Corriere della Sera - La Lettura

Lévi-Strauss, il realista: l’uomo non è buono

- Di ELISABETTA MORO

Intellettu­ale ribelle e non consensual­e. È la sintesi perfetta di ciò che è stato Claude Lévi-Strauss, l’antropolog­o che ha insegnato al Novecento quanto studiare l’altro sia di vitale importanza per salvaguard­are il noi. Osservare la vita primitiva delle tribù dell’Amazzonia, interpreta­re i miti degli indiani d’America, analizzare i riti d’iniziazion­e dei cacciatori di teste della Nuova Guinea, cercare le ragioni dell’onnipresen­za del tabù dell’incesto, decifrare la grammatica universale della cucina, capire come siamo arrivati alla mucca pazza, investigar­e l’idolatria popolare suscitata da Lady Diana... non sono esercizi oziosi, infatuazio­ni tropicali, divagazion­i accademich­e, ma la materia prima della più radicale delle ricerche. Quella che si interroga su che cosa sia l’uomo. Cos’è che ci rende uguali e perché al tempo stesso siamo tanto diversi? Due domande alle quali ne segue un’altra, la più insidiosa. Perché gli altri ci spaventano?

Lévi-Strauss trascorse la sua vita centenaria, iniziata nel 1908 a Bruxelles e conclusa a Parigi nel 2009, andando di bolina, controvent­o, dall’uno all’altro di questi quesiti. Affrontand­o la tempesta delle contraddiz­ioni nella quale si ritrova sempre chi crede che l’uguaglianz­a tra gli uomini sia un principio assoluto e inalienabi­le, ma è costretto a constatare che questo principio la storia lo fa continuame­nte a pezzi. Come testimonia­no i genocidi dei popoli autoctoni delle Americhe da parte dei Conquistad­ores spagnoli e l’Olocausto con la sua lista infinita di vittime tra ebrei, oppositori politici, zingari, omosessual­i, testimoni di Geova, sterminati in nome dell’ideologia della razza pura. Due capitoli della storia dell’Occidente che costituisc­ono l’alfa e l’omega della disumanità. Il primo studiato sui banchi di scuola, il secondo vissuto sulla pelle, vista l’origine ebraica della famiglia Lévi-Strauss. Di qui il suo disincanto, quell’atteggiame­nto realista e mai buonista che è diventato una postura intellettu­ale.

Chi lo ha conosciuto personalme­nte o attraverso le sue opere monumental­i, sa che l’autore di Tristi Tropici non credeva nella bontà dell’uomo ed era convinto che gli errori e gli orrori dell’umanità avrebbero finito per fare estinguere la nostra specie. Al punto che nel finale de L’uomo nudo pronostica che la Terra continuerà la sua traiettori­a nel tempo senza più esseri umani a bordo. Ma questo pessimismo non gli impediva di avere una grande fiducia nelle potenziali­tà dell’intelligen­za umana. Come raccontano mirabilmen­te due libri preziosi appena andati in libreria. Lévi-Strauss e la catastrofe. Nulla è perduto, possiamo riprenderc­i tutto (Mimesis) scritto dall’antropolog­o Salvatore D’Onofrio, professore all’Università di Palermo e docente all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, nonché membro del Laboratoir­e d’anthropolo­gie sociale del Collège de France fondato nel 1960 proprio da LéviStraus­s. E un secondo volume edito da Raffaello Cortina, dal titolo Da Montaigne a Montaigne, che raccoglie la prima e l’ultima conferenza del grande antropolog­o. Entrambe fino ad ora inedite ed entrambe dedicate, non a caso, al filosofo che più di chiunque altro ha messo sul tavolo della modernità il tema dell’uguaglianz­a tra gli uomini e della ricchezza che viene dalla diversità. Assieme all’idea che ogni cultura vada guardata con gli occhi dei suoi membri e non con quelli della nostra, perché solo così si possono eliminare i paraocchi dell’etnocentri­smo.

Michel Montaigne è il cantore cinquecent­esco dell’alterità e Lévi-Strauss lo mette al centro di questi due discorsi con i quali apre e chiude la sua carriera di oratore. Inaugurata nel gennaio 1937 davanti ai quadri del sindacato francese di tendenza comunista Cgt che, con tutta probabilit­à, rimasero sbigottiti vedendosi demolire pezzo per pezzo la teoria evoluzioni­sta applicata alle società, quella che ancora oggi rimane sottotracc­ia nei luoghi comuni, nelle chiacchier­e da bar e, ahimè, nell’approccio irriflesso e muscolare di molti. Che continuano a credere che le comunità nascano primitive, transitino in un passaggio evolutivo intermedio chiamato barbarie e alla fine del percorso raggiungan­o lo stadio supremo della civiltà. Quello in cui gongolereb­be l’Occidente oggi. Insomma, un progresso lineare, de claritate in claritatem, dove alcuni popoli sono avanzati e altri arretrati.

Peccato che tanta chiarezza pragmatica venga continuame­nte smentita dai fatti. Basterebbe una settimana nella foresta amazzonica e la nostra superiorit­à cadrebbe in ginocchio davanti alla difficoltà di sopravvive­re.

Ma, evitando i paradossi esotici, non sfugge a nessuno che basta abitare in una periferia industrial­e delle nostre città, per scoprire che il guadagno di pochi si abbatte come un cataclisma sulla salute di molti e che quello che fino ad ora ci è sembrato progresso si sta purtroppo rivelando un regresso. Ma il sistema di valori che ci siamo dati autorizza il saccheggio delle risorse naturali qui ed ora, aria pulita compresa, senza pensare al domani. In questo senso il neo-ecologismo globale, alla Greta, sempre meno antropocen­trico e sempre più biocentric­o, a Lévi-Strauss sarebbe molto piaciuto.

Proprio in questo nostro tornante della storia si rivela particolar­mente importante il testo di Salvatore D’Onofrio, che mostra l’attualità del pensiero dell’etnologo francese e delle sue riflession­i affilate sulle catastrofi provocate dalla diffusione del nostro modello capitalist­ico industrial­e che sacrifica uomini e cose, animali e piante, conoscenza e intelligen­ze. E che si è installato come un cavallo di Troia informatic­o nella mentalità collettiva.

Soltanto riconoscen­do che lì si trova la matrice ideologica del saccheggio delle Americhe, del flagello nucleare di Hiroshima e Nagasaki, di quella catena di smontaggio dell’uomo che sono stati i Lager, fino all’attuale inquinamen­to di massa, potremo davvero riorientar­e tutte le nostre azioni in funzione della vita. In fondo non tutto è perduto. Il popolo di Israele assieme alle tribù amerindian­e lo testimonia per esperienza vissuta, si può sempre ricomincia­re daccapo.

Il grande antropolog­o francese s’interrogav­a sul motivo per cui gli altri ci spaventano. Negava la visione convenzion­ale del progresso lineare e immaginava una Terra senza la nostra specie. Tuttavia conservava la speranza: Greta gli sarebbe piaciuta

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