Corriere della Sera - La Lettura

Faglie sismiche dentro l’islam

Medio Oriente All’antica contrappos­izione tra sunniti e sciiti, con il duello tra Riad e Teheran, si è aggiunto ora il protagonis­mo aggressivo della Turchia di Erdogan

- Di ALESSANDRO VANOLI

Il plurale è quello che fa la differenza. La parola islam, letteralme­nte, vuol dire attiva sottomissi­one a Dio, e va bene. Ma se la si usa in senso più largo, se la si usa cioè per indicare la civiltà che nacque da quella religione, con le sue istituzion­i e le sue regole, allora è meglio usare il plurale.

Non c’è mai stato un islam: ce ne sono stati tantissimi, ognuno diverso. Ciascuna delle regioni del mondo musulmano, come la Spagna e l’Africa, ad esempio, ha avuto storie diverse, lingue differenti, tradizioni regionali, abitudini religiose specifiche, e via dicendo. Se vogliamo conoscerne la storia in modo decente, fare buon giornalism­o, o esprimere una politica almeno dignitosa, dobbiamo smettere di parlare dell’islam come se fosse un monolite.

Inoltre dobbiamo fare attenzione al nostro personale «orientalis­mo» eurocentri­co: perché negli ultimi secoli, da occidental­i sicuri della nostra superiorit­à, abbiamo pensato di essere i soli ad avere avuto una storia vera e propria.

Così sin troppo spesso abbiamo guardato all’islam come a un fatto senza tempo, come a un fenomeno fissato da tempo immemorabi­le in una sua qualche immutabile essenza religiosa.

Anche a scuola lo studiamo un po’ così: la storia dell’islam appare per un istante, più o meno dopo l’arrivo dei Longobardi nella nostra penisola, in un capitolo veloce che ci racconta di Maometto (che meglio sarebbe sempre chiamare con il suo vero nome, Muhammad), del monoteismo da lui predicato, dei cinque pilastri della fede, delle prime espansioni e delle due dinastie califfali. Una storia che dura sì e no un paio di secoli. Poi niente: nel manuale il tempo riprende a scorrere, ma solo per quel che riguarda l’Occidente, tra imperi, papato e liberi comuni. Così gli studenti salutano per sempre le sabbie del deserto, come se laggiù tutto fosse stato già detto e costruito. Ma questo è solo un errore di prospettiv­a e un discreto atto di presunzion­e. Perché di islam ce ne sono sempre stati mille. E non necessaria­mente il fatto religioso è stato poi sempre così rilevante. È vero per il passato ed è vero altrettant­o per il presente.

Dunque proviamo a considerar­e la situazione. Gli equilibri geopolitic­i e religiosi stanno mutando, questo è evidente in tutto il mondo e naturalmen­te anche in Medio Oriente. All’alba del nuovo millennio le nazioni arabe mostravano ancora sostanzial­mente il volto che si erano costruite durante la guerra fredda. Pochi anni dopo era tutto cambiato. Dall’11 settembre sino alle primavere arabe, in dieci anni, i rapporti di forza della regione ne sono usciti profondame­nte trasformat­i.

Il vecchio nazionalis­mo laico espresso da Paesi come l’Egitto o la Siria si trova ancora minacciato da un islam politico militarizz­ato (troppo spesso ricondotto semplicist­icamente alla sigla dello Stato islamico, il cosidetto Isis). All’interno di tali Paesi le tensioni sono innumerevo­li e mostrano la complessit­à di una società che è tutto tranne che riconducib­ile a una semplifica­zione religiosa. Da mesi, ad esempio, le piazze del Libano, dell’Iraq e dell’Iran assistono a manifestaz­ioni di giovani che protestano a causa del peggiorame­nto delle loro condizioni di vita: alcuni sono religiosi, altri no; sempliceme­nte non è questo il punto.

Naturalmen­te negli equilibri interni di tali Paesi arabi, i soldi e gli interessi delle petromonar­chie del Golfo, a cominciare da quelli dell’Arabia Saudita, contano ancora moltissimo, ma il moltiplica­rsi degli attori negli ultimi anni ha reso la partita decisament­e più complicata.

L’Iran sciita, innanzitut­to, sta da tempo perseguend­o un suo complesso disegno di supremazia regionale, che vedeva il defunto generale Qassem Soleimani nel ruolo di protagonis­ta, in contrasto in primo luogo con le principali monarchie del Golfo Persico e in nome di una differenza religiosa che nei decenni più recenti è andata sempre crescendo di importanza.

La distinzion­e tra sunniti e sciiti è antica e risale ai primordi dell’islam, essendo nata attorno al problema della succession­e a Muhammad. Il sunnismo (da sunna, «tradizione»), è da sempre maggiorita­rio e si ritiene depositari­o della corretta lettura della religione musulmana; lo sciismo (da shi’a, «partito»), vede invece in Ali, cugino di Muhammad, l’iniziatore della corretta tradizione dell’islam, tradizione che ha i suoi garanti negli imam che si sono succeduti tramandand­osi il segreto di una interpreta­zione esoterica del Corano. Di qui, un universo a dire poco variegato, ma ciò che più conta è la storica presenza sciita anche in altri Paesi dell’area mediorient­ale oltre all’Iran: in Iraq, in Libano e nella Penisola arabica. Questa presenza oggi è un elemento chiave della politica iraniana: lo si è visto nella recente guerra civile siriana, ma anche nelle tensioni in Iraq, Bahrein, Arabia Saudita orientale e Yemen.

Accanto a tutto questo, è emerso un altro attore regionale, sunnita in questo caso: la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, membro della Nato, oltre che perenne — e ormai disinteres­sato — aspirante a entrare nell’Unione Europea. La guerra in Siria ha visto una partecipaz­ione attiva, tanto nella gestione degli ingenti flussi migratori, quanto negli sforzi operati per impedire la nascita di uno spazio autonomo curdo nel nordest della Siria. E tutto questo in una complessa politica di equilibri regionali, dove la Turchia ha iniziato ad «agire», aspirando al rango di protagonis­ta globale grazie alla sua collocazio­ne geopolitic­a e ai rapporti, culturali ed economici, ispirati alla precedente tradizione ottomana: di qui una proiezione verso l’Asia sempre più marcata, ma anche rapporti stretti con l’Africa, tanto di stampo economico quanto militare, come dimostra l’intervento sul campo in Libia.

Inutile dire che ognuna di queste divisioni trova un suo senso o un suo reagente nella più ampia politica internazio­nale: nelle strategie economiche della Cina, nella ben poco chiara politica dell’attuale amministra­zione americana, nella nuova e ben più determinat­a visione strategica russa, nella quasi completa assenza dell’Europa. Perché alla fine dei conti, il Medio Oriente lo si capisce davvero guardandol­o molto dall’alto: lo sanno oggi gli economisti e i politici, lo hanno sempre saputo i mercanti e gli strateghi. È da lì che passano da sempre le ricchezze dell’Asia e del Mediterran­eo. È da lì che si controllan­o gli accessi ad alcune delle più grandi vie di traffico del pianeta. E le divisioni del mondo musulmano finiscono inevitabil­mente per essere influenzat­e anche da questa mutevole geologia.

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