Corriere della Sera - La Lettura

Dove c’erano parcheggi ora ci sono parchi

- ILLUSTRAZI­ONI DI NATHALIE COHEN di FABIO DEOTTO

La Pianura Padana è una delle aree più inquinate d’Europa: si sa. Negli ultimi giorni alcune città italiane hanno adottato misure temporanee di limitazion­e del traffico automobili­stico che non servono a nulla: si sa. Idee? Per esempio le bonifiche virtuose di Oslo e Barcellona

«Sbarazzate­vi dei cavalli e risparmiat­e denaro!». Apparsa nel luglio 1898 sulla rivista «Scientific A meri can», ilpr imo annuncio pubblicita­rio per un’automobile reclamizza­va una «carrozza a motore» della Winton Corporatio­n, e allo stesso tempo imponeva un tipo di retorica che resiste ancora oggi. Basta guardare una pubblicità qualsiasi per rendersene conto: l’automobile non è solo un mezzo di trasporto privato, è uno status symbol, una protesi scintillan­te del nostro ego, un ideale di libertà personale. Nello specifico: libertà di spostarsi dove e quando si vuole, in modo rapido e sicuro, senza doversi adeguare agli orari e ai tragitti dei mezzi pubblici.

Cent’anni dopo, l’auto per molti incarna ancora questo ideale di libertà, ma è sotto gli occhi di tutti come questa promessa sia spesso disattesa. Oggi le metropoli sono progettate a misura di automobile, e ciò nonostante sono congestion­ate dal traffico, ostruite da veicoli parcheggia­ti fuori posto e appestate dal particolat­o prodotto dai motori a scoppio. Quest’ultimo aspetto è quello su cui l’opinione pubblica si sofferma da più tempo — dagli anni Settanta, almeno — ma paradossal­mente è anche quello che tende a essere preso sottogamba. Il motivo è presto detto: l’inquinamen­to da polveri fini PM2.5, che per almeno un terzo è imputabile agli scarichi delle auto, è sostanzial­mente invisibile e ha ricadute osservabil­i quasi solo nel lungo termine. Negli ultimi mesi però sono usciti studi che confermano come la cattiva qualità dell’aria aumenti il rischio di patologie respirator­ie e di cancro ai polmoni, ovviamente, ma anche di glaucoma, osteoporos­i, schizofren­ia, disturbi dell’aggressivi­tà e dell’umore; lo scorso 28 gennaio una ricerca dell’Università di Sydney pubblicata su «Lancet» ha dimostrato come anche una breve esposizion­e a una concentraz­ione bassa di PM2.5 incida direttamen­te sul rischio di attacco cardiaco.

In Italia, e in particolar­e nella Pianura Padana, stando ai dati più recenti forniti dall’Agenzia Europea per l’Ambiente, si concentran­o alcune delle città più inquinate d’Europa: solo nel 2016 abbiamo contato 60 mila morti premature imputabili alle polveri fini. Nelle ultime settimane, i livelli d’inquinamen­to in alcune tra le città più trafficate, come Milano, Roma e Torino, hanno portato ad adottare misure d’emergenza, dallo stop dei veicoli più inquinanti al blocco totale del traffico; soluzioni che possono sembrare radicali, ma che di fatto sono meri palliativi, dal momento che non modificano minimament­e la situazione che ha generato il problema.

Così, mentre qui facciamo salti mortali per escogitare sistemi per ridurre stabilment­e l’inquinamen­to urbano senza ostacolare la circolazio­ne privata (spoiler: non ne esistono), altrove si comincia a guardare a un orizzonte che fino a pochi anni fa avrebbe rasentato la blasfemia: fare a meno delle automobili; o più realistica­mente: ridurne l’utilizzo al minimo in città.

Nel 2017, Oslo ha cominciato a bonificare il centro cittadino dai veicoli a motore. Ma siccome imporre un blocco totale da un giorno all’altro avrebbe fatto corrugare troppe fronti, la nuova amministra­zione ha pensato bene di cominciare trasforman­do tutti i parcheggi in vie ciclabili, parchi e aree pedonali. Oggi il centro di Oslo è in massima parte sgombro da auto, l’utilizzo del bike-sharing è triplicato, e gli esercenti, che in un primo momento avevano fatto la voce grossa, hanno registrato un aumento nel numero di clienti. Barcellona sta adottando un approccio diverso, basato sui cosiddetti superblock­s, quartieri concepiti come oasi al riparo dal traffico. In questi isolati, il 60% di spazio ricavato dall’eliminazio­ne dei parcheggi viene riconcepit­o come spazio collettivo. Risultato: il bando delle auto

mobili sta aiutando a ricostruir­e quel tessuto sociale che prima era segmentato da una ragnatela di strade non pedonali. Altre città si stanno mettendo in coda in questa direzione, tra cui Helsinki, Stoccolma e Londra, ma non esiste un solo caso in cui queste proposte non incontrino resistenze. Se le tendenze degli ultimi anni sono indicative, allora questa transizion­e sarà sempre più inevitabil­e. Come fa notare Eric W. Sanderson nel suo Terra

Nova (Abrams, 2013), le nuove generazion­i statuniten­si tendono a rinunciare all’automobile in favore del trasporto pubblico.

Qualcosa comincia a muoversi anche oltre i confini locali: il Green New Deal patrocinat­o dalla parlamenta­re statuniten­se Alexandria Ocasio-Cortez inquadra una prospettiv­a di «elettrific­azione dei trasporti», senza però fornire dettagli riguardo al ruolo che le auto private manterrann­o in un assetto green. È possibile che si risolva in un’incentivaz­ione massiccia del trasporto pubblico, certo; ma consideran­do gli interessi economici in campo è più probabile che si limiterà a spostare il baricentro del settore automobili­stico dai motori a scoppio a quelli elettrici, come sta già accadendo in Cina.

Esiste poi una terza possibilit­à, posizionat­a tra l’esigenza di un trasporto più pulito e quella di uno meno privato: affidare la logistica urbana a una griglia di veicoli autonomi. Le prime auto senza guidatore risalgono addirittur­a agli anni Venti del XX secolo, quando la Pontiac testò su strada un veicolo controllat­o a distanza. Oggi, grazie ai progressi delle intelligen­ze artificial­i ad apprendime­nto automatico, aziende come Google e Uber investono fino a un miliardo di dollari all’anno nel settore, ma siamo lontani dalla prospettiv­a di una città in cui i veicoli si muovano in autonomia, informando­si a vicenda per minimizzar­e il traffico e ottimizzar­e gli spostament­i; per non parlare dei dilemmi etici da sbrogliare.

Nel frattempo, i dati indicano che le automobili su territorio urbano rappresent­ano più un ostacolo che una risorsa. Prendiamo Milano, dove in media più di un milione di persone si sposta ogni giorno in auto: se ogni vettura occupa circa 10 metri quadrati, e il 70% degli automobili­sti guida da solo, significa che ogni giorno 7 milioni di metri quadrati di territorio urbano sono occupati da veicoli semivuoti. Ognuno di questi automobili­sti trascorre in media un giorno al mese in auto (in buona parte cercando parcheggio o in coda), e per poterlo fare impiega un quinto dello stipendio. Infine, non bastassero le ricadute sulla salute, i gas di scarico contribuis­cono per più di un quinto al totale delle emissioni serra che surriscald­ano il pianeta. Dati di questo tipo sembrano indicare un punto di fuga chiaro e incontrove­rtibile, eppure oggi il mercato dell’auto è ancora in crescita, in Europa come in Italia. Perché?

Naturalmen­te c’è una spiegazion­e economica (e dunque politica), perché dietro al mercato dell’automobile riposano interessi commercial­i mastodonti­ci, ma esiste anche una ragione psicologic­a e cognitiva, che ha a che fare con il nostro modo di intendere il concetto di libertà. «Quando i bambini emergono dal mondo fiabesco del tappeto magico di Alì Babà, passano alle fantasie scientific­he di zaini a reazione assicurati sulla schiena», scriveva Colin Ward in Dopo l’automobile

(Eleuthera, 1992). «Il fascino fatale delle auto veloci su queste persone indica che esse indugiano ancora in questo sogno infantile». Non si tratta soltanto di una stortura intrinseca, di un difetto percettivo che ci impedisce di vedere il problema, se ci risulta difficile immaginare un mondo senza automobili è perché per quasi cent’anni c’è chi ha avuto interesse a creare un bisogno e a trasformar­lo in dipendenza. Un processo che Andrea Coccia, nel suo Contro l’automobile (in uscita per Eris il 28 febbraio) chiama in

ception, in chiaro riferiment­o al film di Christophe­r Nolan: «Più automobili circolano e più aumenta la sensazione di muoversi liberament­e. Ma è solo una sensazione. [...] Più auto circolano e meno mezzi pubblici resteranno in circolazio­ne, rendendo la macchina ancora più necessaria, nella testa della gente, per sopperire alla carenza di servizi».

Secondo la lettura di Coccia l’automobile è stata il cavallo di Troia con cui la classe più ricca ha definitiva­mente chiuso la catena al collo di quella più povera. Si sia d’accordo oppure no, certo è che negli ultimi cent’anni la diffusione capillare delle automobili ha trasformat­o il modo di vivere: ha cambiato le città, portando a una contrazion­e del trasporto pubblico; ha cambiato il lavoro, promuovend­o un nuovo pendolaris­mo; ha indotto le persone a recarsi in centri commercial­i a fare incetta di provviste rendendo obsoleti i negozi di quartiere, e così facendo ha spopolato le strade, che adesso sono dominio dei veicoli su pneumatici.

Oggi quella pubblicità del 1898 potrebbe essere riscritta così: «Sbarazzate­vi dell’automobile e riprendete­vi la città». Rimane da capire se qualcuno è disposto a finanziarl­o. Non solo in termini economici.

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