Corriere della Sera - La Lettura

E Jünger scoprì che la tecnica asserviva l’uomo

Modernità Cent’anni fa usciva «Nelle tempeste d’acciaio», libro nel quale lo scrittore tedesco raccontava la sua esperienza nella Grande guerra. Un resoconto impersonal­e della tragedia bellica che trasforma i soldati negli ingranaggi di una macchina di mo

- CARLO GALLI © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Nel 1920 — un secolo fa — Ernst Jünger pubblicò in edizione privata la sua prima opera: In Stahlgewit­tern, cioè Nelle tempeste d’acciaio. È stato uno dei libri più letti del XX secolo, e ha dato fama leggendari­a al suo autore; ed è il libro più radicale sulla Grande guerra, l’opera che affronta più in profondità l’evento che ha cambiato per sempre l’Europa e gli europei, che ha dato senso all’esperienza di più generazion­i.

Benché Jünger lo abbia in seguito ripetutame­nte rivisto e accresciut­o, il libro deriva dai taccuini che egli compilò in guerra, dal 1914 al 1918. Una guerra che combatté in trincea, sul fronte occidental­e, dove fu ripetutame­nte ferito e decorato, concludend­o il suo servizio come comandante di reparti d’assalto. Morì nel 1998, a 103 anni, carico di rinomanza mondiale — ma la sinistra lo aveva accusato di trasportar­e in una sfera mitologica problemi che hanno una precisa origine sociale ed economica — dopo una vita passata a decifrare il mondo umano e naturale (facce di un’unica Sostanza, secondo l’idea di Goethe) con entomologi­ca precisione — ebbe la passione degli insetti, e scoprì alcune specie che portano il suo nome.

Il suo coraggio fu anche morale; rifiutò di collaborar­e con i nazionalso­cialisti, non accettando i ruoli pubblici offertigli da Joseph Goebbels, e, ufficiale della Wehrmacht a Parigi, partecipò marginalme­nte alla congiura contro Adolf Hitler del 20 luglio 1944. Certo, era stato negli anni Venti un esponente della «Rivoluzion­e conservatr­ice», un nazionalis­ta ostile alla Repubblica di Weimar, animato da uno spirito antilibera­le e antiborghe­se; ma già durante il nazismo, con un capolavoro come Sulle scogliere di marmo (1939), e nel secondo dopoguerra si liberò dal nazionalis­mo con un’evoluzione in senso teoretico: lo dimostra la vasta produzione saggistica in cui la sua capa

cità di individuar­e in immagini nitidissim­e le forme traslucide che sorreggono il tumulto del divenire tocca vertici di perfezione e raffinatez­za stilistica. Un grande letterato nel solco di Friedrich Nietzsche.

Ma tutto nasce da Nelle tempeste d’acciaio. È nella guerra come «rito di passaggio» (così la definì Eric Leed) che Jünger inizia la sua avventura di decifrator­e dell’esperienza: è lì che mette a punto la sua idea che la soggettivi­tà si rovescia in oggettivit­à, che l’umanesimo, la libertà, la cultura hanno in sé un nocciolo di violenza, di nichilismo, di disumanità, che la guerra fa emergere con spaventosa chiarezza. Se Paul Valéry ha scritto che la Grande guerra ha rivelato che le civiltà sono mortali, Jünger è andato oltre: ha sperimenta­to che le civiltà moderne hanno come destino di trasformar­si da regno dell’uomo in barbarie impersonal­e; che la sicurezza della pace borghese, del potere liberale e democratic­o, è intrisa di violenza militare; che produzione e conflitto sanguinoso si compenetra­no; che perfino l’eroismo individual­e è inservibil­e, soppiantat­o da una guerra meccanica simile al lavoro. Lavoro e guerra sono espression­i della medesima Sostanza, che ha assunto la forma non-umana della tecnica. E questa non è strumento, ma essa stessa signora dell’uomo; una nuova natura.

Il libro non trasmette furore, odio, esaltazion­e; anzi, una delle principali caratteris­tiche dell’arte di Jünger è che in lui sono compresent­i — tenute insieme dalla lingua e dallo stile — opposizion­i, antitesi, polarità. Nelle tempeste d’acciaio è un libro monotono, in cui non succede nulla di nuovo (questo è il punto di contatto con il capolavoro pacifista di Erich Maria Remarque, per il resto lontanissi­mo da Jünger) perché tutto è già successo, perché l’uomo è già stato superato, lasciato alle spalle; e al tempo stesso è un libro che affascina e avvince per la novità dell’esperienza di cui fa partecipe il lettore. Vi domina una inedita mescolanza di stupore e di freddezza, di disorienta­mento e di meccanico attaccamen­to al dovere, di rispetto per il nemico (e in seguito la Francia ricambiò, assumendo l’autore nel proprio pantheon letterario) e di disposizio­ne all’uccisione, al cecchinagg­io; di straniamen­to e di concentraz­ione su di sé. Jünger combatteva da soldato, e al tempo stesso, fra un attacco e l’altro, da letterato leggeva Tristram Shandy di Laurence Sterne e l’Orlando furioso. La trincea era la sua casa; la morte era la sua esperienza vitale; la violenza gli si è rivelata la forma quotidiana dell’esistenza. L’orrore del sangue, delle membra disarticol­ate dalle bombe, delle atroci agonie, è narrato e vissuto con partecipe freddezza, con solidale oggettivit­à.

Tutto ciò è detto senza enfasi né lamenti, senza patetismi e senza estetismi, con rigore glaciale. Nelle «battaglie di materiali» della Grande guerra, nella guerra totale in cui tutta la società e tutta la sostanza biologica dei popoli sono all’opera per dissanguar­e il nemico, Jünger capisce che la pace non tornerà più.

Non che Jünger sia un bruto. Anzi. È proprio la sua sensibilit­à — il dolore, a cui dedicò un saggio di vibrante intensità, è la via per la conoscenza di sé — a renderlo capace di vedere e di agire. È la sua sensibilit­à che gli toglie illusioni e debolezze, che paradossal­mente lo anestetizz­a e gli concede uno sguardo disincanta­to sul mondo: personalme­nte coinvolto nella Battaglia come esperienza interiore (il titolo di un’altra sua opera, pubblicata nel 1922), è al contempo distaccato, lucido: anche quando dice Io parla all’impersonal­e; il suo è lo sguardo del diagnosta: non a caso si definiva un «sismografo», un dispositiv­o che registra i sommovimen­ti tellurici di quella Sostanza in cui convergono uomo tecnica e natura. Questo è il senso del «realismo eroico», la cifra delle Tempeste d’acciaio.

La guerra è per lui un’avventura — Il cuore avventuros­o (1929) è uno dei suoi libri più importanti — che lo conduce a quella che in un testo memorabile, Al muro del tempo (1959), definirà la «linea del nichilismo», il «meridiano zero», da cui non c’è ritorno. E Jünger non ha mai indietregg­iato: ha voluto sperimenta­re tutto (anche la forza fantastica dell’Lsd) perché la disciplina a cui è stato sottoposto, l’iniziazion­e della guerra, lo ha reso capace di affrontare ogni passaggio esistenzia­le. La guerra ha distrutto le illusio

ni di quello che Stefan Zweig avrebbe definito il «mondo di ieri», ma non la sua fiducia in sé stesso.

Jünger è animato da un paradossal­e ottimismo: crede che si possa riconoscer­e il destino realizzato, l’impersonal­e dominio tecnico del mondo, e che si possa resistervi: non sottraendo­visi, non retroceden­do nella nostalgia di una Kultur idealizzat­a, ma anzi avanzando armati — e interiorme­nte induriti — nel deserto del mondo.

Come il carbone sotto immani pressioni diventa diamante, così il soggetto sotto il peso delle potenze scatenate conosce una serie di metamorfos­i — in cui si esprime la Sostanza stessa del mondo. La prima è qui: la metamorfos­i dell’uomo in materiale, del soggetto nell’ingranaggi­o di una macchina di morte, in un automa; e in parallelo, è il prender vita delle macchine, la loro spietata autonomia. Una metamorfos­i che trova la sua figura nel «tipo» del Lavoratore: così Jünger intitola il suo libro più famoso, Der Arbeiter

(1932), di cui è protagonis­ta il Titano, il Milite del Lavoro (come lo definì il giovane Delio Cantimori) adeguato al compito che la tecnica gli consegna: La mobilita

zione totale (titolo di un suo saggio del 1930 di cruciale importanza) della società, divenuta un’immensa fabbrica per la guerra, per il ciclo di produzione e distruzion­e, di lavoro e morte. Dalle tempeste d’acciaio emerge l’Operaio d’acciaio. Un’immagine in cui si uniscono nichilismo e potenza, degna di Metropolis,il famoso film di Fritz Lang, più che di Tempi

moderni di Charlie Chaplin.

Ma Jünger nel secondo dopoguerra interpreta il nichilismo tecnico-militare come una fase delle metamorfos­i della Sostanza; una fase che può esaurirsi ed essere superata in altre figure: l’Anarca, aff i n e a l R i b e l l e c h e h a c o mp i u t o i l «passaggio al bosco», che si è affrancato dalla società, dalla politica, dal Leviatano — che non comanda e non è comandato, che è estraneo al potere, invulnerab­ile (proprio come le ferite di guerra hanno reso Jünger). Figura aristocrat­ica di suprema risolutezz­a esistenzia­le quanto l’Operaio è figura sociale e militare.

È su questa ottimistic­a fede in una nuova figura post-nichilisti­ca della Sostanza e del soggetto, sulla possibilit­à di vedere nel mondo le forme della bellezza e non solo del dominio, che scatta la divergenza di Martin Heidegger. Il filosofo ha dedicato a Jünger seminari universita­ri nei primi anni Quaranta, e poi nel 1955 una delle sue opere più celebri, Su «La li

nea» (poi rinominata La questione del

l’essere), in risposta a un intervento dello stesso Jünger intitolato Oltre la linea

(1950); e ha visto in lui l’autore più consapevol­e della centralità esistenzia­le e ontologica della tecnica. Nondimeno, Jünger, che vede certamente più di tutti, è cieco davanti al significat­o di ciò che vede: non ha gli strumenti teorici per intendere che il trionfo della tecnica è il trionfo di quella nietzschia­na volontà di potenza che intride di nichilismo la metafisica occidental­e, e che non può essere «superata» o attraversa­ta, ma va lasciata esaurire, come una malattia da cui rimettersi.

Certo, ancora oggi siamo coevi di Jünger. Benché sia figlio di un’epoca in cui la tecnica era meccanica e non elettronic­a, improntata al colossale e non alle nanotecnol­ogie, è impossibil­e non cogliere l’analogia fra la sua esperienza e la nostra. Se al Lavoratore d’acciaio sostituiam­o il cyborg e i robot con la loro intelligen­za artificial­e, e alla battaglia di materiali della guerra totale il controllo sottile sulla vita di ognuno attraverso i Big Data (ma già nel 1957 Jünger previde l’universo della sorveglian­za in Le api di vetro), non vediamo forse in lui l’annunciato­re di una convergenz­a fra l’uomo e la tecnica divenuta seconda natura, di una universale e impersonal­e prigionia tecnologic­a, di una minaccia post-umana che ci trascende, di una compenetra­zione nichilisti­ca di pace e guerra, divenuta esperienza quotidiana? E al tempo stesso non sentiamo la forza che ci trasmetton­o la sua trattenuta sofferenza, la fermezza fantastica del suo stile, la potenza della sua immaginazi­one?

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Federico Clapis (Milano, 1987), Addolorata
Concezione (2018, resina, dettaglio), courtesy dell’artista: l’opera è stata esposta alla Triennale di Milano nell’ambito dell’evento
Deep Scrolling Experience.
Nella foto piccola della pagina a sinistra: Ernst Jünger (1895-1998) in divisa da ufficiale
Le immagini Federico Clapis (Milano, 1987), Addolorata Concezione (2018, resina, dettaglio), courtesy dell’artista: l’opera è stata esposta alla Triennale di Milano nell’ambito dell’evento Deep Scrolling Experience. Nella foto piccola della pagina a sinistra: Ernst Jünger (1895-1998) in divisa da ufficiale

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