Corriere della Sera - La Lettura
IL GRANDE FRATELLO CI TOGLIE IL PUDORE
George Orwell in 1984 aveva previsto una società oppressa da un controllo che non lasciava spazio alla libertà di pensare, fondata sull’annientamento del desiderio. Ma lo scrittore inglese, nella sua cupa visione distopica, aveva commesso un errore di prospettiva: se a Winston, protagonista del libro, fa dire che «il desiderio è un crimine di pensiero», la società oggi ha fatto del desiderio lo strumento di una sorveglianza soft non meno invasiva.
Siamo più esposti, più trasparenti, più controllati dei personaggi di Orwell, ma «lo facciamo volontariamente, con amore e passione», scrive il giurista Bernard Harcourt nel libro appena uscito in Francia La société d’exposition (Seuil, pp. 336, € 23), in cui dimostra quanto la liberazione del principio di piacere, che in Freud doveva essere tenuto a freno dal principio di realtà, sia responsabile di un controllo totalizzante che fa vivere in una società dell’esposizione, alimentata dai nostri desideri e dalle ansie.
Da una parte reclamiamo il diritto alla privacy; dall’altra non esitiamo a svelarci sui social network, postando foto, condividendo le nostre esperienze con altri. Il nostro desiderio di attirare l’attenzione è più forte del ritegno. Si perde ciò che resta della nostra interiorità. Privato e privacy si sono separati e appaiono regolati da norme diverse, inconciliabili.
Si è venuta formando una vera «cultura della sorveglianza» — spiega il sociologo canadese David Lyon in The Culture of Surveillance (Polity, pp. 172, £ 15,99) — che ha modificato le nostre vite. Sorvegliare appare normale: vogliamo vedere ed essere visti, crediamo di non avere nulla da nascondere. L’impressione è quella di far parte di una grande comunità, dove tutto è trasparente.
Una sorta di revisione del concetto di democrazia, che però nasconde un lato oscuro: come scrive lo storico dei media Siva Vaidhyanathan, «cercare qualcosa su Google non è molto diverso dal confessare i propri desideri a una forza misteriosa».