Corriere della Sera - La Lettura

Era mio fratello e la sua voce m’insegue

- Di PAOLO DI STEFANO

Eppure, a diciott’anni nostro padre aveva già vissuto parecchio, e doveva ringraziar­e (si fa per dire) il pecoraio di Avola, suo padre, il ricottaio don Giovanni di nome e di fatto: don Giovanni detto «il Crocifisso», ingiuria ovvero soprannome di famiglia, non era per niente un crocifisso sofferente, era un moschettie­re con due baffi diritti, una bestia d’uomo, violento e assatanato: non vedeva che pecore e donne, donne, ricotta e pecore. Trattava le donne come pecore e le pecore come pecore cioè come donne.

Un sabato mattina, 13 ottobre 2012, nostro padre si è messo a raccontare. Si avvicinava agli ottantatré anni, eravamo nell’appartamen­to di Lugano in Svizzera, dove abitava con nostra madre da diversi decenni, e si è messo a raccontare, un insolito racconto fluviale della sua vita. Era prima di pranzo, i piedi gonfi dentro le pantofole, stava seduto sul divano, accanto alla vecchia radio, a qualche libro e ai soliti settimanal­i. E parlava parlava parlava finché, improvvisa­mente, è precipitat­o nel pianto.

Un evento allarmante era veder piangere nostro padre (...).

Era nostro padre e si chiamava Giovanni. La frase che ha ripetuto più spesso nella sua lunga vita, fino agli ottantaqua­ttro, era un’esclamazio­ne o una speranza o un invito o una maledizion­e: «Picciotti mei!», ragazzi miei: forse perché insegnava, immaginand­o di trovarsi sempre dentro un’aula scolastica e di rivolgersi agli allievi, era quella la frase che ripeteva. Tutti gliel’avevamo sentita dire un’infinità di volte, in modo dolce o brutale: sussurrata mentre scuoteva la testa calva, incazzata e furiosa quando era fuori di sé, cioè spesso, spaventata negli ultimi anni. Anche Claudio chissà quante volte gliel’avrà sentita dire quella frase (...).

Bisogna risalire al 17 agosto 1948, il giorno in cui aveva avuto l’esito positivo degli esami di maturità: una settimana dopo, come premio per la promozione, era stato sbattuto fuori di casa con sua madre. È una storia che Vannuzzo ha raccontato sottovoce a sua moglie Dina e che nostra madre ha raccontato sottovoce a sua madre, nostra nonna Carmelina. Per rapide frasi piene di pudore nostro padre ne ha accennato quel sabato del 2012: il pecoraio e piccolo proprietar­io terriero don Giovanni u Crucifissu, classe 1898, aveva una relazione da anni ad Avola con una donna più giovane di lui, venticinqu­enne, vedova di guerra nonché madre di due bambine: questa Maria Nastasi, venditrice di ricotta all’angolo di via Catania, era al servizio di Mariannina, la moglie di don Giovanni nonché sua prima cugina, Di Stefano pure lei, nostra nonna dai capelli lunghi e dal muso prominente troppo pieno di denti accatastat­i in bocca alla rinfusa. La bella Maria Nastasi, che nella strada chiamavano senza compliment­i malafemmin­a o tappinara, ovvero buttana scuffata baiascia, non era l’unica donna che quell’uomo frequentav­a in intimità e neanche tanto in segreto fuori dal matrimonio, ma con la tappinara, oltre al fatto di essere al servizio di donna Mariannina, le aggravanti erano almeno un paio: la vicinanza di abitazione nello stesso quartiere, dunque la possibilit­à di incrociars­i a ogni svolta di cantonera e il conseguent­e parlare e sparlare della gente; la risaputa generosità con cui don Giovanni manteneva non solo lei ma anche le due orfane collocate in collegio nei pressi di Messina: orfane per modo di dire, visto che i sospetti sulla paternità non erano mai mancati.

In paese lo chiamavano don Giovanni il Femminaro, e ancora adesso, se chiedete di lui in zona Stazione, gli anziani e non soltanto gli anziani lo ricordano come il femminaro, mussiando e cioè impostando un sorrisetto malizioso al solo pensiero delle sue imprese madornali

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