunzione di cannabis sia davvero pesantemente nociva. Resta in ogni caso una domanda essenziale: quella sostanza fa più danni se resta illegale, clandestinamente acquistata e consumata, oppure se il suo uso viene legalizzato e regolamentato? Di certo gli attuali divieti non hanno in alcun modo dissuaso da quel consumo, anzi lo hanno assai incrementato. Non voglio entrare nel merito dei danni provocati dall’abuso di marijuana. Constato però che esiste un uso molto ampio, nettamente maggioritario in Italia e altrove, che risulta del tutto compatibile con una equilibrata vita sociale. Però c’è anche un largo fenomeno di abuso. LUIGI MANCONI — Senza dubbio è un problema. Ma mi domando: tale abuso è forse disincentivato dal regi