Corriere della Sera - La Lettura
La fabbrica del bronzo
Diceva Giacomo Manzù: «La scultura è il gesto della mano». Per assistere a questo gesto siamo andati alla Fonderia Artistica Battaglia, oggi di Matteo Visconti. Qui, a Milano, sono passati i più grandi: Medardo Rosso, Fontana, Boetti; qui Francesco Messina ha fuso il cavallo della Rai; qui Giannino Castiglioni ha realizzato il portale del Duomo
Rochelle Goldberg, con una sorta di spavaldo basco portato sulle ventitré, è intenta a cesellare la sua ultima scultura di bronzo. È in un’ampia sala della Fonderia Battaglia, avvolta da un cappotto per proteggersi dal freddo, ed è attorniata da tre ragazzi in tenuta da lavoro e concentrati nell’ascoltarla per seguire le indicazioni sul da farsi. D’altronde, l’artista canadese che vive tra New York e Berlino, qui, nel grande spazio della Fonderia è come se fosse a casa: nel 2018, è stata la vincitrice del «Battaglia Foundry Sculpture Prize», il premio internazionale che celebra e gratifica la nuova generazione di artisti che si avvicinano alla scultura in bronzo. Un riconoscimento molto speciale, unico in Italia, che rappresenta un’interessante sfida culturale nella volontà di legare la scultura di bronzo ai linguaggi dell’arte contemporanea, oggi, sostanzialmente poco frequentata, soprattutto dagli artisti sotto i quarant’anni. E Goldberg, che di anni ne ha 35, è uno dei tanti esempi di questa relazione tra materia dell’arte, processi creativi e quel prezioso supporto di esperienza, professionalità e dedizione che ogni artigiano offre all’artista nella creazione dell’opera.
Il punto è qui, spesso dimenticato se non addirittura rimosso. Quanto contano questi silenziosi custodi di sapienze lontane che dietro le quinte danno forma e sostanza alle visioni degli artisti? Chi sono questi portatori di saperi tramandati da generazione a generazione? Certo, qui, tra i capannoni della cittadella di Lambrate, Milano, dove Battaglia si è spostata da un anno dalla storica sede di via Stilicone, proprio grazie a questi sconosciuti angeli custodi, tutto lascia suggerire l’idea di una grande, misteriosa, promessa. Per un artista qui tutto appare possibile. E qui, gli autori relativamente giovani come Rochelle Goldberg, sembrano muoversi con voracità, sapendo che un luogo carico di memoria è anche ricco di un’energia invisibile e offre aiuto, sicurezza, protezione. Un’energia capace di nutrire, arricchire, di donare nuove suggestioni e progetti.
In questo senso, la storica Fonderia Artistica Battaglia, con i suoi cent’anni e con la lunga storia di rapporti con i più grandi scultori del passato, rappresenta un esempio importante, non certo unico nel panorama italiano (ci sono almeno 30 fonderie d’arte sparse nel Paese) ma senz’altro Battaglia è un’eccellenza: per l’accoglienza, il servizio e le potenzialità espressive (in questo caso davvero uniche) simboleggiate dalle oltre 150 diverse formule (tenute segrete) di patine che la fonderia mette a disposizione degli artisti. Un vero sostegno creativo. Lo conferma, con etica «nordica», la stessa Goldberg, tanto da affrontare un lungo viaggio da New York per raggiungere la sede di Lambrate: «Non trovo giusto fare confronti e quindi non voglio fare nomi di altre fonderie con cui ho lavorato fuori dall’Italia, ma sicuramente la ricchezza di contributi tecnici, operativi e la qualità professionale e umana che ho trovato qui, è davvero unica».
Il bronzo e il marmo, si sa, costituiscono nella storia dell’arte le materie che associamo al concetto di eternità: basterebbe ricordare i Bronzi di Riace, recuperati quasi perfetti dal mare, o la Venere di Milo, conservata al Louvre, per affermare il potere dell’arte sull’inesorabile fluire del tempo. Oggi, sempre di più, l’arte contemporanea sembra condurci invece in quei territori dell’effimero, con installazioni precarie, spesso fragili, con supporti addirittura deperibili (pensiamo alla ormai celebrata e provocatoria banana di Cattelan) in cui prevale (anche giustamente) la dimensione concettuale, l’idea, il pensiero. E più provocatorio è il pensiero, più potenti sono la visibilità e il messaggio. Certo, su questi temi si discute da sempre. Lo ricordava anche Alberto Giacometti che era critico già allora sui suoi contemporanei: «Tutto il percorso degli artisti moderni è in questa volontà di afferrare, di possedere qualcosa che sfugge continuamente... E come se la realtà fosse dietro tanti velari che si strappano. Ce n’è ancora un’altra, sempre un’altra».
Ma la Fonderia Battaglia sembra muoversi in una direzione culturale (e imprenditoriale) che guarda al tempo non come a un flusso lineare, ma come a un percorso ricco di corsi e ricorsi. Così, in un momento di crisi generalizzata che tocca l’intero sistema dell’arte, e in particolare le fonderie artistiche, molte costrette alla chiusura, Battaglia ha deciso di ripensare alla propria storia, ma guardando alla complessa dinamicità del presente. Senza fermarsi sul suo passato glorioso che ha visto transitare giganti come Medardo Rosso, Adolfo Wildt, Marino Marini, Lucio Fontana, Giacomo Manzù, Giannino Castiglioni (suo il portale del Duomo di Milano), Francesco Messina (qui ha fuso il cavallo della Rai), Flo
riano Bodini, ma anche Kengiro Azuma e Alighiero Boetti (con il suo celebre autoritratto fumante) e più recentemente Giuseppe Maraniello, Arnaldo Pomodoro, Giuseppe Penone, per citare solo qualche nome.
Un progetto di trasformazione che nasce dalla sensibilità di Matteo Visconti, nuovo proprietario di Battaglia, imprenditore nel mondo dell’acciaio, sofisticato bibliofilo, amante dell’arte e della montagna (gli piace raccontare che nel fare sci alpinismo si porta sempre una copia de «la Lettura» che ama leggere in vetta). Visconti, che non ha paura delle sfide, investe sulle nuove frontiere dell’arte e del design, con un’apertura anche al mercato, con spazi espositivi ed edizioni limitate gestite dalla Fonderia. E poi, l’idea è di puntare sulla progettualità delle nuove generazioni: oltre al premio, ne sono esempio gli «Open studio» (quasi residenze d’artista) e il dialogo con autori concettuali come la francese Marguerite Humeau o Francesco Arena (sta completando una monumentale installazione circolare di bronzo) o ancora, Nico Vascellari, Giorgio Andreotta Calò, che ha realizzato proprio da Battaglia le opere presentate al padiglione italiano della Biennale di Venezia, nell’edizione 2017, o emergenti come Serena Vestrucci e Francesco Simeti.
La storia recente è rappresentata anche dal grande scultore Arnaldo Pomodoro, classe 1926 (sua la celebre opera davanti alla Farnesina), storico frequentatore di Battaglia: ha fatto qui la sua prima fusione in bronzo, qui ha realizzato la grande sfera ora in Vaticano. Ricorda con passione quell’esperienza carica di mistero e segrete rivelazioni: «Da Battaglia ho realizzato tutti i miei lavori più complessi, quelli più difficili. Il bronzo per me significa durata, sfida, immortalità; il bronzo resta per sempre. La fonderia Battaglia conosce i suoi artisti e il loro lavoro: alcune volte mi facevo consigliare e insieme trovavamo le soluzioni. La fusione dev’essere così: grazie all’umanità e alla professionalità non solo un metodo tecnico, ma processo di sintesi, un momento di congiunzione tra l’artista, l’opera e il suo significato».
Anche un artista come Velasco Vitali da anni ha un costante rapporto con la fonderia, storicizzato anche da un poetico film ( Il gesto delle mani) che lo vede protagonista nell’atto della creazione di una delle sue sculture più iconiche: uno dei suoi celebri cani che spesso colloca come parte di un branco, recentemente esposti anche in una grande installazione a Torino, alla Reggia di Venaria.
Il film, che ha la regia di Francesco Clerici, è stato premiato al festival di Berlino, e vede tre protagonisti: da una parte le mani dell’artista, i suoi gesti lenti, quasi sofferti, meditati, da alchimista che opera un’autentica e antichissima trasmutazione. Dalla forma di cera al metallo. Dall’altra, la Fonderia Battaglia, con la sua storia, la sua mitologia, i suoi lavoratori che operano sicuri e silenziosi, capaci di trasformare un’idea in materia da guardare, toccare, accarezzare. In una parola: scultura.
Infine, terzo protagonista, il tempo. La vera straordinarietà della fusione di una scultura in bronzo è che nell’era della più sofisticata tecnologia, nella contemporaneità del digitale, del 3D, nei giorni dell’esplorazione spaziale e dei robot che modellano il marmo, la creazione di una scultura in bronzo con la tecnica della cera persa è esattamente la stessa di quella del 3500 avanti
Cristo. Quel rito è rimasto lo stesso. Come se il tempo si fosse fermato. Così, come si realizzavano le piccole sculture sumere dedicate a oscure divinità, oggi ci celebra quell’antica sapienza attraverso un’estetica del gesto messa a punto attraverso una stratificazione di sensibilità, talento e misteriose conoscenze, ricche della stessa lontana magia.
Non a caso, a celebrare questa pratica nel 2012 la Royal Academy of Arts ha messo in scena una mostra bellissima con un titolo che non lascia spazio a equivoci:
Bronze. Una mostra ricchissima ed emozionante che presentava splendidi bronzi antichi greci, romani ed etruschi, fino a rare opere sopravvissute del periodo medievale. Il Rinascimento era rappresentato da opere di artisti come Ghiberti, Donatello, Cellini e successivamente Giambologna, De Vries sino a Rodin, Boccioni, Picasso, Jasper Johns, Moore, Beuys e Bourgeois. Una sorprendente (forse irripetibile) testimonianza della potenza espressiva del bronzo: in qualche modo, una suggestione agli artisti contemporanei.
Ricordava Giacomo Manzù: «La scultura non è un concetto. Scultura è il gesto della mano. Nella gestualità del corpo sta la relazione con il mondo, il modo in cui lo vedi, il modo in cui lo senti, il modo in cui lo possiedi». Già, «possedere il mondo» è simbolicamente quello che ogni artista ha come ancestrale desiderio. Un desiderio inseguito da sempre, anche attraverso il bronzo, dalle prime sculture votive etrusche (incredibilmente simili a Giacometti) ai seducenti corpi di Rodin.
Stiamo parlando di opere e di artisti uniti da un gesto e da una tecnica tramandata per secoli: la «cera persa». Ma che significano davvero queste due parole? Quali segreti celano? Di fatto, è una pratica millenaria, con tecniche simili, ma come sempre accade, con lavorazioni spesso speciali e segrete, come per la torta della nonna. La tecnica della «cera persa» si basa sulla colatura di metallo fuso all’interno di una forma che, di fatto, è il negativo della scultura che si vuole ottenere: di solito, l’artista esegue prima un modello nel materiale che ritiene più opportuno. Qui vale tutto: un osso di seppia, una figura in argilla, anche un pezzo di formaggio Emmental, con tanti buchi nuovi, come ci è capitato di vedere in Battaglia, durante la nostra visita. Del modello viene poi realizzato uno stampo in gesso o gomma siliconica, questo processo si chiama «formatura», che è il «negativo» su cui lavorare. Da qui si ottiene un «positivo» in cera che verrà ritoccata come l’artista vuole. Dopo avere realizzato il modello in cera, al modello si applicano i «canali di colata» (in plastica, bambù, cera) che serviranno a fare fluire il metallo fuso. Viene dunque realizzato un secondo negativo, coprendo il tutto con uno strato di gesso e terra refrattaria. Il calco viene cotto lentamente in forno (per 12 giorni a 650 gradi) e per effetto del calore, la cera si scioglie (da qui il termine «cera persa») creando una intercapedine su cui verrà colato il bronzo fuso a 1.200 gradi. E questa è la vera e propria «fusione».
La scultura viene dunque liberata dal calco di fusione e dalla rete dei canali. Viene ripulita, rifinita, cesellata e infine — fondamentale — si può dare la patina che l’artista vuole. Battaglia ha circa 100 tipi di patine, in parte frutto di formule segrete. Come ogni fonderia esistono segrete tecniche di lavorazione, di specializzazione e di cesello. Molte fonderie sono intorno a Verona, altre nel Napoletano, altre ancora nella zona di Pietrasanta e della Versilia, dove la scultura in bronzo (o marmo) ha tuttora un particolare successo: Fernando Botero, Igor Mitoraj, Ivan Theimer, Marcello Jori, Nello Finotti hanno realizzato e realizzano prevalentemente qui i loro lavori.
Chi andasse in questi giorni a fare visita alla Fonderia Battaglia, resterebbe colpito dall’universo labirintico delle tante sale dedicate ai gessi, alla fusione, ai ceselli. Ma in particolare vedrebbe intorno a sé tante barchette (esattamente 33) pronte per le nuove edizioni limitate: barchette di carta, barchette di cera, barchette di bronzo. Nel reparto in cui si realizzano le colate di fusione, Velasco Vitali e Matteo Visconti, stanno discutendo sulla particolare patina da dare alle barchette in vista della consegna del premio de «la Lettura»: il riconoscimento del libro dell’anno è stato appena assegnato a Sandro Veronesi. E sarà lui a portarsi a casa una speciale e unica, per patina e forma, barchetta di bronzo. Attorno, la squadra di giovani operai in tuta d’amianto sono intenti a sollevare il crogiolo con il metallo fuso: ogni «barchetta» è realizzata partendo dalle vere pagine del giornale (quelle che ora state leggendo) e piegate come si faceva da bambini. Ne risultano piccole opere, tutte diverse, a loro modo intime, che attingono alla memoria dell’infanzia, e che diventano metafora del viaggio nell’infinito del mare della lettura. In quel flusso senza confini, per dirla alla Deleuze, di una «ripetizione differente». Ma in questo caso, con un sentire poetico.
Velasco Vitali prende in mano una delle sue barche e sussurra a Matteo Visconti: «Vede, la barca di carta per me è il sogno della navigazione. È il gioco che regala l’illusione di poter organizzare una flotta e attraversare l’oceano». E continua sorridendo: «La barca in bronzo è il simulacro di quest’utopia condensata, una velleità riflessa nella materia che l’ha generata. È la voce che sale a bordo, con l’infantile convinzione che prendere il largo e sbarcare è il modo più semplice per entrare in felice relazione con il mondo». Ecco, questo è quello che può fare una semplice, piccola, ironica barchetta di bronzo!