Corriere della Sera - La Lettura
L’uniforme che ci portiamo dentro (e fuori)
Società Oltre 600 ritratti di uomini e donne in abiti da lavoro: al Mast di Bologna 44 fotografi affrontano il tema dell’identità, esplorando quello speciale codice di relazioni che passa attraverso il vestire. Perché tutti indossiamo una divisa. Anche q
Nel saggio La vita quotidiana
come rappresentazione Erving Goffman, acuto sociologo canadese naturalizzato statunitense, con intuizione già nel 1959 e molto prima dell’avvento dei selfie nei social, indaga la struttura della vita sociale come tessuto di relazioni elementari, flusso indistinto di incontri casuali, interazioni episodiche, ma sempre all’interno di una codificazione di ruoli: una sorta di organizzazione teatrale, una costante rappresentazione drammaturgica in uno spazio scenico diviso tra «ribalta» e «retroscena». Si sa, tutto questo è un processo naturale dell’animo umano. Così, insieme ai condizionamenti economici, all’appartenenza sociale e alla dimensione culturale, ogni individuo risponde a un’inevitabile necessità: avere una riconoscibilità collettiva e, con essa, nella buona o nella cattiva sorte, una qualche forma di successo nella «rappresentazione» della propria identità.
In questi giorni, un’imponente mostra fotografica al Mast di Bologna esplora con oltre 600 scatti e il lavoro di 44 fotografi (protagonisti della storia della fotografia e importanti autori contemporanei) proprio questo tema. Ma lo fa attraverso un curioso punto di vista: quello del vestito come codice di relazioni. E in particolare, vista la vocazione del Mast ad affrontare con l’arte il tema del lavoro e dei processi industriali, qui si parla delle uniformi (da lavoro) e in senso più allargato delle divise. E ancora più in generale, del vestire come meccanismo di identificazione sociale, senso di appartenenza, elemento chiave per un processo di comprensione (culturale, estetica, sociale) di un «ruolo» che, consapevolmente o no, ogni giorno mettiamo in scena nel disordinato palcoscenico della vita.
Curata da Urs Stahel (curatore svizzero della collezione del Mast e fedele collaboratore di Isabella Seragnoli, deus ex machina di questa struttura culturale) la mostra ha un titolo esplicativo: Uniform.
Into the Work / Out of the Work. L’uniforme dentro e fuori il lavoro, dentro e fuori di noi. Come segno di appartenenza, ma anche come distanza. La mostra, in modo sottile, pone anche un’indiretta domanda: è proprio vero che l’abito non fa il monaco? O è vero il contrario?
Non a caso Urs Stahel, nel parlare della sua mostra, ironizza come in lingua tedesca il detto popolare sia capovolto rispetto all’italiano e molto più assertivo: Klei
der machen Leute, gli abiti fanno le persone. Si sa, noi siamo più inclini a concedere dubbi e possibili opportunità.
Comunque sia, attraverso le ampie sale del Mast i visitatori sono «guardati a vista» da inaspettate guardie. In divisa da addetti alla sicurezza, ma non umane: si tratta di otto video di Marianne Müller (Zurigo, 1966) che accompagnano il visitatore. La serie introduce il vero filo conduttore della mostra: il processo di identificazione. Ed è davvero interessante il meccanismo di riconoscimento (di specchiamento, di distanza o rifiuto) che la sequenza di immagini mette in atto. Ognuno in fondo indossa una maschera e con essa una (spesso invisibile) divisa, anche chi pensa di non averla. In questo senso, è importante il lavoro di Barbara Davatz (Zurigo, 1944) che non a caso ha come titolo Beauty lies within, «Le apparenze non contano. Ritratti del mondo globalizzato della moda»: si tratta di una serie di giovani che, vestendo senza seguire gli ordini della moda, trovano una loro «uniformità» nei processi di marketing delle grandi case di distribuzione.
Il titolo riprende lo slogan che per un certo periodo fu stampato sulle shopper di H&M. Attraverso la sequenza di ritratti,
Davatz non mira tanto a condurre uno studio del carattere, quanto a tracciare un inventario sociologico ed etnografico: qual è, infatti il significato dell’identità in un mondo globalizzato? Ragazzi fotografati vivono e lavorano in Svizzera, ma tutti provengono, oltre che dalla Svizzera, da Paesi tanto diversi quanto lontani per geografia e storia: Kosovo, Serbia, Brasile, India. Ciò che li unisce è il legame con i vestiti popolari di H&M: così, ciò che viene dichiarato come negazione di una omologazione, ciò che è pensato come anti-uniforme, in verità diventa essa stessa omologazione, identità globale e identitaria di una generazione.
Un esempio altrettanto significativo, anche se di segno opposto, viene dall’intensa fotografia del duo Clegg & Guttmann (Michael Clegg, Dublino, 1957; Martin Guttmann, Gerusalemme, 1957):