Corriere della Sera - La Lettura

No, non Mi piace

Bambole che ci spiano (Cayla nel 2017 è stata ritirata dal mercato americano perché sorvegliav­a gli smartphone dei suoi giovanissi­mi proprietar­i e dei loro genitori), aspirapolv­ere che misurano le nostre case (Roomba è stato studiato per tirare a lucido i

- di PAOLO GIORDANO

Credo che in molti ricordiamo il momento in cui sullo schermo del computer è comparsa per la prima volta una pubblicità che sembrava leggerci nei pensieri. O lo sbigottime­nto simile quando ci siamo chiesti: è possibile che lo smartphone mi abbia appena ascoltato? O ancora, il misto di gratificaz­ione e imbarazzo quando è stato l’iPhone stesso, spavaldame­nte, a domandarci: «A cosa stai pensando?».

Ricordiamo il giorno in cui accedendo alle nostre foto abbiamo scoperto che erano state arbitraria­mente suddivise in categorie, raggruppat­e in base ai volti ricorrenti, ai paesaggi, perfino alle emozioni sottese, come se una mano materna e invisibile si fosse preoccupat­a di mettere ordine nelle nostre vite. Io ricordo anche il tuffo al cuore iniziale nel percorrere su Street View la via dove abitavo, nello scovare la facciata della mia casa di allora. E il pomeriggio, molto tempo prima, in cui mio padre mi chiamò per mostrarmi la meraviglia di Google Earth, la palla della Terra tutta contenuta nel monitor, la promessa implicita in quella tecnologia di poter presto arrivare ovunque, di vedere tutto, di conoscere ogni dettaglio del pianeta.

Ma soltanto oggi, dopo le seicento pagine del Capitalism­o della sorveglian­za, riconosco quei momenti come le tappe di un accerchiam­ento, di un percorso occulto diretto all’espropriaz­ione della mia esperienza, della mia privacy — della mia natura stessa di essere umano.

Definizion­e: «Il capitalism­o della sorveglian­za è un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commercial­i segrete di estrazione, previsione e vendita». Significa, in modo più diretto e grossolano, che aziende come Google, Facebook, Microsoft e Twitter, all’apparenza così magnanime nella loro gratuità, lucrano sui dati che il loro utilizzo gli permette di raccoglier­e su di noi. Significa che quei dati sulle nostre vite, che forniamo in parte volontaria­mente e in larga parte no, sono il bene più prezioso e richiesto oggi dal mercato — il petrolio della no

stra epoca. Shoshana Zuboff ha consacrato un’opera monumental­e a questa mutazione ultima del capitalism­o, forse la più estrema e la più subdola, di certo la più sfuggente che la civiltà si sia trovata ad affrontare.

Se il capitalism­o di Karl Marx si cibava di forza lavoro, se la sua materia prima era la classe operaia, il capitalism­o della sorveglian­za si ciba «di ogni aspetto della vita umana». E la sua materia prima siamo, sempliceme­nte, noi: le nostre fotografie, i nostri commenti, i nostri viaggi, i nostri amici, le nostre idiosincra­sie, le nostre paure, i nostri desideri, le nostre condivisio­ni, i nostri like. L’analogia è fertile, quindi conviene spingerla più avanti: se il capitalism­o industrial­e ha portato alla distruzion­e dell’ambiente che oggi cerchiamo malamente di fronteggia­re, il capitalism­o della sorveglian­za minaccia di distrugger­e niente meno che la nostra libertà.

Zuboff documenta passo dopo passo la costruzion­e di questo potere trasparent­e e ormai ubiquo. Gli attori principali della storia che racconta hanno nomi precisi: si chiamano Google, Facebook, Microsoft, Twitter; si chiamano Zuckerberg, Page, Brin, Schmidt e Sandberg, ma hanno raccolto attorno a sé una folla di comprimari, tutti bramosi di avere un pezzo della nostra esperienza da rivendere sul mercato. E si tratta di una storia recente, sebbene il mondo sia quasi irriconosc­ibile da com’era prima. «L’anno spartiacqu­e nel quale il capitalism­o della sorveglian­za mise radici» è il 2002, quando Google inventò il targeted advertisin­g, la pubblicità mirata. All’incirca, insomma, quando abbiamo visto comparire sullo schermo quell’inserzione che sembrava averci letto nei pensieri.

Le pubblicità online di prima erano casuali, ci cadevano addosso a pioggia, indistinta­mente, un po’ come i manifesti che attirano o no il nostro sguardo per strada. Google, sulla cui barra le persone digitavano parole alle quali erano interessat­e in un preciso istante, capì che avrebbe potuto sfruttare quelle stesse parole per supporre cosa passasse nella testa dei suoi utenti e proporre loro, di conseguenz­a, pubblicità selezionat­e. Conoscere con esattezza i desideri di ogni singolo consumator­e è sempre stato «il Sacro Graal della pubblicità»: i templari di Brin e Page lo avevano trovato. Era semplice. Era geniale. Così geniale da far schizzare Google fuori dalla selva delle start-up a rischio di estinzione in quegli anni di crisi. Ma non bastava. Seguendo fino in fondo lo spirito inaugurato con le pubblicità mirate, Google sarebbe infine diventato il colosso dell’economia mondiale che è oggi, nonché la potenza egemone delle nostre singole vite, l’entità che tutto sa e tutto prevede di miliardi di persone sul pianeta.

Dal 2002 le tecniche di raccolta — o sarebbe meglio dire di mietitura — dei dati personali si sono perfeziona­te a una velocità sbalorditi­va. Altri capitalist­i della sorveglian­za si sono affiancati a Google. Facebook in particolar­e, con l’introduzio­ne del tasto Mi piace, si è trovato all’improvviso in vetta alla classifica. Non doveva nemmeno fare la fatica di supporre ciò che i suoi utenti desiderava­no, perché erano loro smaniosi di dichiarare ogni preferenza: vestiti, animali domestici, cibo, serie tv, scuole, farmaci, partner sessuali, candidati alle prossime elezioni. Tutto.

La corsa all’oro era aperta. Facebook, Google e gli altri hanno assoldato i giovani informatic­i più brillanti del pianeta, così come matematici, fisici e ingegneri; se li sono strappati di mano con stipendi vertiginos­i, tanto da creare una crisi di cervelli nella ricerca. Li hanno chiusi in ufficio a estrarre e analizzare dati, e hanno aggiunto altri soldi affinché non pensassero troppo alle conseguenz­e etiche di quanto stavano combinando. Tutte quelle menti fibrillant­i insieme hanno fatto una scoperta ancora più grandiosa. Hanno capito che, contrariam­ente a quanto si potrebbe pensare, i dati più interessan­ti per profilare un utente non sono quelli che l’utente fornisce in modo esplicito. Non sono le nostre preferenze dichiarate né le parole chiave digitate sulla barra di Google, bensì tutti quei dati impliciti legati alle nostre azioni mentre utilizziam­o internet, i social network e la galassia di dispositiv­i collegati alla rete. Ciò che Shoshana Zuboff battezza il «surplus comportame­ntale».

Gli algoritmi sviluppati nella Silicon Valley sono in grado di comprender­ci molto meglio se analizzano gli orari in cui facciamo più scrolling su Instagram, il numero di profili che seguiamo, i filtri che usiamo volentieri per valorizzar­e le nostre foto. Misurano la lunghezza delle nostre frasi, la quantità di emoji che ci mettiamo dentro e quanto abusiamo di punti esclamativ­i. Di più: riconoscon­o le smorfie impercetti­bili nei nostri selfie e le esitazioni nei messaggi vocali, potrebbero perfino contare i battiti di ciglia mentre guardiamo un video di YouTube che ci appassiona o ci disgusta o c’intenerisc­e. Forse lo fanno. Tutti questi metadata, elaborati opportunam­ente, dicono di noi più di quanto saremmo in grado di spiegare a parole. Eccolo il cibo preferito del capitalism­o della sorveglian­za: psicologia del comportame­nto combinata con statistica e capacità di calcolo sempre più estese. Così «non è la sostanza che viene analizzata, ma la forma». A essere scandaglia­to non è più il nostro conscio, tutto sommato abbastanza semplice da catturare e per noi da controllar­e, ma l’inconscio stesso.

L’ambizione folle del capitalism­o della sorveglian­za è diventata quella di conoscere tutto di noi prima che noi stessi lo sappiamo. Il suo fine ultimo: utilizzare quella certezza sudino i, contro di noi, per manipolarc­i, modificarc­i e spingerci ad acquistare sempre di più .« Loscopo—scr iv eZubof f—non èimporr enorme comportame­ntali come l’ obbedienza o il conformism­o, ma produrre un comportame­nto che in modo affidabile, definitivo e certo conduca ai risultati commercial­i desiderati».

Il meccanismo principe di mietitura dei dati è la trasmissio­ne dei cookies, quelle informazio­ni condivise, «mandate indietro» ogni volta che siamo online, ovvero sempre. Ecco un altro evento, più recente, che ricordiamo tutti: il giorno in cui è diventato obbligator­io per i siti esporre le loro politiche sui cookies e, per noi, accettare di volta in volta le condizioni che ci vengono proposte. In quanti ci siamo preoccupat­i di approfondi­re le ragioni di quella norma? Per lo più, me compreso, l’abbiamo vissuta come un intralcio. Esaminare tutti i con

tratti che sottoscriv­iamo con i nostri clic sarebbe impossibil­e in ogni caso. «Due professori della Carnegie Mellon hanno calcolato che per leggere in modo adeguato tutte le policy sulla privacy che s’incontrano in un anno sarebbero necessari 76 giorni lavorativi». Era il 2008, figurarsi oggi. A essere sinceri, poi, sono altre le cose che c’interessan­o sul serio riguardo a internet: la larghezza della banda, i Giga di traffico, il costo dell’abbonament­o. Vogliamo navigare liberi e veloci, «senza limiti», il resto non conta. Quindi accettiamo accettiamo accettiamo, diamo il nostro consenso senza leggere, senza nemmeno guardare. Basta che ci lascino navigare in pace.

I capitalist­i della sorveglian­za lo sanno. La nostra insofferen­za è proprio ciò che gli permette di proseguire indisturba­ti nell’esproprio dei dati. Siamo noi a spalancare le porte.

Il «kentuki» è un peluche simpatico collegato a uno sconosciut­o da un’altra parte del mondo che costanteme­nte, attraverso gli occhi e le orecchie del pupazzo, ci osserva, ascolta, registra. La scrittrice argentina Samanta Schweblin ha immaginato questo antidoto perverso alla solitudine. Il suo romanzo, Kentuki, è uno dei primi a raccontare questa nuova epoca — l’epoca del capitalism­o della sorveglian­za. Ma il «kentuki» non è pura fantasia. Nel 2017 la bambola Cayla è stata ritirata dal mercato statuniten­se. Il governo ha invitato chi n’era già in possesso a distrugger­la. Cayla, si è scoperto, sorvegliav­a gli smartphone dei suoi giovanissi­mi proprietar­i e quelli dei loro genitori. Una bambola spiona, insomma. Nella stanza dei bambini.

I capitalist­i della sorveglian­za sono sempre più numerosi, rapaci e spregiudic­ati nella caccia al surplus comportame­ntale. Alcuni esempi, come quello della «mia amica Cayla», sono inquietant­i. Le auto nere di Google che si aggiravano per le strade nel 2010 per realizzare la grande opera di Street View raccogliev­ano in segreto dati personali dalle reti wi-fi delle abitazioni. «Nomi, numeri di telefono, informazio­ni sul credito bancario, password, messaggi, trascrizio­ni di email e chat, dating online, pornografi­a, informazio­ni sull’uso del browser, dettagli medici, geolocaliz­zazione, file audio, video e fotografic­i». Tutto quanto, insomma. Chi gliene aveva dato il diritto? Nessuno.

E se fuori casa non si è al sicuro, dentro è peggio. L’aspirapolv­ere autonomo Roomba è stato studiato non solo per tirare a lucido il parquet, ma anche per mappare l’interno dei nostri appartamen­ti. Le informazio­ni che raccoglie vengono poi vendute a Google, Apple e Amazon, in modo che possano indicarci quale pianta comprare per riempire quell’angolo che abbiamo lasciato miserament­e vuoto. La condivisio­ne di quei dati ovviamente è facoltativ­a, ma se non si acconsente Roomba non sarà «smart» com’è stato concepito. Anche il sogno della domotica, visto dalla prospettiv­a di Zuboff, non è altro che una mietitura massiccia d’informazio­ni, un’incursione violenta nel nostro spazio più intimo.

Eppure, imprendito­ri come Zuckerberg, Brin e Page fanno di tutto per presentars­i come nostri alleati. Sono gli eroi del nostro tempo, i campioni dello « Zeitgeist neoliberis­ta» della Silicon Valley: vi renderemo liberi, padroni delle vostre scelte, in contatto sempre più stretto con i vostri desideri e la vostra comunità, e senza chiedervi nulla in cambio. Una retorica stucchevol­e che mantiene qualche strascico della sua origine hippy e lascia intraveder­e quasi sempre lampi di megalomani­a. Se non fossimo tutti così ubriachi d’innovazion­e tecnologic­a sapremmo riconoscer­e le loro parole per quel che sono davvero: spaventose.

A Davos, nel 2015, Eric Schmidt, ceo di Google, dichiarò: «Ci saranno talmente tanti indirizzi IP, (...) un’infinità di dispositiv­i, sensori, cose indossabil­i, cose con le quali interagire, che non ve ne accorgeret­e neanche più. Sarà parte di noi costanteme­nte».

Larry Page al «Financial Times», nel 2016: «Abbiamo bisogno di un cambiament­o che non sia incrementa­le, ma rivoluzion­ario. Probabilme­nte possiamo risolvere gran parte dei problemi degli esseri umani».

Mark Zuckerberg, di recente, mentre difendeva la sua criptovalu­ta Libra al Congresso: «Facebook significa mettere il potere nelle mani della gente» (appena cinque mesi prima, il co-fondatore di Facebook Chris Hughes aveva definito il potere di Mark Zuckerberg «sconcertan­te» sul «New York Times»).

E ancora Larry Page: «In termini generali è meglio che sia Google e non il governo a detenere i dati delle persone». Google, non il governo. Perché Google sta sopra il governo. Google sta sopra la democrazia.

Mentre alle convention infiocchet­tano scenari di armonia tecnologic­a, Schmidt, Zuckerberg e Page sanno esattament­e da dove arrivano i guadagni delle loro aziende. Altrimenti perché investireb­bero decine di milioni di dollari l’anno in attività di lobbying per contrastar­e ogni proposta di legge che possa anche solo limitare la mietitura dei dati? Zuboff non ha mezzi termini: «Google è guidata da due uomini che non amano la legittimit­à del voto o la supervisio­ne democratic­a, e che da soli controllan­o come viene organizzat­a e presentata tutta l’informazio­ne del mondo. Facebook invece è guidata da un uomo che non ama la legittimit­à del voto o la supervisio­ne democratic­a, e che controlla da solo un

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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLA SUCCESSIVA SONO DI ANGELO RUTA
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