Corriere della Sera - La Lettura
Percival Everett Mi sento astratto
ficato finché non iniziano ad averlo. Diversamente da ciò che crede l’America bianca, i neri non pensano a sé stessi come non-bianchi. Nella letteratura americana c’è la tendenza a descrivere le persone come non-bianche, io cerco di capovolgerla descrivendo i bianchi come non-di-colore. Nella nostra cultura la normalità delle persone di colore viene percepita come sorprendente: è ciò che sperimentano in continuazione. Non intendevo politicizzare il colore nel libro. Se succede, però, succede».
Anche lei, come il protagonista, è un pittore. Che tipo di quadri realizza?
«Quadri che, alla fine, ho accettato di definire astratti, una parola alla quale ho resistito per lungo tempo.
Ma non sopporto di fare riferimento alle cose attraverso la negazione, per esempio dire “arte non figurativa” per me non è accettabile. E poi mi sono reso conto di scrivere perché amo l’astrazione, non solo nella pittura. Mi piacerebbe scrivere un romanzo astratto, anche se sto ancora cercando di capire che cosa voglia dire. I miei romanzi sono sempre un po’ strani perché sto cercando di realizzare qualcosa che non conosco. Nel leggerli vorrei fare la stessa esperienza che vivo guardando un quadro di Jackson Pollock».
Un romanzo astratto sarebbe più universale?
«Me lo chiedo anch’io. Amo la musica, che è necessariamente astratta. E adoro l’arte visiva, che può essere astratta... ma lo è davvero? Ci sono astrazioni delle cose che si comportano come la fiction. Guernica di Picasso racconta una storia: in quel dipinto il cavallo appare diverso dai cavalli che vediamo, ma è pur sempre un ca