Corriere della Sera - La Lettura
Dove c’erano parcheggi ora ci sono parchi
La Pianura Padana è una delle aree più inquinate d’Europa: si sa. Negli ultimi giorni alcune città italiane hanno adottato misure temporanee di limitazione del traffico automobilistico che non servono a nulla: si sa. Idee? Per esempio le bonifiche virtuose di Oslo e Barcellona
«Sbarazzatevi dei cavalli e risparmiate denaro!». Apparsa nel luglio 1898 sulla rivista «Scientific A meri can», ilpr imo annuncio pubblicitario per un’automobile reclamizzava una «carrozza a motore» della Winton Corporation, e allo stesso tempo imponeva un tipo di retorica che resiste ancora oggi. Basta guardare una pubblicità qualsiasi per rendersene conto: l’automobile non è solo un mezzo di trasporto privato, è uno status symbol, una protesi scintillante del nostro ego, un ideale di libertà personale. Nello specifico: libertà di spostarsi dove e quando si vuole, in modo rapido e sicuro, senza doversi adeguare agli orari e ai tragitti dei mezzi pubblici.
Cent’anni dopo, l’auto per molti incarna ancora questo ideale di libertà, ma è sotto gli occhi di tutti come questa promessa sia spesso disattesa. Oggi le metropoli sono progettate a misura di automobile, e ciò nonostante sono congestionate dal traffico, ostruite da veicoli parcheggiati fuori posto e appestate dal particolato prodotto dai motori a scoppio. Quest’ultimo aspetto è quello su cui l’opinione pubblica si sofferma da più tempo — dagli anni Settanta, almeno — ma paradossalmente è anche quello che tende a essere preso sottogamba. Il motivo è presto detto: l’inquinamento da polveri fini PM2.5, che per almeno un terzo è imputabile agli scarichi delle auto, è sostanzialmente invisibile e ha ricadute osservabili quasi solo nel lungo termine. Negli ultimi mesi però sono usciti studi che confermano come la cattiva qualità dell’aria aumenti il rischio di patologie respiratorie e di cancro ai polmoni, ovviamente, ma anche di glaucoma, osteoporosi, schizofrenia, disturbi dell’aggressività e dell’umore; lo scorso 28 gennaio una ricerca dell’Università di Sydney pubblicata su «Lancet» ha dimostrato come anche una breve esposizione a una concentrazione bassa di PM2.5 incida direttamente sul rischio di attacco cardiaco.
In Italia, e in particolare nella Pianura Padana, stando ai dati più recenti forniti dall’Agenzia Europea per l’Ambiente, si concentrano alcune delle città più inquinate d’Europa: solo nel 2016 abbiamo contato 60 mila morti premature imputabili alle polveri fini. Nelle ultime settimane, i livelli d’inquinamento in alcune tra le città più trafficate, come Milano, Roma e Torino, hanno portato ad adottare misure d’emergenza, dallo stop dei veicoli più inquinanti al blocco totale del traffico; soluzioni che possono sembrare radicali, ma che di fatto sono meri palliativi, dal momento che non modificano minimamente la situazione che ha generato il problema.
Così, mentre qui facciamo salti mortali per escogitare sistemi per ridurre stabilmente l’inquinamento urbano senza ostacolare la circolazione privata (spoiler: non ne esistono), altrove si comincia a guardare a un orizzonte che fino a pochi anni fa avrebbe rasentato la blasfemia: fare a meno delle automobili; o più realisticamente: ridurne l’utilizzo al minimo in città.
Nel 2017, Oslo ha cominciato a bonificare il centro cittadino dai veicoli a motore. Ma siccome imporre un blocco totale da un giorno all’altro avrebbe fatto corrugare troppe fronti, la nuova amministrazione ha pensato bene di cominciare trasformando tutti i parcheggi in vie ciclabili, parchi e aree pedonali. Oggi il centro di Oslo è in massima parte sgombro da auto, l’utilizzo del bike-sharing è triplicato, e gli esercenti, che in un primo momento avevano fatto la voce grossa, hanno registrato un aumento nel numero di clienti. Barcellona sta adottando un approccio diverso, basato sui cosiddetti superblocks, quartieri concepiti come oasi al riparo dal traffico. In questi isolati, il 60% di spazio ricavato dall’eliminazione dei parcheggi viene riconcepito come spazio collettivo. Risultato: il bando delle auto
mobili sta aiutando a ricostruire quel tessuto sociale che prima era segmentato da una ragnatela di strade non pedonali. Altre città si stanno mettendo in coda in questa direzione, tra cui Helsinki, Stoccolma e Londra, ma non esiste un solo caso in cui queste proposte non incontrino resistenze. Se le tendenze degli ultimi anni sono indicative, allora questa transizione sarà sempre più inevitabile. Come fa notare Eric W. Sanderson nel suo Terra
Nova (Abrams, 2013), le nuove generazioni statunitensi tendono a rinunciare all’automobile in favore del trasporto pubblico.
Qualcosa comincia a muoversi anche oltre i confini locali: il Green New Deal patrocinato dalla parlamentare statunitense Alexandria Ocasio-Cortez inquadra una prospettiva di «elettrificazione dei trasporti», senza però fornire dettagli riguardo al ruolo che le auto private manterranno in un assetto green. È possibile che si risolva in un’incentivazione massiccia del trasporto pubblico, certo; ma considerando gli interessi economici in campo è più probabile che si limiterà a spostare il baricentro del settore automobilistico dai motori a scoppio a quelli elettrici, come sta già accadendo in Cina.
Esiste poi una terza possibilità, posizionata tra l’esigenza di un trasporto più pulito e quella di uno meno privato: affidare la logistica urbana a una griglia di veicoli autonomi. Le prime auto senza guidatore risalgono addirittura agli anni Venti del XX secolo, quando la Pontiac testò su strada un veicolo controllato a distanza. Oggi, grazie ai progressi delle intelligenze artificiali ad apprendimento automatico, aziende come Google e Uber investono fino a un miliardo di dollari all’anno nel settore, ma siamo lontani dalla prospettiva di una città in cui i veicoli si muovano in autonomia, informandosi a vicenda per minimizzare il traffico e ottimizzare gli spostamenti; per non parlare dei dilemmi etici da sbrogliare.
Nel frattempo, i dati indicano che le automobili su territorio urbano rappresentano più un ostacolo che una risorsa. Prendiamo Milano, dove in media più di un milione di persone si sposta ogni giorno in auto: se ogni vettura occupa circa 10 metri quadrati, e il 70% degli automobilisti guida da solo, significa che ogni giorno 7 milioni di metri quadrati di territorio urbano sono occupati da veicoli semivuoti. Ognuno di questi automobilisti trascorre in media un giorno al mese in auto (in buona parte cercando parcheggio o in coda), e per poterlo fare impiega un quinto dello stipendio. Infine, non bastassero le ricadute sulla salute, i gas di scarico contribuiscono per più di un quinto al totale delle emissioni serra che surriscaldano il pianeta. Dati di questo tipo sembrano indicare un punto di fuga chiaro e incontrovertibile, eppure oggi il mercato dell’auto è ancora in crescita, in Europa come in Italia. Perché?
Naturalmente c’è una spiegazione economica (e dunque politica), perché dietro al mercato dell’automobile riposano interessi commerciali mastodontici, ma esiste anche una ragione psicologica e cognitiva, che ha a che fare con il nostro modo di intendere il concetto di libertà. «Quando i bambini emergono dal mondo fiabesco del tappeto magico di Alì Babà, passano alle fantasie scientifiche di zaini a reazione assicurati sulla schiena», scriveva Colin Ward in Dopo l’automobile
(Eleuthera, 1992). «Il fascino fatale delle auto veloci su queste persone indica che esse indugiano ancora in questo sogno infantile». Non si tratta soltanto di una stortura intrinseca, di un difetto percettivo che ci impedisce di vedere il problema, se ci risulta difficile immaginare un mondo senza automobili è perché per quasi cent’anni c’è chi ha avuto interesse a creare un bisogno e a trasformarlo in dipendenza. Un processo che Andrea Coccia, nel suo Contro l’automobile (in uscita per Eris il 28 febbraio) chiama in
ception, in chiaro riferimento al film di Christopher Nolan: «Più automobili circolano e più aumenta la sensazione di muoversi liberamente. Ma è solo una sensazione. [...] Più auto circolano e meno mezzi pubblici resteranno in circolazione, rendendo la macchina ancora più necessaria, nella testa della gente, per sopperire alla carenza di servizi».
Secondo la lettura di Coccia l’automobile è stata il cavallo di Troia con cui la classe più ricca ha definitivamente chiuso la catena al collo di quella più povera. Si sia d’accordo oppure no, certo è che negli ultimi cent’anni la diffusione capillare delle automobili ha trasformato il modo di vivere: ha cambiato le città, portando a una contrazione del trasporto pubblico; ha cambiato il lavoro, promuovendo un nuovo pendolarismo; ha indotto le persone a recarsi in centri commerciali a fare incetta di provviste rendendo obsoleti i negozi di quartiere, e così facendo ha spopolato le strade, che adesso sono dominio dei veicoli su pneumatici.
Oggi quella pubblicità del 1898 potrebbe essere riscritta così: «Sbarazzatevi dell’automobile e riprendetevi la città». Rimane da capire se qualcuno è disposto a finanziarlo. Non solo in termini economici.