Corriere della Sera - La Lettura

Jesus Christ 50 anni dopo è sempre Superstar

- Di STEFANO BOLLANI

Mezzo secolo. Sì, proprio mezzo secolo: l’album di quello che sarebbe diventato uno dei più celebri musical uscì nel settembre 1970.

Prima c’erano stati un singolo, «Superstar», e un brano cantato da Rita Pavone (!). Ebbene, un pianista e compositor­e jazz di oggi ci spiega perché siamo ancora debitori di quelle melodie e di quei personaggi. Il merito è della qualità del lavoro di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice ma anche di un Giuda che ci assomiglia e di un Gesù che grida: guaritevi da soli!

Regno Unito, albori degli anni Settanta. Andrew Lloyd Webber e Tim Rice si mettono in testa di scrivere un’opera, per la precisione una rock opera sulla passione di Gesù. Un paio di incontri con possibili finanziato­ri e capiscono che portare il progetto su un palco risulta troppo complicato. Decidono allora di farne un disco. Prima un singolo ( Superstar), poi un intero album, uscito nel settembre 1970.

Quella che in seguito diventerà una pièce allestita prima a Broadway poi a Londra, e più tardi ancora, nel 1973, un capolavoro del cinema per la regia di Norman Jewison, è una partitura ricca di idee, trovate, suggestion­i, realizzata a cuore aperto e mente in fibrillazi­one da due ragazzotti inglesi poco più che ventenni, uno (Lloyd Webber) nato in seno a una famiglia di musicisti classici, padre compositor­e e organista, fratello violoncell­ista; l’altro (Rice) all’inseguimen­to della carriera da cantante pop.

Nell’Inghilterr­a dei Beatles tutto sembra possibile, ergo tutto è possibile, persino mettere in bocca i dubbi di tutti noi a Giuda Iscariota, circondato da un coro di soul girl. La coppia Webber-Rice ha precedenti nel teatro musicale; si sono fatti notare grazie a uno spettacolo per bambini, Joseph and the Amazing Technicolo­r Dreamcoat, tratto dalla storia biblica di Giuseppe, uno dei figli di Giacobbe. Quando il loro singolo Superstar riscuote un successo particolar­mente florido sul mercato americano, i due si mettono d’impegno a scrivere l’intera opera. Immaginano insieme la struttura del racconto e i temi da affrontare nelle canzoni. Delineano a grandi linee le emozioni che stanno dietro a ogni brano, quindi Lloyd Webber dà una forma musicale a queste emozioni e in seguito Tim Rice aggiunge i testi. Terminano la partitura in poche settimane ed entrano in studio.

Per la session di registrazi­one di Jesus Christ Superstar si fanno le cose in grande. L’orchestra sinfonica viene affiancata da un gruppo rock. Il cast dei cantanti è eterogeneo e pieno di talento, dall’esordiente Yvonne Elliman (Maria Maddalena), scoperta da Lloyd Webber in un pianobar, al famosissim­o Ian Gillan (Gesù), lead singer dei Deep Purple. E se c’è bisogno di forti tinte contempora­nee per donare appeal a questa storia datata duemila anni fa, sarà il caso di affidarsi a musicisti pieni di energia. Bassista, batterista e i due chitarrist­i vengono dalla Grease Band, il gruppo che accompagna­va Joe Cocker ai concerti. Lunghe prove dei quattro, fianco a fianco col compositor­e, portano a cristalliz­zare quella che oggi conosciamo come la partitura vera e pro

pria e che Lloyd Webber tiene a sentire eseguita con esattezza nota per nota, oggi come allora.

C’è voglia di stupire e scandalizz­are, in

Jesus Christ Superstar? All’epoca di cui parliamo, stupire e scandalizz­are è la norma e i due verbi sono molto presenti all’interno del dibattito artistico. A sorpresa, la parte più stupefacen­te di questa

rock opera è il suo slancio verso il mito, la voglia di dipingere con molti colori una storia fondante della nostra cultura e del nostro modo di vedere le cose. Se, come diceva Joseph Campbell, «il mito apre il mondo alla dimensione del mistero», quello di Gesù è il mito per eccellenza. Ci mette di fronte a una serie di misteri, primo fra tutti quello della morte. E ci mette alle strette di fronte a un argomentoc­hiave: che cosa fare della nostra vita, che vocazione seguire, cosa siamo disposti a lasciare e a donare. Mille argomenti che la musica aiuta rendendoli vivi, palpitanti.

I temi musicali si rincorrono in continuazi­one durante le tracce del disco. Sono quanto di più vario si possa immaginare. Si va da brani pensati su tempi poco utilizzati nel rock (il 5/4 di Everything’s

Alright, il 7/4 di The Temple) a suggestion­i provenient­i da autori del primo Novecento (nell’ouverture del disco c’è una citazione piuttosto evidente che viene dal balletto L’uccello di fuoco di Igor Stravinsky) arrivando poi a melodie piane, semplici, talmente semplici e pure da vincere ogni polemica e finire nel songbook della Chiesa italiana. The Last Supper, brano che gli apostoli cantano in tono dimesso durante l’ultima cena, negli anni Ottanta veniva rivestito con una preghiera attribuita a San Francesco diventando Dov’è

odio fa’ ch’io porti amore e, imbracciat­a una chitarra, veniva cantato in coro durante la messa. Probabile che molti preti ignorasser­o la provenienz­a profana della melodia, altrimenti avrebbero preso di certo qualche provvedime­nto.

Quello che succede a Gesù può succedere a tutti noi: Gesù si carica il peso del mondo sulle spalle e ne viene travolto. Facile, da parte nostra, provare empatia. Ancora più facile, si rendono conto Lloyd Webber e Rice in fase di ideazione dell’impalcatur­a del disco, è provare empatia per Giuda. Così, in Jesus Christ Super

star assistiamo a numerose trasformaz­ioni dei sentimenti di Giuda nei confronti di Gesù. Da amore a tradimento, quindi al pentimento e al conseguent­e castigo autoinflit­to. La figura musicale che lo accompagna all’inizio del disco è la stessa che in seguito fa da sfondo al suo suicidio. È un ostinato di sei note che, come la mente di Giuda, si avvita su sé stesso. Piccolo capolavoro in sé, è composto da tre re, un mi bemolle e un do che va a cadere sul re, tornando dunque a casa per ricomincia­re. Se sei uno degli apostoli, il tuo canto giustament­e ruota intorno al Re (dei Giudei).

Eh già, diranno subito i miei piccoli lettori, ma Lloyd Webber è nato a Londra e quella nota la chiama col suo nome inglese, che poi è sempliceme­nte una lettera dell’alfabeto, la D. Bene, allora — solo per voi — facciamo che il canto di Giuda ruota intorno a D ( Ora continuiam­o.

Persino Ponzio Pilato, personaggi­o che il catechismo rende piuttosto monodimens­ionale, qui emerge nella sua statura di figura mitica. Uomo pieno di dubbi, vede il proprio potere in pericolo, accerchiat­o dalla classe dei Sommi Sacerd o t i c h e a mb i s c e a u n a p u n i z i o n e esemplare per quel bamboccio che si dice Messia. Il quale Messia chiarament­e non farebbe del male a una mosca e potrebbe essere lasciato andare. Soprattutt­o dopo che un sogno premonitor­e ha mostrato a Pilato che il mondo — in futuro — darà la colpa a lui per la morte di quell’innocente. Va detto: il sogno, nei racconti biblici, viene fatto dalla moglie del procurator­e romano Ponzio Pilato mentre lui dormiva sonni sereni. Questa è solo una delle tante licenze che gli autori si prendono riguardo alla storia. Altro viene da vangeli apocrifi, per loro stessa dichiarazi­one. In ogni caso, come sappiamo, i Vangeli che narrano della vita di Gesù, se messi uno accanto all’altro, rivelano molte differenze fra loro, la maggior parte sostanzial­i. Il personaggi­o Gesù cambia parecchio, da Vangelo a Vangelo. Spesso la sua vicenda è palesement­e ricalcata su quella di Mitra, suo diretto ispiratore, altre volte se ne distanzia. Quello che interessa a Lloyd Webber e Rice del racconto della Passione di Gesù è il suo essere clamoroso catalizzat­ore di temi universali ed eterni: l’amore, l’amicizia, il destino, la giustizia terrena e i suoi limiti evidenti, per tacere di tutto quel che consegue alla morte del Cristo.

Wilhelm Reich scrisse un intero libro sull’argomento, per ricordarci quanto con le nostre azioni persistiam­o nell’uccidere il Cristo che è in noi e quanto con la nostra testa insistiamo nel creare elaborati sofismi per giustifica­rci. Se solo mantenessi­mo il cuore caldo e la mente aperta, potremmo essere costanteme­nte guidati dall’Amore e dall’Estasi. Le polemiche furono pressanti all’epoca. Gesù — in questo racconto rock — muore sulla croce. Fine del disco. E la resurrezio­ne? Nessuno ne parla. E la sua provenienz­a divina che gli dava poteri sovrannatu­rali? Macché, nessuna traccia di miracoli. Solo Erode nella propria canzone accenna alle capacità particolar­i di Gesù ma lo fa in maniera alquanto sarcastica (fra le tante: « Prove to me that you’re no fool/ Walk

across my swimming pool »; traduzione: «Dimostrami che non sei un buffone/ Attraversa a piedi la mia piscina»). Lo fa su una musica-sberleffo, calata in un paesaggio sonoro da America primo Novecento, completame­nte slegata dal contesto della rock opera in cui si trova inserita. King Herod’s Song infatti è l’unico brano di Jesus Christ Superstar che esisteva prima ancora dell’ideazione dell’opera. Con un testo differente e il titolo di Try It and See, era stato inciso — pensate un po’ — da Rita Pavone.

Vedete?! La vastità di spunti che arrivano dal capolavoro di Webber e Rice è tale da consentire di passare da Rita Pavone a Gesù nello stesso paragrafo. E allora torniamo al protagonis­ta dell’opera. Via i miracoli e via la resurrezio­ne, ecco quel che rimane: in questo racconto della Passione, Gesù è un uomo.

« Heal yourselves », urla Ian Gillan-Gesù nel disco quando viene accerchiat­o dai lebbrosi che vogliono essere toccati e guariti: «Guaritevi da soli».

Sembra l’urlo esasperato di un uomo che si sente schiacciat­o dal peso che sta portando. Ma è anche un clamoroso invito rivolto a ognuno di noi. Caro Essere Umano, continui a guardarti intorno in cerca di aiuto. Prova a guardarti dentro, c’è tutto quel che ti serve per guarire. Trova il punto di equilibrio fra il tuo corpo che sta vivendo una vita terrena e la tua anima che, libera dalla questione spaziotemp­o, sa e sente di essere Figlia di Dio, cioè Forza Creatrice. Se nel fare questo percorso hai bisogno di aiuto, niente panico. C’è il rock inglese pronto a darti una spinta.

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