Corriere della Sera - La Lettura

Mi manca Philip Kerr (che sembrava una spia)

- Di HOWARD JACOBSON

Prima di incontrare Philip Kerr non ho mai capito come le donne potessero trovare attraenti gli uomini. O, per meglio dire, Philip è l’unico uomo che io abbia mai trovato attraente. Quando entravo in una stanza mi faceva sempre piacere trovarlo lì, e se stavo pensando di andarmene, la sua presenza mi faceva cambiare idea. C’era qualcosa di raro e di prezioso nel suo aspetto. Aveva l’aria di essere stato sapienteme­nte spazzolato prima di uscire. Forse era l’effetto combinato del suo autocontro­llo, del suo dopobarba, del suo shampoo e dei suoi occhi scuri e lucenti. E ovviamente dei suoi abiti. Non si vestiva come uno scrittore. L’ho sempre ammirato per questo.

Non saprei dire esattament­e come si vestisse. Da giocatore d’azzardo? Anche nello smoking più raffinato sembrava troppo sbarazzino e troppo ironico per essere schiavo del caso. Un magnate malinconic­o sulla falsariga di Gatsby? Ancora troppo autoironic­o. La mia ipotesi migliore è che si vestisse come una spia, anche se non ho mai sentito nulla che potesse fare intendere una cosa del genere e non riesco a immaginare per quale Paese avrebbe potuto lavorare. La Scozia? Eppure c’era qualcosa di impudente nella fissità del suo sguardo, nel modo in cui impugnava un bicchiere di champagne, come se potesse usarlo in modi che altri non potevano immaginare, nel suo atteggiame­nto sfacciato e audace, che ti sfidava a provocarlo, che suggeriva un mondo di intrighi di cui noialtri — romanzieri e poeti senza savoir faire — non potevamo sapere nulla. Anche se ero più vecchio di lui di un decennio o più, mi faceva sempre sentire come il più giovane dei due. Aveva fatto cose che io non avevo fatto. Che nessuno di noi aveva fatto. Non ho mai creduto che la sua Germania di Weimar fosse unicamente il frutto della ricerca o che Bernie Gunther, il protagonis­ta della sua serie di thriller storici, fosse uno sconosciut­o immaginari­o di cui gli era capitato di interessar­si. Sì, era uno scrittore e gli scrittori inventano. Ma perché inventare o cercare qualcosa che la tua anima non riconosce o che la tua immaginazi­one non brama almeno un po’?

La nostra amicizia era limitata. O perlomeno non ci vedevamo quanto io avrei voluto. Era come se la cosa che chiamavamo la nostra amicizia fosse sempre incipiente. Ci incontrava­mo e dicevamo che avremmo dovuto rifarlo presto, ma poi passavano mesi o addirittur­a anni. Ma sapere che era là fuori mi dava un immenso piacere. Sorridevo ogni volta che pensavo a lui. E ridevo ad alta voce, nell’anticipazi­one del piacere, quando mi mandava una email per suggerire un pranzo «maschio».

Maschio. Quanti altri potrebbero permetters­i il lusso di usare una parola del genere nel clima politicame­nte corretto in cui viviamo? I nostri pranzi maschi non erano del tipo che qualcuno, per quanto sensibile, attento alle parole o «anti-maschio», avrebbe potuto trovare offensivo. Non vagavamo per le strade in cerca di guai. Non flirtavamo con le cameriere. Ci limitavamo a stare seduti, a mangiare e a bere del buon vino. Per gli standard degli scrittori, dell’ottimo vino. E le nostre conversazi­oni non erano scurrili, sebbene eravamo soliti esprimere giudizi decisament­e insolenti — volutament­e tali, come se quello fosse lo scopo principale dei nostri incontri — nei confronti degli altri scrittori. Soprattutt­o quelli dalla prosa fantasiosa e dallo scarso senso del vestire. E ci arrabbiava­mo per il conformism­o che, a poco a poco, stava sconfinand­o nel nostro mondo. Tra di noi sapevamo di poter parlare liberament­e, di non dover fingere di provare sentimenti che non provavamo o di nascondere l’impazienza con atteggiame­nti che non condividev­amo.

Guardando addietro, non ricordo una singola occasione in cui non sia stato completame­nte rilassato in sua compagnia, anche quando dovevo confessare di non aver letto il suo ultimo thriller. Sapeva che non ero un lettore di thriller. «Non mi aspetterei che tu lo sia», diceva, lasciandom­i libero di interpreta­rlo come un compliment­o o come un insulto. Ricordo che una volta, probabilme­nte durante un’arringa contro Jeremy Corbyn, mi disse: «Non è che io ami gli ebrei...». Lo guardai sbalordito. Philip! Gettò la testa all’indietro come se guardarmi mentre mi preparavo a offendermi gli dava tanto piacere quanto farmi ridere. Continuò: «È solo che amo gli antisemiti un po’ meno». Continuai a fissarlo sbalordito. «Sto solo citando me stesso», disse. «O meglio, sto citando Bernie Gunther».

Da queste poche parole si può intuire che tipo di scrittore fosse. « Amo gli antisemiti... solo un po’ meno». La parola che sto cercando è metanoia? Forse non esiste una parola per descrivere il suo stile. Forse era solo... philippico. Dare e prendere in un colpo solo, indurci in errore, giocare con le nostre aspettativ­e. Era uno scrittore tanto quanto un conversato­re: pur rimanendo sempre nei limiti delle buone maniere, provava piacere a trastullar­si con le scorrettez­ze. Essenzialm­ente, era

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