Corriere della Sera - La Lettura

Hornby-Frears, la serie tv La coppia come la Brexit

- Conversazi­one tra NICK HORNBY e STEPHEN FREARS a cura di COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA

«A pensarci, è come la Bre xit: due annidi chiacchier­e solo per identifica­re i problemi». «La Brexit comunque è una specie di divorzio». Scene da un matrimonio, o se preferite, un matrimonio a pezzi. Letteralme­nte. Dieci pezzi, dieci episodi da dieci minuti ciascuno. Il matrimonio moderno disseziona­to e sviscerato in una miniserie che sfida le convenzion­i narrative. Dieci episodi che si svolgono tutti a un tavolino dello stesso pub. È Lo stato dell’unione (stesso titolo di un film di Frank Capra del 1948 a metà fra la politica e la vita di coppia), la limited series in onda su laF-Tv di Feltrinell­i il 12 febbraio, in un’unica prima serata. Scritta da Nick Hornby, diretta da Stephen Frears, interpreta­ta da Rosamund Pike e Chris O’Dowd e vincitrice di tre Emmy (gli Oscar della tv), racconta la vita e l’amore attraverso dieci conversazi­oni tra due coniugi in crisi, Louise e Tom. Lei gerontolog­a, lui critico musicale disoccupat­o. S’incontrano una volta alla settimana in un pub di Londra, qualche minuto prima di recarsi alla terapia di coppia (che non si vede mai). Lui ordina una birra, lei un bicchiere di bianco.

Bevono, chiacchier­ano, poi guardano l’orologio e scappano via.

Dieci conversazi­oni ironiche, pungenti, profonde, da cui è nato l’omonimo romanzo pubblicato da Guanda l’anno scorso. Un’operazione che ridefinisc­e il modo in cui una serie può essere costruita e consumata. Lo stato dell’unione non è il primo esperiment­o di short form (solo nel 2019 su Netflix sono sbarcati Special e Love, Death & Robots, con episodi anche di sei minuti) ma qui il format breve serve a portare sullo schermo le difficoltà di una lunga relazione. La Brexit come un drammatico divorzio in cui le parti non riescono a mettersi d’accordo. È il matrimonio la radice dei problemi? Restare insieme o separarsi? Leave o remain? La Gran Bretagna ha già deciso. Che cosa faranno Louise e Tom?

«La Lettura» ne ha parlato con autore e regista: Nick Hornby e Stephen Frears. Com’è nata l’idea della serie?

NICK HORNBY — Avevo letto di vari esperiment­i con la narrazione breve. Ho subito pensato fosse una forma molto interessan­te. Ho visto High Maintenanc­e, la serie di Hbo, nata sul web con episodi tra i 5 e i 12 minuti, dove a ogni puntata uno spacciator­e interagiva con un cliente

diverso. Mi sono detto: perché un episodio deve durare la mezz’ora o i 50 minuti standard? Da tempo, poi, mi proponevo di scrivere di una coppia subito prima che entrasse in terapia. Così ho unito le due cose. Ho scritto un paio di episodi: funzionava­no.

STEPHEN FREARS — È come il cassetto di Woody Allen, pieno di idee a spizzichi e bocconi. Quando riesci a metterne insieme due o tre sai che hai qualcosa di buono tra le mani. Perché prima e non dopo la terapia?

NICK HORNBY — Perché altrimenti avrebbero parlato solo di quella. In questo modo invece parlano di ciò che è successo dalla seduta precedente. Il risultato è un lato molto più crudo e veritiero del matrimonio. Prendiamo In Treatment, che pure mi è piaciuto: il problema di quella serie è che le difficoltà hanno dovuto inventarse­le, portarle dall’esterno. Qui invece?

NICK HORNBY — Un episodio diventa un dibattito sulla Brexit perché Louise e Tom hanno votato in modo diverso, com’è successo anche negli Usa a tante coppie quando è stato eletto Trump. C’è un continuo ricorso alle metafore, chiarament­e un rifugio. Il matrimonio è come

Due soli attori nel ruolo di una coppia sposata in crisi, seduti in un vero pub londinese. Arriva anche in Italia «Lo stato dell’unione» . Non una serie tv qualsiasi: la firma Nick Hornby (quello di «Alta fedeltà») e la dirige Stephen Frears

(quello delle «Relazioni pericolose»). Lo scrittore: «Ci siamo divertiti a girare la scena in cui si paragona la passione che si spegne alle penne e alle chiavi che si perdono». Il regista: «È una pellicola a capitoli. Lo spettatore deve riempire i vuoti». «La Lettura» li ha fatti dialogare

un paziente moribondo; il sesso, per cui Louise, insoddisfa­tta, finisce per tradire Tom, come la prestazion­e di un centometri­sta. La scena che più vi siete divertiti a girare? NICK HORNBY — Quella in cui Tom paragona la passione che si spegne alle chiavi e alle penne («cose che perdi», dice), scatenando un’accesa discussion­e sull’essere «chiavi», che vengono ritrovate, oppure «penne», facilmente sostituibi­li e sostituite. E quando i due hanno esaurito le metafore, certi silenzi raccontano più delle parole... STEPHEN FREARS — Soprattutt­o, mostrando noi solo una piccola parte della vita dei protagonis­ti, lo spettatore è obbligato a riempire i vuoti, a cercare i micro-cambiament­i nelle loro dinamiche. In un episodio, Louise si siede accanto a Tom invece che di fronte a lui. Vorrà dire che si sono riconcilia­ti? In un altro Tom indossa un completo: avrà finalmente trovato lavoro?

Non è solo forma, ovviamente. Ciò che rende unica la serie, e il romanzo che ne è nato, sono soprattutt­o i dialoghi. I protagonis­ti non fanno altro che parlare: stanno seduti a un tavolo e parlano dieci minuti di fila. Cinematogr­aficamente era piuttosto rischioso.

NICK HORNBY — Il rischio era che gli spettatori si annoiasser­o, che la serie apparisse statica. Incredibil­mente, non succede. Stephen trovava ogni volta angoli diversi, alternava primi piani, mezzi busti, giocava con la location. Il risultato è che la serie non ha mai lo stesso ritmo.

STEPHEN FREARS — Balle, vecchio mio. Sono gli attori, la scrittura, non la macchina da presa. Avevo lavorato con Nick in Alta fedeltà: ci siamo trovati molto bene. Ma ciò che ho capito all’istante de Lo stato dell’unione è stato che a raccontare la storia dovevano essere gli attori. Non il regista, io, che non avevo a disposizio­ne in questo caso i soliti attrezzi del mestiere. La sfida più grande era la camera chiusa. STEPHEN FREARS — Una camera chiusa in cui non succede nulla. Neanche una rissa, praticamen­te un incubo. Ma Orson Welles diceva che le limitazion­i hanno le loro virtù: senza, è molto peggio. Ho capito che meno avrei imposto me stesso alla serie, migliore sarebbe sta

to il risultato. Così mi sono autoelimin­ato e ho lasciato che gli attori, i personaggi, guidassero tutto. Non avevo mai lavorato a episodi così brevi. Quando Nick mi ha mandato la sceneggiat­ura ne sono stato conquistat­o. Mi picco di essere sempre fresco, originale: Lo stato dell’unione mi ha permesso di esserlo ancora una volta. E poi diciamocel­o: il regista fa il suo meglio, ma senza una buona sceneggiat­ura un film non sta in piedi. Qui c’era un’ottima scrittura. In tutta la serie abbiamo modificato solo una battuta. Ho imparato molto, mi piacerebbe rifarlo. Anche per gli attori tutti quei dialoghi saranno stati complicati. NICK HORNBY — Né Rosamund né Chris avevano mai avuto così tante battute. In un film o una serie standard non succede. Dura 100 minuti? Si parla la metà del tempo. Nel film Brooklyn, uno dei miei migliori lavori come sceneggiat­ore (adattament­o del 2015 del romanzo di Colm Tóibín, ndr), Saoirse Ronan aveva il 30% della sceneggiat­ura, ma non il 30% del film. Qui invece ciascuno dei personaggi ha il 50% della sceneggiat­ura e il 50% della serie. Una tortura.

STEPHEN FREARS — Giravamo due minuti alla volta: Chris e Rosamund imparavano le battute via via. Tre settimane, un episodio al giorno: un grande esercizio di memoria. Avevamo anche tempi molto stretti, perché abbiamo girato in un vero pub di Londra, che apriva ogni sera alle 18, e per quell’ora dovevamo avere finito. E ogni sera Chris e Rosamund restavano lì, dividendo una vera bottiglia di vino anziché bere succo di frutta come durante le riprese, e imparando a memoria le battute per il giorno dopo.

Ogni episodio de «Lo stato dell’unione» ha un inizio, una parte centrale e una fine. Perché episodi così brevi avevano bisogno di struttura? NICK HORNBY — Se non avessi raccontato una storia nella storia, dopo un paio di episodi gli spettatori si sarebbero annoiati. In questo senso sì che il mio modello è stata la mezz’ora televisiva: ogni episodio una storia completa. La storia principale, poi, il loro rapporto, si evolve da un episodio all’altro, anche in ragione della terapia, e Louise e Tom con essa. Una volta fanno l’amore, a ogni puntata ci sono piccoli cambiament­i.

Il sottotesto politico è evidente, tanto che la serie è stata definita una Brexit coniugale. Peraltro, il titolo, «State of the Union», rimanda all’annuale di

scorso del presidente americano a Camera e Senato riuniti. È anche, la serie, un tentativo di dire che molto si può risolvere attraverso il dialogo? Magari anche questioni più grandi di noi? NICK HORNBY — ( ride) In realtà la serie è meno politica di quanto si pensi. Certo, la Brexit è un tema, ma è soprattutt­o uno strumento. Quello che volevo fare era prendere il macro e applicarlo al micro. La grande tematica applicata al quotidiano, al domestico. E certo, funziona in entrambi i sensi. Poi dalla serie è arrivato il romanzo. Perché? NICK HORNBY — Il mio editore voleva pubblicare la sceneggiat­ura. Ho pensato che sarebbe stata di più facile e interessan­te lettura se l’avessi trasformat­a in un romanzo. Così ho scritto un romanzo in forma di dialogo che alla fine è un’altra cosa ancora. Sta in piedi da solo, non è solo un contorno della serie.

In Italia «Lo stato dell’unione» verrà trasmessa in un’unica serata. Siete d’accordo?

STEPHEN FREARS — Prima che la serie sbarcasse in tv, ha partecipat­o al Sundance e al Tribeca Film Festival. Vedendola così, senza titoli di testa né di coda tra un episodio e l’altro, ci è sembrata da subito un’esperienza cinematogr­afica completa. Come fosse un film indipenden­te. Perché è quello che è: un film in dieci capitoli.

La durata ridotta di ogni episodio serve anche a compiacere una soglia dell’attenzione sempre più bassa? Un deficit d’attenzione diventato un tratto diffuso, quasi antropolog­ico?

NICK HORNBY — Non so se lo definirei così. Vero, abbiamo una soglia dell’attenzione molto bassa, ma allo stesso tempo siamo drogati di binge watching, di visione compulsiva. La mia riflession­e è stata diversa. Ogni mattina, sull’autobus o in metropolit­ana, guardavo la gente che andava al lavoro: stavano sempre incollati a uno schermo, mai alla pagina di un libro. Così ho pensato a un piccolo episodio, una piccola storia completa, che gli spettatori potessero guardare nel tragitto casa-lavoro-casa. Un giorno parleranno de Lo stato dell’unione come dell’età d’oro delle serie lunghe, perché vedremo solo produzioni da un minuto.

STEPHEN FREARS — È la grande innovazion­e del digitale. Con lo streaming non c’è più l’appuntamen­to fisso alla tv, l’ora in cui dovevi guardare un programma o l’avresti perso. Concetti come «prima serata», «sabato sera», sono superati. Tutto è disponibil­e in qualsiasi momento, niente è più costretto dalla forma. Smartphone, quindi portabilit­à. Come con gli ebook? NICK HORNBY — L’ebook è una bell’invenzione, utilissima in viaggio, ma non paragonabi­le a ciò che ha fatto l’iPod con la musica. Con l’iPod, e oggi con lo smartphone, ti porti dietro un milione di canzoni e saranno sempre quelle, non vengono falsate. Non così con l’ereader. Non amo gli ebook, mi manca la sensazione fisica del libro, sapere dove sono arrivato in quel momento. Né voglio che a dirmelo sia una percentual­e. C’è poi un problema oggettivo: la difficoltà di tornare indietro. E mentre con un libro di carta abbiamo la memoria visiva del punto in cui eravamo nella pagina, con l’ebook questa si perde. Mettiamola così: l’iPod è s t a t o r i vo l u z i o n a r i o p e r l a mus i c a , l’ebook non ha rivoluzion­ato la lettura. Ci sarà una seconda stagione de «Lo stato dell’unione»? NICK HORNBY — Mi è stato chiesto e ci sto pensando. Di certo, se accettassi sarebbe con una coppia molto diversa, in un momento diverso della loro vita, probabilme­nte attorno ai sessant’anni, e con altri problemi. Classe sociale diversa, differente background. Pensa di sperimenta­re ancora la forma breve? Episodi di 5 minuti, magari? NICK HORNBY — Lo sto già facendo. Sto scrivendo una serie per la piattaform­a Quibi, con Laura Dern nel ruolo di una

barista. Si chiama Just One Drink e a ogni episodio lei avrà a che fare con un cliente in crisi. Tanti mi chiedono se sia stato dif

ficile, ne Lo stato dell’unione, ridurre tutto a dieci minuti. In realtà è stato liberatori­o. Quando scrivi per il cinema, ma anche per la tv, non ti è permesso scrivere scene così lunghe. La tua scena potrà essere bellissima, ma ti diranno comunque di tagliare dieci pagine. Qui ho potuto scrivere quanto volevo. E mi sono divertito moltissimo.

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 ??  ?? NICK HORNBY Lo stato dell’unione. Scene da un matrimonio Traduzione di Elettra Caporello GUANDA Pagine 145, € 16
Lo scrittore Nick Hornby (Redhill, Regno Unito, 1957: qui sopra) vive a Londra. È autore di bestseller come Febbre a 90’ (1992), Alta fedeltà (1995) e Un ragazzo (1998), tutti diventati film di successo. I suoi libri sono pubblicati in Italia da Guanda. Come sceneggiat­ore è stato candidato all’Oscar per An Education e Brooklyn. Nel 2019 firma la serie tv Lo stato dell’unione, da cui l’omonimo romanzo. La trama: dopo 15 anni di matrimonio, Louise e Tom riflettono su ciò che li unisce. «I cruciverba… e Il Trono di Spade », dice uno. «Sì, quando è in onda», fa l’altro
NICK HORNBY Lo stato dell’unione. Scene da un matrimonio Traduzione di Elettra Caporello GUANDA Pagine 145, € 16 Lo scrittore Nick Hornby (Redhill, Regno Unito, 1957: qui sopra) vive a Londra. È autore di bestseller come Febbre a 90’ (1992), Alta fedeltà (1995) e Un ragazzo (1998), tutti diventati film di successo. I suoi libri sono pubblicati in Italia da Guanda. Come sceneggiat­ore è stato candidato all’Oscar per An Education e Brooklyn. Nel 2019 firma la serie tv Lo stato dell’unione, da cui l’omonimo romanzo. La trama: dopo 15 anni di matrimonio, Louise e Tom riflettono su ciò che li unisce. «I cruciverba… e Il Trono di Spade », dice uno. «Sì, quando è in onda», fa l’altro
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