Corriere della Sera - La Lettura
Vado a vivere a Lego City C’è pure Platone
Lo scorso 11 gennaio è stata pubblicata la classifica delle mostre più viste in Italia nella prima settimana di gennaio, un periodo particolarmente felice per musei ed esposizioni. Al primo posto, Canova/Thorvaldsen alle Gallerie d’Italia di Milano (18.425 visitatori); al terzo, Impressionisti segreti al Palazzo Bonaparte di Roma (10.077 visitatori). La sorpresa: al secondo posto I love Lego, ancora al Palazzo Bonaparte di Roma (11.969 visitatori). Nel frattempo, ha appena chiuso al Museo della Permanente di Milano un’altra esposizione fortunata, intitolata sempre I love Lego. Eventi di notevole successo, affollati di bambini, di genitori. Ma anche di tanti curiosi, che sono invitati a compiere un viaggio coloratissimo alla scoperta di una metamorfosi: la trasformazione di un giocattolo molto popolare in opera d’arte. Paesaggi fantastici, spettacolari diorami, quadri, sculture, città moderne, scenografie per pirati e monumenti antichi costruiti con i «mitici» mattoncini Lego. Insomma, versioni ridotte dei Legoland: parchi tematici che si trovano in Danimarca, in Germania, negli Stati Uniti e in Giappone.
Sempre Milano, sempre Lego. Tra qualche mese — dal prossimo 14 aprile — l’artista danese-islandese Olafur Eliasson installerà The Collectivity Project (in una sede del centro non ancora svelata). Si tratta di una nuova tappa di un progetto iniziato nel 2005 e presentato, dapprima, a Tirana, in Albania, nell’ambito della 3ª Biennale; poi, approdato a Oslo, a Copenaghen e a New York: il pubblico ha la possibilità di utilizzare una grande quantità di Lego bianchi per dare vita a una città ideale. In vari contesti, Eliasson replica il medesimo format, in attesa dei gesti e delle soluzioni dei suoi tanti e anonimi «assistenti».
In questa cartografia un posto a sé spetta ai quattordici Lego Certified Professional: artisti ingaggiati direttamente dall’azienda danese per modellare sculture, mosaici e oggetti.
Le ragioni di questo fenomeno? Siamo dinanzi a vere mostre, ad autentiche opere d’arte? Forse, siamo di fronte a qualcosa di diverso: un’originale forma di intrattenimento, attraversata da intenzioni pedagogiche, da rimandi storico-artistici e da segreti echi filosofici. Chi va a visitare una mostra sui Lego, innanzitutto, ha la possibilità di entrare nel mondo-Lego. Giocattoli per bambini, «utilizzabili intuitivamente da chiunque senza l’ausilio di istruzioni» (come si legge nella voce pubblicata su Wikipedia). Ogni specifico componente dei Lego fa parte di un sistema più ampio e complesso; ed è compatibile con il resto del sistema stesso: indipendentemente dalle sue dimensioni, ciascun pezzo, forma o funzione si incastra con gli altri.
Chi entra in I love Lego, inoltre, può conoscere le regole sottese a un gioco intelligente, che dal 1934 ha educato intere generazioni di bambini al rispetto delle regole e, insieme, alla bellezza della manualità e alla libertà creativa: disciplina nell’estro, flessibilità nel seguire istruzioni precise. I Lego, come è stato raccontato in un lungometraggio del 2014 ( Lego Mo
vie), ci costringono a non trasgredire mai la disposizione dei perni che stanno sotto ciascun pezzo; ci obbligano a utilizzare solo ciò che abbiamo a nostra disposizione; ci fanno capire se abbiamo fatto bene a collocare un determinato «frammento» in una certa posizione. Se ci manca qualche «tessera», ci spingono a trovare soluzioni alternative.
Insomma, chi si diverte con i Lego è portato a imparare presto a fare i conti con i propri limiti. Ma ha anche la possibilità di sperimentare un’infinita combinatoria tra mattoncini sempre uguali (esisto
Non solo
giochi Una mostra al Palazzo Bonaparte di Roma
(la seconda più vista in Italia nella prima settimana di gennaio); un’altra appena chiusa alla Permanente di Milano; l’installazione dell’artista Olafur Eliasson ad aprile, sempre a Milano. I mattoncini conservano un fascino meraviglioso. Perché è questa la città ideale
no circa 915 milioni di modi per mettere insieme sei mattoncini). Dotato di un istinto architettonico-ingegneristico, A può usare quei blocchetti per costruire architetture inattese e audaci; meno talentuoso, B, può avere difficoltà a ricomporre i medesimi blocchetti.
Oltre a possedere finalità pedagogiche, mostre come I love Lego e installazioni come The Collectivi
ty Project recuperano anche tanti echi dalla storia dell’arte: li assumono in maniera più o meno consapevole e li riattivano su un registro popolare, fumettistico, infantile.
Senza dichiararlo esplicitamente, gli artisti che lavorano per il colosso danese sembrano guardare, in primo luogo, alle architetture geometriche e visionarie di Piranesi; agli edifici matematici e «impossibili» di Escher; alle invenzioni costruttiviste di Tatlin e di Rodchenko. Decisivo anche il ricorso a una tecnica ampiamente praticata dai protagonisti delle avanguardie novecentesche (da Picasso e Braque a Schwitters) come il collage: artificio ri-costruttivo e processuale, per disarticolare e per riarticolare il visibile in modo imprevisto. Infine, cruciali i rinvii alla Pop Art e ai cartoon. Senza dimenticare l’implicita ripresa del concetto di «opera aperta» elaborato da Umberto Eco: i Lego si offrono come palinsesti all’interno dei quali ciascuno di noi, senza mai violare alcune norme, può agire e muoversi con grande libertà, componendo iconografie ardite. A questo sembra alludere Eliasson con il suo progetto collettivo.
Dietro queste citazioni culturali, emergono anche sottili motivi filosofici, come ha sottolineato Tommaso W. Bertolotti in un libriccino uscito qualche anno fa, Legosofia. Apologia filosofica del lego (edito da Il Melangolo). Secondo il giovane filosofo, le Lego City fanno pensare alle città-stato elleniche: ermetiche, autosufficienti ed esatte, debitrici di quel che aveva scritto Platone nella Repubblica. Basate su tante parti collegate tra di esse — come gli atomi di cui aveva parlato Democrito — queste città in miniatura sono abitate da omini-automi che hanno sempre le medesime espressioni sorridenti.
Eppure, al di là di queste eterogenee assonanze, abbiamo la sensazione che il fenomeno-Lego riveli innanzitutto la nostra maledetta volontà di non crescere mai, di restare sempre bambini. Passeggiando per le sale delle due esposizioni di I love Lego o partecipando a The Collectivity Project è come se, riecheggiando le parole di una celebre poesia di Aldo Palazzeschi, ripetessimo: «E lasciateci divertire!». © RIPRODUZIONE RISERVATA