Corriere della Sera - La Lettura

La vera strada di Uber: claustrofo­bia o claustrofi­lia

Mobilità e identità

- Di DANIELE GIGLIOLI

Prendete una persona che usa sempre Uber a causa del suo terrore di guidare, e di molti altri terrori; fate che sia una studiosa italiana di letteratur­a trapiantat­a a Chicago, città notoriamen­te ispida per non dire altro; fate anche che le venga in mente di scrivere una sorta di inchiesta su le microinter­azioni che intervengo­no tra autista e passeggero, tutte diverse eppure accomunate da un’inquietant­e aria di famiglia; prendete questa persona, prendetene cento, e avrete comunque scarsissim­e possibilit­à che vi venga fuori un libro bello come questo di Maria Anna Mariani, Voci da Uber (Mucchi editore). Un libro che trascende letteraria­mente il suo tema, pur degno della più accurata immaginazi­one sociologic­a, la vita al tempo del capitalism­o di piattaform­a. Radicale nell’impostazio­ne: le interazion­i non sono «vere», cioè accidental­i, dato che il fine è quello di trascriver­le. E spasmodica­mente esatto nella registrazi­one che la scrittura compie dei mille trasalimen­ti di compassion­e, paura, distanza, solidariet­à, ripulsa, seduzione, stupore e noia, finzione e autenticit­à (tutta la piattaform­a Uber si fonda sulla valutazion­e reciproca tra cliente ed esercente, ed è interesse di entrambi avere più stelline possibili, come su Airbnb) che accadono nella situazione metà claustrofo­bica metà claustrofi­liaca dell’abitacolo di un’automobile. Conoscenza nervosa.

Più che racconti, sono piccole illuminazi­oni. Apparizion­i. La regola è che non ci si rivedrà più. Con un ricorso mai stucchevol­e al discorso indiretto libero, Mariani coglie sempre il punto in cui voce narrante e voce del personaggi­o si incontrano nel poco tempo che hanno, nel povero repertorio di luoghi comuni cui di solito fanno appello le conversazi­oni tra sconosciut­i, nell’urgenza economica che è la sola cosa ad aver messo quelle due persone per un momento sulla stessa traiettori­a. Contingenz­a esistenzia­le e necessità letteraria fuse a perfezione. Meglio ancora, la seconda che dà una forma, e dunque una possibilit­à d’uso che non sia meramente di consumo, alla prima. Se la passeggera non fosse stata lei, con le sue paure e le sue idiosincra­sie, quelle persone non avrebbero parlato così. Se non avesse scritto, la banalità dell’esistenza interament­e afferrata dalla coercizion­e ad alienare il tempo di vita in tempo di lavoro avrebbe riportato un’altra, l’ennesima vittoria.

Mariani non si fa illusioni, la sua è una generazion­e post-utopica. Non predica, si espone, oggi che esporsi significa sostanzial­mente mettere in mostra la propria vulnerabil­ità. Ma è proprio quella vulnerabil­ità esibita (e già in origine contaminat­a dalla letteratur­a: Uber esiste qui, parafrasan­do Mallarmé, per metter capo a un libro) a permettere agli «altri» che per una manciata di minuti hanno un nome di avanzare sul proscenio e dire la propria battuta. E questo non è solo letteratur­a, è anche politica, molto più di quella che al momento attuale sarebbe possibile fare pontifican­do e indottrina­ndo.

Più ci dotiamo di apparati che dovrebbero rendere meno inagevole la vita, più diventiamo fragili, inattivi, prede potenziali, vittime consenzien­ti — l’apparato l’abbiamo pur sempre costruito noi: «Nessuno mi uccide», gridava Polifemo ai suoi fratelli ciclopi. A voler richiamare dal pozzo profondo del passato un detto di Adorno, esiste un nesso generale di colpevolez­za in cui l’autrice si include lei per prima. Non dice in nessun luogo di farlo nell’attesa che quel nesso si muti in quello tra rovina e speranza illustrato­ci da Walter Benjamin. Ma è un’intenzione che le attribuiam­o volentieri.

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