Corriere della Sera - La Lettura
Buffalo Bill, Moana & C. Stessi sogni, più o meno
Da svegli, diceva Eraclito, tutti gli uomini hanno un mondo in comune, mentre nel sonno ognuno ritorna in un mondo tutto suo. I sognatori di Danilo Soscia, invece ( Gli dei notturni. Vite sognate del ventesimo secolo, che continua e conferma la prova di talento già offerta da Atlante delle meraviglie. Sessanta piccoli racconti mondo, anche questo edito da Minimum Fax) sognano tutti allo stesso modo: quello dell’autore. È un punto di forza e un punto di debolezza insieme.
Di forza, perché conferisce al suo libro una grande compattezza, esibendo la prestazione di una lingua che vanta una presa idiosincratica, coerente, spietatamente inevitabile sul mondo, incurante dei possibili effetti di monotonia: nel ritmo del periodo (quattro o cinque moduli sempre ricorrenti), nella predilezione accusata per la metafora, la sinestesia e soprattutto la prosopopea, l’animazione dell’inanimato, quasi tutto il mondo parlasse, agisse, volesse e sentisse come un essere umano, inverni che si impiccano, roulette che impartiscono l’estrema unzione, detergenti che ingoiano fetore, il tutto tratto da aree piuttosto estreme del linguaggio, senza che al lieve, al tenue, al dolce, allo sfumato sia mai data la minima chance di poter dire la sua. Si esce dalla lettura del libro come da un teatro in cui uno scenografo prepotente ha avuto la meglio sul regista, sul drammaturgo e sugli attori.
Qui si insinua la potenziale debolezza. I sogni dei personaggi di Soscia, tutti famosi, da Buffalo Bill ad Aldo Moro, da Billie Holiday a Saddam Hussein, da Moana Pozzi a Eva Braun, da Marilyn Monroe a Ho Chi Minh, da Giulio Andreotti a
Bonnie e Clyde, da Joseph Mengele a Virginia Woolf, sono anche tutti fatti della stessa sostanza, al punto che potrebbero, dato aneddotico a parte, essere intercambiabili. Sono tutti scritti, iperscritti. Non hanno nulla a che vedere con la povera, semimuta sostanza immaginaria che ci troviamo in mano al risveglio, con le penose ricuciture narrative che compiamo per renderli anche solo minimamente comunicabili a chi vuole ascoltarci, magari a pagamento come lo psicanalista: i «mi sembra», i «forse», i «ma questo era dopo», la distanza sempre solo imperfettamente colmabile tra il linguaggio dell’Es e le pretese di articolazione e coerenza ingiunteci dal «processo secondario», il discorso della veglia in cui vigono il tempo e il principio di non contraddizione. Sono sogni-discorsi, sogni oratorii, sogni retorici, sogni con una chiave, de