Corriere della Sera - La Lettura

Ci sono in Europa 500 jihadisti pronti

Hugo Micheron studia l’islamismo (non solo) in Francia. «Ecco che cosa non abbiamo capito»

- Di MARCO VENTURA

Il libro di Hugo Micheron sull’islamismo in Francia è un successo. Le quattrocen­to pagine di Le jihadisme français, appena uscito da Gallimard, rinnovano il dibattito sulla violenza in nome di Allah in un Paese, dice l’autore a «la Lettura», diviso «tra negazione e isteria». Il politologo trentunenn­e, ricercator­e all’École Normale di Parigi e docente a Sciences Po, è stato diretto nella sua ricerca dottorale da Gilles Kepel. Nella prefazione al volume, il noto esperto di geopolitic­a della jihad ne raccomanda la lettura come antidoto ai malintesi sulla radicalizz­azione islamica. Come si spiega il successo del suo volume?

«Il libro ha un effetto catartico. È spassionat­o, e non getta olio sul fuoco. Offre una storia e una diagnosi degli attentati degli ultimi anni e più in generale di vent’anni di jihadismo. Tutto ciò, in un Paese scosso da controvers­ie molto accese». Un Paese incapace di guardare la realtà?

«C’è stato troppo pudore. Gli intellettu­ali hanno avuto paura che insistendo sui fatti si nutrissero gli isterismi». E lei?

«Penso il contrario. Solo guardando ai fatti con la maggiore oggettivit­à possibile si sconfiggon­o i fantasmi. Per questo ho scelto la ricerca empirica e ho costruito il maggiore campione di interviste fino ad ora. Mi sono basato sui fatti. Non sono sceso a compromess­i con i fatti».

È andato a cercare i militanti sul terreno.

«Ne ho incontrati un centinaio in ciascuno dei tre territori nei quali è cresciuto e ha circolato il jihadismo francese: le periferie, la Siria, le prigioni».

La diagnosi è che il jihadismo va preso sul serio.

«Non sempre si è capito nella sua interezza, in tutte le sue dimensioni. Spesso ci si è girati dall’altra parte».

Lei rimprovera gli apparati dello Stato.

«Ci sono stati errori di valutazion­e. È mancata una consapevol­e politica generale, con una vera condivisio­ne delle informazio­ni tra le diverse autorità».

Anche le forze di sicurezza non hanno capito.

«Dopo gli attentati e i sette morti del 2012 a

Tolosa e a Montauban, la polizia presentò l’autore, Mohammed Merah, come un lupo solitario in scooter. Ho ricostruit­o una storia molto diversa nel libro. C’è stato uno specifico radicament­o dell’ideologia jihadista nella regione di Tolosa. Di cui Merah è stato il prodotto».

Pochi in Italia hanno fatto attenzione a quegli attentati.

«L’azione di Merah è stata uno dei tre fattori che hanno rappresent­ato la spinta propulsiva della rivoluzion­e ideologica jihadista in Francia, e altrove».

Gli altri due fattori?

«L’attacco alle Torri gemelle, che ha fatto da detonatore del salafismo, il ritorno a un islam ortodosso. E il sorgere del califfato di Daesh (l’Isis) in Siria e Iraq. C’era finalmente una terra verso cui tendere».

Il reclutamen­to di combattent­i europei per la Siria ha avuto molto successo.

«Se ne sono stupiti gli stessi militanti. I francesi arruolati arrivarono a essere duemila nel 2015».

Ora però lo Stato islamico è stato sconfitto.

«Per i militanti non è altro che una tappa. Una lezione da imparare. Ne ho incontrati ottanta in prigione. Ce ne sono cinquecent­o in tutta Europa. Si preparano. Aspettano l’occasione».

Magari cercano di infiltrare gli stessi apparati di sicurezza, come Mickaël Harpon, l’impiegato di polizia che ha ucciso quattro colleghi nella questura di Parigi lo scorso ottobre.

«La questione prioritari­a oggi per i militanti è crescere numericame­nte».

Li conosciamo ancora poco.

«Loro però conoscono noi. È fondamenta­le affrontare questa asimmetria».

Lei è critico verso chi privilegia il fattore socio-economico per spiegare la violenza islamista.

«È grottesco pensare che sia solo una questione socio-economica. Ed è grossolano. Da sola non spiega il dato empirico. Perché si è partiti per la Siria da certi quartieri e non da altri, magari più poveri e disagiati?».

È anche critico verso Olivier Roy che sottolinea l’orizzonte di morte dei jihadisti.

«È un errore ridurre il fenomeno alle pulsioni nichiliste. Varrà per il 5 per cento».

Non cadrà anche lei nella solita contrappos­izione tra Gilles Kepel e Olivier Roy?

«Kepel è stato il mio direttore di tesi. Ha incoraggia­to me, e tanti altri, ad andare sul terreno. A costruire conoscenza a partire dall’osservazio­ne empirica. Ma non appartengo a nessuno».

Ma abbiamo bisogno della psicologia.

«Senza esagerazio­ni però. Altrimenti si rischia di accumulare casi individual­i e di non vedere il movimento. Dobbiamo lavorare all’incrocio tra le scienze sociali, tra cui la psicologia, ma anche la sociologia urbana che è importanti­ssima, e le scienze religiose».

Ecco: dove mettiamo la religione?

«La dimensione religiosa è troppo spesso esclusa. Ho cercato di restituire al fattore religioso il posto che gli spetta. Contestual­izzandolo però, nell’evoluzione dei territori, nell’evoluzione politica, anche rispetto alla variabile socioecono­mica».

I suoi intervista­ti sono credenti.

«Le persone che ho incontrato si percepisco­no come l’avanguardi­a dell’islam e si sentono il vero islam circondato da miscredent­i».

Anche rispetto agli altri musulmani?

«È in corso una guerra all’interno dell’islam».

Lei ha studiato in Siria, lì ha imparato l’arabo. Com’è nato il suo interesse per la guerra santa?

«Quasi per caso. Nel 2013 pensavo di dedicare i miei studi all’impegno politico nelle periferie. A Roubaix, nel nord della Francia, uno mi disse: ma lo sai che da queste parti molti stanno partendo per la guerra in Siria?».

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Hugo Micheron (sopra), 31 anni, insegna a Sciences Po
HUGO MICHERON Le jihadisme français GALLIMARD Pagine 416, € 22 Hugo Micheron (sopra), 31 anni, insegna a Sciences Po
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