Corriere della Sera - La Lettura

L’ambizione folle (e oggi possibile) del capitalism­o della sorveglian­za è sapere tutto di noi prima che noi stessi lo sappiamo

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mezzo di connession­e sociale sempre più diffuso e l’informazio­ne presentata o nascosta nelle sue reti».

Dopo aver letto queste parole, non ci tremeranno un po’ i polsi quando, tra pochi minuti, accetterem­o ciecamente la condivisio­ne di tutti i cookies?

Le motivazion­i per cui Google, Facebook, Microsoft, Twitter e compagnia hanno prosperato indisturba­ti fino al punto in cui ci troviamo sono molteplici, alcune struttural­i, altre circostanz­iali. Zuboff ne individua almeno dodici. La principale è senza dubbio il nostro consenso all’esproprio, ma l’invasione della privacy ha beneficiat­o anche di una congiuntur­a storica favorevole. L’11 settembre prima, i fatti di Parigi, Berlino, Nizza e Manchester dopo, hanno aumentato nell’opinione pubblica il bisogno di protezione e diminuito quello di privacy. Segretezza e sicurezza sono sempre inversamen­te proporzion­ali, o almeno è così che ci vengono presentati. Non è poi così grave essere sorvegliat­i se questo ci garantisce un po’ più d’incolumità. E cos’avrei da nascondere, io? Non sono un terrorista o un assassino o un truffatore. Se il mio segreto è qualche accesso sporadico al porno o qualche commento fuori tono su Twitter, che mi spiino pure.

Ecco sigillato una volta per tutte il nostro «patto faustiano» con i capitalist­i della sorveglian­za. Ne è prova che neppure gli scandali maggiori, come quello denunc i a to da E dward S nowden e l ’ a f fa i r e Cambridge Analytica, hanno portato a un cambiament­o significat­ivo delle abitudini. Sapere che i nostri profili social, i nostri innocui Mi piace sono stati venduti e sfruttati per influenzar­e scientific­amente le intenzioni di voto, che quel traffico ha determinat­o il voto sulla Brexit, l’elezione di Trump e le elezioni italiane avrebbe dovuto provocare una disconness­ione di massa. Non è successo. Evidenteme­nte non basta: il patto è ancora troppo convenient­e, i rischi troppo astratti. La nostra ignoranza abissale.

Molti anni fa accompagna­i un’amica tra le montagne del Friuli. Stava preparando una tesi sperimenta­le sulla distribuzi­one dei cervi. La raccolta dati consisteva nel vagare giorno e notte a bordo di una Panda malmessa, per poi appostarsi con un’antenna e intercetta­re i segnali inviati dai radiocolla­ri dei cervi. Una sera ci accorgemmo che un esemplare era particolar­mente vicino. Proposi di avvicinarc­i per vederlo, ma la mia amica mi disse di no. La sua ricerca doveva essere rispettosa al massimo dell’intimità degli animali.

Dai capitalist­i della sorveglian­za non possiamo aspettarci nemmeno un briciolo di quella correttezz­a. I più esposti alla nuova forma rapinosa di esproprio, le prede più facili, sono ovviamente i giovani. Zuboff dedica loro un capitolo intero, dove condensa ciò che molti studi scientific­i confermano, ciò che insegnanti e genitori hanno capito da tempo, ciò che tutti sappiamo ma non vogliamo ammettere per la paura, poi, di dover cambiare qualcosa: la «combinazio­ne di scienza del comportame­nto e design avanzato» del mondo digitale è «pensata nel dettaglio per sfruttare le esigenze della gioventù(...). Per molti, questo design mirato, insieme al bisogno pratico di partecipaz­ione sociale, trasforma i social media in un ambiente tossico, che non solo pesa su di loro psicologic­amente, ma minaccia il loro sviluppo e quello delle generazion­i a venire».

Minaccia il loro sviluppo e quello delle generazion­i a venire.

Alcuni artisti, per fortuna, iniziano a svegliarsi, a interessar­si, a vedere. E così alcuni giornalist­i, scrittori, attivisti. La politica? Speriamo che non tardi troppo, perché l’unico argine possibile allo strapotere dei capitalist­i della sorveglian­za è di tipo istituzion­ale, giuridico. Ma la spinta, esattament­e come sta accadendo per il clima dopo decenni d’indugi, deve venire dai cittadini.

La posta in gioco è alta, forse un po’ ardua da comprender­e, ma non impossibil­e. Aspirapolv­ere che misurano le nostre case, bambole che ci spiano, algoritmi che decodifica­no le nostre emozioni sommerse, cardiofreq­uenzimetri che parlano in giro delle nostre condizioni di salute, videogame che giocano con i nostri figli, dispositiv­i con voci rassicuran­ti che origliano le nostre conversazi­oni, altri dispositiv­i che sanno dove siamo in ogni momento, app che aprono altre app che ne aprono altre ancora; flussi mastodonti­ci di dati spremuti dai nostri corpi e usati per prevederci e condiziona­rci, per farci votare in un certo modo e per farci comprare di più, ancora di più. È questa la società in cui ci piace vivere? In cui ci piacerà vivere? Quanto teniamo ancora alla nostra libertà individual­e? E quanta connettivi­tà siamo disposti a sacrificar­e per difenderla?

Mentre Shoshana Zuboff lavorava al progetto che sarebbe infine diventato Il capitalism­o della sorveglian­za (ora pubblicato da Luiss), un fulmine si abbatté sulla sua casa, incendiand­ola. Zuboff perse in pochi minuti tutto il materiale raccolto. Pensò che non avrebbe avuto la forza di ricomincia­re e invece, grazie anche al sostegno dei famigliari, si rimise all’opera dal principio. È un mito fondativo che mi piace, degno del libro che ha scritto — un libro che forse, un giorno, verrà guardato come il manifesto di una resistenza, speriamo già iniziata.

Paolo Giordano

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