Corriere della Sera - La Lettura
Ho segato le gambe alla panca di Barenboim
Le memorie di Angelo Fabbrini, principe degli accordatori di pianoforti, amico dei virtuosi. Tra tutti Benedetti Michelangeli. Per il quale fece l’impossibile...
Nelle sue mani il pianoforte è una creatura umana. Da capire, da aiutare a esprimere sé stessa, attraverso una personale maieutica. Ma è anche una sorta di Formula 1 ai box, oggetto di regolazioni materiche e meccaniche al limite del percepibile. Angelo Fabbrini, accordatore leggendario, il «preparatore» di fiducia (e quindi depositario dei segreti) dei più grandi pianisti del Dopoguerra, primo fra tutti Arturo Benedetti Michelangeli — seguito dal ’77 al ’95 — si racconta in un’autobiografia, La valigetta dell’accordatore, narrando le sue avventure tecnicomusicali a Pietro Marincola. In realtà, di quei segreti che più incuriosiscono, quale fosse il suono voluto da Rubinstein o da Nikita Magaloff, quali interventi richiedano Maurizio Pollini o András Schiff, il grande artigiano-artista pesarese dice pochissimo: e forse non dobbiamo restarne troppo delusi, tanto impalpabile e inesprimibile è il complesso di quelle sfumature effimere che delineano la misteriosa simbiosi tra un pianoforte e il suo interprete. Nella sua narrazione, Fabbrini usa lo stile del resoconto, senza pretese letterarie, ma abbonda in aneddoti avvincenti.
Tratteggia, intanto, l’unicità del suo metodo. Un rapporto fisico e «terapeutico» con lo strumento, che scaturisce fin dal primo incontro: «Lo tocco e lo tocco ancora, costruendo un rapporto di confidenza; attendo che mi indichi la strada da percorrere, che mi sveli qualche segreto, che mi racconti del bosco da cui proviene, delle persone che ha incontrato prima di me e di quelle che vorrebbe incontrare dopo di me». Il fine, dice, «è la ricerca di un abbinamento ideale tra la sensibilità espressiva del pianista e le potenzialità espressive del pianoforte». Non punta a lasciare la propria «impronta» ma a «esaltare le qualità specifiche e originali dello strumento» che ha scelto.
Fabbrini arriva a ricomprarsi i pianoforti da lui stesso venduti. Ad Amburgo, giunto alla casa-madre Steinway & Sons per acquistare quattro gran coda, da selezionare su una rosa di dieci, di tutti e dieci si innamora e li compra in blocco. Slanci che peraltro lo vedono in buona compagnia: molti solisti illustri (Daniel Barenboim in primis), dopo aver suonato in concerto uno strumento da lui curato, gli chiedono di acquistarlo all’istante, pur di non separarsene. François-Joël Thiollier, che in effetti ricorda un po’ l’eleganza di un Arsenio Lupin, dopo un recital gli sussurra: «Se dovesse sparire questo pianoforte, sappi che il ladro sono io».
Tra i clienti, oltre quelli «storici», è citato anche un giovane pianista italiano in forte ascesa, Filippo Gorini, che così spiega a «la Lettura»: «Un’accordatura buona è una cosa; un’accordatura veramente bella, firmata Fabbrini, è quella per cui puoi suonare un solo accordo di do maggiore e sentirti in pace con il mondo, perché l’armonia già da sola comunica una sua emozione, una sua bellezza». Fabbrini si definisce «il 118 dei pianisti»: per salvare uno strumento o un concerto affronta di tutto. Viaggi improvvisi, la valigetta con i ferri del mestiere sempre con sé; viaggi di notte nella neve, in volo verso l’America o il Giappone, convocato d’urgenza come l’unico chirurgo al mondo capace dell’intervento decisivo. Fa svuotare la piscina di un hotel di Cortina perché l’umidità sta danneggiando il piano che lì deve suonare; salva dalla rottamazione il gran coda di Andrea Bocelli affogato in un’alluvione e glielo restituisce come nuovo; per assistere Krystian Zimerman, abbandona la moglie in vacanza in Sardegna (con dure conseguenze).
Fabbrini, a lungo in duo con il fratello Vittorio, altro virtuoso, da poco scomparso, è il factotum capace di gestire ogni variabile: dimensioni, temperatura e umidità della sala, cambi di repertorio. Diversità di stile, evoluzione del singolo solista. Bizzarrie del medesimo: Alexis Weissenberg lamenta che i tasti neri sono troppo alti, Radu Lupu chiede strumenti datati, Grigorij Sokolov li vuole nuovissimi. Sparisce la panchetta di Benedetti Michelangeli? Fabbrini sottrae quella riservata a Barenboim e le sega le gambe; Benedetti Michelangeli sente un difetto in una nota? I Fabbrini smontano e rimontano la meccanica all’infinito, finché trovano che sul rullo di un singolo martelletto «la pelle era stata incollata per il verso contrario e opponeva una resistenza»... Alle fine, calibrato ogni martelletto, definito il suono di ogni tasto, con umiltà, «il tecnico “si dissolve”». L’indispensabile diviene invisibile. Fabbrini siede in platea e si gode la sua «estasi». Sente il «suo» piano rispondere al solista come entrambi, insieme, hanno immaginato. E vorrebbe solo essere lì, piccolo piccolo, «tra il dito e la corda, pronto a intervenire».