Corriere della Sera - La Lettura
La vera strada di Uber: claustrofobia o claustrofilia
Mobilità e identità
Prendete una persona che usa sempre Uber a causa del suo terrore di guidare, e di molti altri terrori; fate che sia una studiosa italiana di letteratura trapiantata a Chicago, città notoriamente ispida per non dire altro; fate anche che le venga in mente di scrivere una sorta di inchiesta su le microinterazioni che intervengono tra autista e passeggero, tutte diverse eppure accomunate da un’inquietante aria di famiglia; prendete questa persona, prendetene cento, e avrete comunque scarsissime possibilità che vi venga fuori un libro bello come questo di Maria Anna Mariani, Voci da Uber (Mucchi editore). Un libro che trascende letterariamente il suo tema, pur degno della più accurata immaginazione sociologica, la vita al tempo del capitalismo di piattaforma. Radicale nell’impostazione: le interazioni non sono «vere», cioè accidentali, dato che il fine è quello di trascriverle. E spasmodicamente esatto nella registrazione che la scrittura compie dei mille trasalimenti di compassione, paura, distanza, solidarietà, ripulsa, seduzione, stupore e noia, finzione e autenticità (tutta la piattaforma Uber si fonda sulla valutazione reciproca tra cliente ed esercente, ed è interesse di entrambi avere più stelline possibili, come su Airbnb) che accadono nella situazione metà claustrofobica metà claustrofiliaca dell’abitacolo di un’automobile. Conoscenza nervosa.
Più che racconti, sono piccole illuminazioni. Apparizioni. La regola è che non ci si rivedrà più. Con un ricorso mai stucchevole al discorso indiretto libero, Mariani coglie sempre il punto in cui voce narrante e voce del personaggio si incontrano nel poco tempo che hanno, nel povero repertorio di luoghi comuni cui di solito fanno appello le conversazioni tra sconosciuti, nell’urgenza economica che è la sola cosa ad aver messo quelle due persone per un momento sulla stessa traiettoria. Contingenza esistenziale e necessità letteraria fuse a perfezione. Meglio ancora, la seconda che dà una forma, e dunque una possibilità d’uso che non sia meramente di consumo, alla prima. Se la passeggera non fosse stata lei, con le sue paure e le sue idiosincrasie, quelle persone non avrebbero parlato così. Se non avesse scritto, la banalità dell’esistenza interamente afferrata dalla coercizione ad alienare il tempo di vita in tempo di lavoro avrebbe riportato un’altra, l’ennesima vittoria.
Mariani non si fa illusioni, la sua è una generazione post-utopica. Non predica, si espone, oggi che esporsi significa sostanzialmente mettere in mostra la propria vulnerabilità. Ma è proprio quella vulnerabilità esibita (e già in origine contaminata dalla letteratura: Uber esiste qui, parafrasando Mallarmé, per metter capo a un libro) a permettere agli «altri» che per una manciata di minuti hanno un nome di avanzare sul proscenio e dire la propria battuta. E questo non è solo letteratura, è anche politica, molto più di quella che al momento attuale sarebbe possibile fare pontificando e indottrinando.
Più ci dotiamo di apparati che dovrebbero rendere meno inagevole la vita, più diventiamo fragili, inattivi, prede potenziali, vittime consenzienti — l’apparato l’abbiamo pur sempre costruito noi: «Nessuno mi uccide», gridava Polifemo ai suoi fratelli ciclopi. A voler richiamare dal pozzo profondo del passato un detto di Adorno, esiste un nesso generale di colpevolezza in cui l’autrice si include lei per prima. Non dice in nessun luogo di farlo nell’attesa che quel nesso si muti in quello tra rovina e speranza illustratoci da Walter Benjamin. Ma è un’intenzione che le attribuiamo volentieri.