Corriere della Sera - La Lettura
I luoghi dove nascono i romanzi
Silvia Avallone ha seguito (e inseguito) Niccolò Ammaniti fin dai tempi di «Ti prendo e ti porto via». Lo ha incontrato tante volte, ma lo ha finalmente raggiunto ora, nella sua casa romana, per un’intervista — mentre lo scrittore sta girando una serie tv tratta da «Anna» — che è anche una confessione. Doppia. Sulla letteratura, l’adolescenza e quei fantastici personaggi che sono...
Immagino che a tutti i lettori capiti d’innamorarsi in modo viscerale di un’autrice o un autore. Te ne accorgi quando avverti la necessità di ascoltare il timbro esatto della loro voce, d’inoltrarti nel loro specifico immaginario, d’incontrarne l’anima che, mi piace pensare, resta impigliata nei libri mentre li scrivi. Dopo aver chiuso Ti prendo e ti porto via, con cui scoprii Niccolò Ammaniti, avevo una tale fame di ragazzini come Pietro Moroni da vivere un vero e proprio lutto, insuperabile finché ho conosciuto Michele di Io non ho paura, Cristiano di Come Dio comanda, Lorenzo di Io e te, infine Anna che dà il titolo all’ultimo romanzo. Tutti colti in flagrante all’inizio della metamorfosi: l’addio all’infanzia, lo stupore di rivelarsi non più solo figli. Non avrei potuto incrociarli in altri libri né per strada, meno che mai raccontarli io. Erano di Ammaniti, di nessun altro. Così ho vissuto di nostalgia per loro: insicuri e insieme indomiti, in rotta col mondo degli adulti, affacciati a uno specchio con paura e meraviglia chiedendosi: ma io chi sono?
Era la stessa domanda che agitava me mentre frequentavo il liceo e poi l’università, indecisa tra i doveri di studentessa e i sogni letterari. Ma c’era altro, in Ammaniti, a chiamarmi in causa: i luoghi. Acqua Traverse ( Io non ho paura): Due case da una parte, due dall’altra. E una strada, sterrata e piena di buche, al centro. I mobilifici, le autorimesse, i capannoni desolati di Varrano ( Come Dio comanda), profondo nord. L’Ischiano Scalo di Ti prendo e ti porto via me lo sono andato a cercare su Google Maps e, quando non l’ho trovato, ho macinato chilometri sull’Aurelia setacciando mezzo litorale toscano a caccia del Centro estetico Ivana Zampetti e dello Station Bar accanto alla stazione.
La rivelazione, nei romanzi di Ammaniti, fu che l’Italia — quella sterminata provincia fatta di centri commerciali, destini segnati e timidi sogni che sta tra Roma e Milano — esisteva davvero. Il paesone che amavo e da cui volevo fuggire, le provinciali dissestate, le mercerie, i discount: chi aveva detto che erano posti noiosi, dove non succede nulla? La mia testa, in quegli anni, deve aver fatto clic decine di volte: ma allora, per rivelare un pezzo di realtà, occorre fantasticarci su? Per esprimere qualcosa di universale bisogna, come esortano i prof gli allievi in difficoltà, dirlo «con parole tue»?
Leggendo Ammaniti ho realizzato che la scrittura è un atto di unicità radicale, che richiede la liberazione delle proprie fantasie, dei desideri segreti, delle fragi
lità. Se volevo provarci, dovevo trovare ragazzine che fossero mie e solo mie, dovevo cavarmi dall’anima il mondo e la voce.
Anni dopo, quando l’ho conosciuto, avevo così tante cose da chiedergli che sono rimasta in silenzio; non me la sentivo d’irrompere così, su due piedi, con tutto il mio amore per i suoi personaggi. In seguito, ogni volta che ci siamo trovati, è mancata l’occasione: poco tempo, troppe persone intorno. E adesso che finalmente ci sono, qui a Roma, di fronte a casa sua, per incontrarlo, le pagine del mio taccuino sono tutte bianche: non ho preparato domande, le custodisco da più di un decennio.
Niccolò mi accoglie con un sorriso generoso e il levriero Twiggy che gli saltella intorno. Ci sediamo sul divano, uno di fronte all’altra. Sento l’emozione di chi sta per chiudere un cerchio e cominciarne uno nuovo. Da dove partiamo?
Per forza: dove nasce la scrittura.
Nei tuoi libri hai tracciato una geografia di margini, scorci desolati, appartamenti squallidi. Quando hai iniziato a evadere dai Parioli in cui sei cresciuto, per andare in cerca di altri luoghi? E perché?
«Oggi quel che mi lascia più perplesso è che i figli adolescenti dei miei amici non vogliono più il motorino. Un mio vecchio compagno di classe, a cui era andata bene nella vita perché aveva aperto un’enorme officina per scooter, l’altro giorno, abbattuto, mi ha detto: “Sai, prima arrivavano a valanghe a cambiare i pezzi, e ora il motorino, sì, qualcuno ce l’ha, ma lo usa giusto se gli serve”. Io, da ragazzino, avevo la sensazione che la struttura della città mi sfuggisse. Conoscevo la mia zona, che battevo a piedi, un’altra che raggiungevo in autobus per andare a scuola. Però Roma mi appariva un territorio ignoto, da scoprire, allora prendevo il motorino e andavo a vedere cosa c’era oltre l’Aniene. Giravo, accumulavo conoscenza. Le borgate, Fregene, l’Eur erano mondi diversi in cui m’immergevo, col caldo, col freddo, in due sulla sella.
«All’inizio ero convinto che i morti non andassero in paradiso, ma si trasferissero in altri quartieri. A forza di girare, forse avrei ritrovato i miei nonni. Casalotti, Tor Tre Teste, erano nomi che possedevano valenze fantastiche. Chissà dove stavano? Prendevo lo strada
rio delle Pagine Gialle, cercavo la tavola 16, A3, salivo sul motorino e via. A quel punto, in quei posti, poteva succedere di tutto. Quando ho avuto la macchina, ho fatto la stessa cosa in giro per l’Italia. Perché il luogo è l’elemento primo, quello che mi fa capire se una storia può avere un senso.
« Anna, all’inizio, era solo un’idea; non avrebbe mai potuto funzionare senza la Sicilia. Solo quando ci sono andato e mi sono accorto che è un continente diviso dal resto del mondo da un dito d’acqua, e che ha tutto — il mare, le montagne, la Storia, l’abusivismo, le autostrade — mi sono detto: questo è il posto in cui Anna può vivere, e che può anche superare. A te non capita la stessa cosa?».
Sì, il luogo per me è sempre il personaggio principale, la frontiera da valicare e, insieme, la madre da cui non vorresti separarti. Mi rivedo a sedici anni, quando giravo per Piombino a vuoto sul Quartz, in cerca di cosa? Un incontro che mi cambiasse la vita?
Scrivere, gli chiedo, è stato anche per te un modo di ribellarti a un’esistenza che sentivi insufficiente?
«In realtà ho sempre avuto la sensazione di essere un inetto, e scrivere mi è sembrata l’attività più semplice: te ne stai a casa, non ti confronti con nessuno. Intorno ai venticinque anni, avendo provato l’università — strada troppo difficile per me — mi sono detto: vabbè, rifugiamoci in quest’ipotesi. Mi piaceva anche l’idea di diventare regista, ma sapevo che mi avrebbe obbligato a mettermi alla prova con altre persone, convincerle in maniera diretta, affrontare una gavetta spaventosa: no, non me la sentivo».
Adesso, dopo vent’anni di scrittura, ce l’hai fatta: sei diventato regista. Prima del documentario «The Good Life», poi della serie tv «Il miracolo». Ora stai girando «Anna», dal tuo stesso romanzo, che andrà in onda prossimamente su Sky. Cosa è cambiato?
«Ho capito che la vita è sostanzialmente un problema di incastri e ho imparato a pianificare: cosa che, fino a qualche anno fa, non immaginavo. Sotto questo aspetto, è il contrario di quando facevo lo scrittore e non sapevo quando avrei iniziato una storia, quando l’avrei finita. Soprattutto, col cinema, ho cominciato a lavorare con gli altri. La scrittura mi aveva portato a perdere le relazioni. Mi ero reso conto di essere diventato pigro, una sorta di corpo statico che inglobava il computer e, non avendo figli o altro che andasse a interferire con me al computer, mi ero come paralizzato. Non mi sembrava possibile uscire, andare a fare la spesa, cenavo coi surgelati vecchi. Era una condizione mentale, l’ho capito quando ho preso a fare cinema e mi sono accorto che, dopo aver passato un intero giorno sul set camminando per chilometri, non ero stanco. A cinquant’anni ho sentito l’esigenza di cambiare, di vivere la magia di una storia, la stessa di quando ti immergi in un libro in solitudine, in una dimensione collettiva. E la collaborazione creativa mi ha tirato fuori un’energia che credevo di non avere».
La scelta di passare dal romanzo alla serie tv è stata un’esigenza tua, intima, o la risposta a un tempo in cui si legge sempre meno e si guarda, soprattutto?
«La prima serie, Il miracolo, è nata perché avevo un’idea che mi sembrava si potesse sviluppare meglio attraverso le immagini. Mi ci è voluto uno sforzo per adattarmi. Ma il sangue funziona bene al cinema: è una sostanza che ha un colore determinato, che può essere ora illuminata, ora buia. Ho pensato che le parole non bastassero: il miracolo, la statua della madonna che piange sangue, io lo volevo vedere.
« Anna, invece, ho deciso di trasporla in serie tv perché lei mi chiedeva di vivere ancora, altre esperienze e avventure che nel libro non aveva potuto fare. La sceneggiatura è più aperta, ha più personaggi. Le regole sono le stesse, la protagonista anche, ma la storia è cambiata. Infine, avevo voglia di scommettere sull’incarnazione: sono anni che scrivo di bambini, e a un certo punto ho sentito il desiderio di trasformarli in persone reali, con cui entrare in contatto davvero».
Quindi la letteratura non ha fatto il suo tempo?
«No. Tutte le storie, per poter essere raccontate, hanno bisogno di basi solide. Oggi viviamo immersi in una sovrabbondanza di immagini che ci arrivano da internet, ma quella è pioggia che non ci bagna. Le uniche immagini potenti, secondo me, sono quelle che si appoggiano a storie classiche, in grado di sviluppare a fondo una trama, l’evoluzione dei personaggi, di rivelare un senso. La scrittura rimane il fondamento, nessuna narrazione è possibile senza. D’altra parte, anche lo scrittore di romanzi si esercita nel montaggio: istintivo, inconsapevole; ma cos’altro significa tagliare le frasi, trascinarle, asciugare il testo fino a tenere le parole essenziali, che rendono più forte sia l’immagine che il concetto? Montare un film richiede però d’imparare molto altro: non sei seduto solo in una stanza, devi tener presente il suono, capire che la luce fa un certo percorso durante il giorno, prestare attenzione a milioni di piccole scene e a come — ecco la meraviglia — queste tornino infine a diventare scrittura. Imparare a cinquant’anni è forse la cosa più bella che potesse capitarmi».
Ti ho sempre percepito come uno scrittore libero dal successo. Pur avendolo ottenuto, sembri non essertene mai curato più di tanto, e aver sempre scritto, anzi, con la voglia di metterti in gioco da capo come un ragazzino — che poi credo sia l’unico modo per preservare il proprio immaginario. Ora ti chiedo: sei davvero così?
«Non sono mai soddisfatto di quello che faccio. La mia tecnica è, in sostanza, non godermi quello che ho scritto dopo averlo scritto. Un libro, un film, lo devo subito dimenticare. Ricominciare pensando: posso fare meglio. In parte è triste dirlo, ma quello che ho fatto prima per me non vale nulla. Tutti i traguardi, i premi, i riconoscimenti non contano, non li ricordo. Perché, se mi soffermassi su quei successi, non sarei in grado di raccontare la prossima storia».
Non ti sembra di assomigliare in questo ai tuoi protagonisti: anche tu vuoi restare in quell’istante pieno di futuro e senza passato che è l’adolescenza?
«Hai ragione. E devo dirti che, con la vecchiaia, le esplosioni di creatività sono meno forti che all’inizio: più “apparecchiate”, contaminate dalle esperienze precedenti. Però, se prima il risultato, ossia come il libro veniva accolto, era importante, adesso il piacere ce l’ho solo nel lavorare a una storia. Questo è forse l’unico aspetto positivo della vecchiaia: la sicurezza in me stesso».
I ragazzini protagonisti delle tue storie sono sempre stati maschi, fino ad Anna, creatura struggente e forte. La scena in cui lotta in fondo al mare con un polpo nel giorno del suo quattordicesimo compleanno e, risalendo in superficie vittoriosa, scopre di avere del sangue tra le gambe, è un profondo scavo nel femminile. Quel sangue rimane, anche in questo romanzo in cui la pubertà prelude alla morte, simbolo dell’accesso ad altra vita, a cui Anna è tenacemente attaccata: suo fratello, il ricordo della madre, la cura degli altri che amplia a dismisura il senso dello stare al mondo.
Anche questo è un segno della vecchiaia, come la chiami tu: l’esplorazione del femminile?
«No, anzi. Il punto è che la speranza, ormai, l’ostinazione, la voglia di credere al futuro, di far sì che la storia umana non finisca, le vedo molto meglio in mano a una donna. Il materno, in particolare, ossia la capacità che ha Anna di occuparsi del fratello come fosse un figlio, è qualcosa di così commovente che non poteva davvero essere affidata a un uomo».
Hai sempre raccontato l’apocalisse, e adesso ci siamo: i ghiacci si sciolgono, l’Australia brucia, il mondo degli adulti appare allo sbando. Come possono reagire gli adolescenti?
«Ogni protagonista dei miei romanzi ha dovuto capire chi era trovando la chiave per uscire dal mondo dei genitori, a cui pure era profondamente legato. Il passo definitivo che ho compiuto in Anna è stato quello di domandarmi: senza l’educazione, senza qualcuno che ti insegna a parlare e a leggere, senza la trasmissione della memoria da parte degli adulti, cosa diventano i bambini? Secondo me, animali.
«Credo che i genitori abbiano avuto un ruolo sostanziale finché si sono posti in opposizione rispetto ai figli. Quando ci sono regole precise, ed è chiaro che i desideri dei genitori non coincidono con quelli dei figli, io figlio posso decidere di assecondarli oppure compiere scelte che mi costano per diventare diverso, e vanno bene entrambe le opzioni. Il problema è quando la relazione diventa fluida, per cui si condividono le stesse cose, i ruoli si perdono, i genitori assomigliano ai figli e viceversa. Dal punto di vista narrativo tutto questo è poco interessante. Sarebbe il segno dei nostri tempi, ma, senza conflitto, è impossibile raccontare una storia. Bello è David Copperfield, è quando qualcuno improvvisamente prende in mano la propria vita. Ma se tu sei immerso in un brodo di somiglianze nel quale le tue scelte non hanno senso,