Corriere della Sera - La Lettura
La lingua cerca un’altra patria, forse l’infanzia
Nanni Cagnone seleziona e assembla parte della sua produzione
Una sperduta, naufragante avventura nella lingua: è quella che ci fa sperimentare il canzoniere di Nanni Cagnone, disteso ad abbracciare frammenti di diverse epoche. Non per caso i libri più coesi e poematici dell’autore (come, ad esempio, Il popolo delle cose, Jaca Book, 1999) restano fuori da questo organismo di secondo grado che è A ritroso 20201975, riedificato e ritessuto a partire dalla selezione compiuta su minori organismi di partenza. E dunque eccoci a sprofondare davvero a ritroso nella ventosità primigenia della lingua, come in un vuoto cosmico dove le cose si accampano. Più che imitare la realtà, infatti, questa scrittura mette in scena il teatro del suo avvenire.
Il poeta ragiona, certo, sul proprio fare (si vedano anche le finali notazioni autoriflessive in prosa) ma soprattutto agisce attraverso la parola. Essa non è una riproduzione ma un evento in atto, una dinamica generativa. Instaura, infatti, un universo onirico e sospeso, surreale nel senso del potenziamento delle presenze, tradotte in enigmatici emblemi: ecco le «incomprese figure», ecco la tante volte citata «infanzia», primo e più profondo grembo. Anche l’infanzia è figura («sontuoso entroterra» la definisce l’autore): sì, perché più che stagione della vita, essa è una possibilità di conoscere il mondo attraverso il «geloso balbettìo» della parola poetica.
Si tratta insomma di un ritornare all’inizio, all’immaturità ondosa, fluttuante, potenziale delle cose: «Non rammentare/ non presagire,/ aver un giorno/ solo per noi». L’abisso iniziale dell’inesperienza, l’approdo a un ungarettiano «paese innocente» sono alcuni dei bersagli dell’avventura poetica di Cagnone. Un autore solitario e appartato che sembra, come ogni vero poeta, inventarsi una propria tradizione, senza riprodurne alcuna, sebbene qualche impronta si lasci distinguere: in particolare quella leopardiana (nell’idea del naufragio, per dire, o nell’evocazione del «cosmo/ malnato»).
Se dovessimo provare a trovargli delle parentele, lo avvicineremmo, per pura didascalia, ad altri nomadi e solitari abituati a vagare dentro la «madre disconosciuta/ inesauribile» che è la lingua: ad esempio Lorenzo Calogero o magari, tra i contemporanei di generazioni successive, Alessandro Ceni. Ma solo per segnalare una comune diversità o eresia, tra l’altro nel non scrivere mai di sé in senso stretto, rasentando e adombrando invece una legge generale dei viventi.
Questa poesia è in una scommessa: profondamente occidentale nel sentimento del tramonto, cerca però di sillabare da capo, trasformando la memoria in una pagina bianca e la dizione in una scoperta. Infatti lo sperdersi è tutt’uno con il prodigio, con lo scatto del miracolo. Straniata e rammemorante, questa lingua agogna un’altra patria che non sia l’io e il suo privato parlare. Vuole, nel suo essere sapienziale, dire a tutti di tutto, essere una povera cosa di ognuno. Sussurra, si meraviglia di sé: tenta «la stupefazione,/ lo sguardo iniziale».