Corriere della Sera - La Lettura

Emmanuelle Béart Il teatro mi ha salvata

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

«Il teatro ha salvato la mia vita di attrice. Sette anni fa salire sul palcosceni­co mi ha dato la possibilit­à di restare viva, di continuare a recitare ma tentando strade nuove. Adesso posso anche tornare al cinema, e lo farò quest’anno con due film, ma con una libertà e una profondità diverse», dice la star di Un cuore in inverno. Emmanuelle Béart sarà a Bologna il 22 e il 23 febbraio, per il Vie Festival, con la pièce Architectu­re di Pascal Rambert. È una storia famigliare a più voci, quella del terribile patriarca interpreta­to da Jacques Weber e dei suoi figli, figlie, nipoti, tutte persone colte e realizzate: scrittori, scienziati, pittrici o psicologa come nel ruolo affidato a Emmanuelle Béart. La vicenda si svolge in uno dei momenti più alti e drammatici della storia europea, comincia a Vienna nel 1911 e si conclude con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938. «È l’affresco famigliare — dice Béart — che m’ha interessat­o della pièce. Una grande famiglia che si tormenta, che attraversa la grande Europa dell’impero austro-ungarico, che è dotata di grandi mezzi intellettu­ali ma allo stesso tempo completame­nte disarmata di fronte al disastro imminente». «La Lettura» ha incontrato s’attrice e l’autore.

Emmanuelle Béart, in questa storia lei è una psicologa, che però non solo non riesce ad aiutare gli altri ma diventa lei stessa malata.

«Una donna che dovrebbe curare le teste degli altri e invece perde la propria. La frase che mi sconvolge di più è “abbandono le rive del linguaggio”, è quello il segno che l’irreparabi­le ormai è giunto. Pascal Rambert è un autore che si affida molto alle parole, e qui mostra che la catastrofe si manifesta come fallimento del linguaggio. Le parole non servono più a fermare o anche solo a pensare la rovina in arrivo, ma sono sempliceme­nte delle armi. In questa famiglia istruita le parole sono strumenti che servono a umiliare e a ferire, non a comunicare».

È un aspetto che rimanda alla violenza verbale dei nostri giorni?

«Senza dubbio, questa è l’altra ragione che mi ha fatto trovare questo testo affascinan­te. Ci sono evidenti risonanze con il momento storico che stiamo vivendo, con i populismi che avanzano in tutta l’Europa. Questa pièce è una sorta di ammoniment­o contro le tentazioni del ripiegamen­to su sé stessi, dell’accecament­o, della chiusura verso gli altri».

Lei in Italia è molto nota e amata come attrice ma molti ricordano anche il suo impegno civile, le immagini nella chiesa Saint Bernard a Parigi al fianco dei «sans papiers». Era il 1996. Quella presa di posizione è la stessa che ritroviamo nella pièce «Architectu­re»?

«Sì, sono sempre io, questi sono i temi

È artisticam­ente nata sul palcosceni­co, è diventata una star del cinema, sette anni fa — dice — è tornata a teatro per «restare viva, continuare a recitare ma tentando strade nuove». L’attrice

francese, indimentic­ata interprete di «Un cuore in inverno», sarà protagonis­ta a Bologna di «Architectu­re», dramma famigliare su un patriarca novecentes­co: «Sono una psicologa che perde la testa, la catastrofe si manifesta come fallimento del linguaggio». Autore e regista è Pascal Rambert:

«Svelo la caducità dei rapporti famigliari e delle civiltà»

di una vita. Ho solo cambiato le modalità del mio impegno, ma è quanto cerco di fare a teatro con gli autori con i quali lavoro di più, Stanislas Nordey e Pascal Rambert. Credo che il teatro sia uno spazio di coraggio, di impegno, più profondo e più utile a lungo termine di qualche intervista televisiva fatta sul momento. Non è un caso che mi sia rivolta a quegli autori, a questi testi. Stanislas e Pascal sono persone estremamen­te impegnate, in loro ho trovato una terra di accoglienz­a e di responsabi­lità. Il mio impegno contro le ingiustizi­e ha preso una forma diversa, artistica, ma è lo stesso di quando stavo in chiesa con i sans papiers ».

Il regista di «Architectu­re», Rambert, dice di lei che è diventata un’attrice di teatro straordina­ria, in grado di cambiare toni e interpreta­zione a ogni rappresent­azione.

«A differenza di Nordey, che preferisce una messa in scena definita nei minimi particolar­i, Rambert lascia maggiore libertà: la sua preoccupaz­ione fondamenta­le è il linguaggio, ma sul palcosceni­co ci va anche il corpo e ci sono ancora spazi per esprimersi e tentare nuove strade. E io non mi trovo a mio agio con la routine, quindi apprezzo molto la possibilit­à di ricercare accenti diversi ogni sera. Il testo di Architectu­re è bellissimo, pieno di sfumature da scoprire e da valorizzar­e. Dopo l’apertura del Festival di Avignone ho continuato a essere libera e a ricercare e lo farò anche a Bologna».

Pascal Rambert, perché il titolo «Architectu­re»?

«È una parola che uso per designare le relazioni famigliari e per parlare allo stesso tempo di una struttura che sembrava eterna, l’impero austro-ungarico all’apice del suo splendore. Quando ho cominciato a pensare a questa pièce, qualche anno fa, mi sono venute in mente le grandi strutture architetto­niche che mi capita di vedere durante i miei frequenti viaggi di lavoro: le piramidi in Messico, in Perù o in Egitto, la Grande muraglia in Cina. L’uomo ha sempre tentato di costruire qualcosa che potesse sopravvive­rgli, e talvolta ha avuto l’impression­e di esserci riuscito anche con le strutture politiche. Nel 1910, in quella grande famiglia viennese, l’impero austro-ungarico sembrava immutabile, eterno. È il grande momento della civiltà europea, che a un certo punto invece crolla per una sorta di doppio suicidio: la Prima guerra mondiale e poi il nazismo e l’antisemiti­smo».

C’è qualcosa di autobiogra­fico nella scelta di quel periodo e di quei luoghi?

«Sì, lavoro molto nelle città che furono le perle dell’impero: Budapest, Belgrado, Zagabria, Sarajevo, Trieste, che amo particolar­mente. Il mio lavoro si basa su tre pilastri: i viaggi, i libri, la vita privata».

La figura centrale della pièce, Rambert, è quella del padre, interpreta­to da Jacques Weber. Un grande architetto che ha costruito edifici in tutta Europa, una specie di Zeus che schiaccia i figli e i nipoti, che hanno difficoltà a esprimersi davanti a lui.

«Qui il momento autobiogra­fico non c’è, quell’architetto non è mio padre. Ma adoro le figure dei padri terribili. Sono interessan­ti, affascinan­ti, e hanno il merito di fare andare avanti la storia. Da un lato hanno un potere paralizzan­te, dall’altro finiscono per obbligare gli altri a prendere posizione, a muoversi, a ribellarsi o almeno a provarci. E alla fine Jacques si rivela meno terribile di come sembrava all’inizio. Mi piace l’idea di curva narrativa, personaggi che in partenza hanno idee precise sul mondo e all’arrivo sono in stato di choc».

Scrivendo, pensava a Weber?

«Ho scritto partendo dalla sua parte, sì. Nella struttura narrativa lui è il fulcro, a partire da lui ho creato gli altri personaggi, che hanno con lui un rapporto complesso, pieno di violenza psicologic­a ed emozione. Mi piacciono i personaggi che si pentono. Sono estremamen­te duri e poi, nella scena successiva, si rendono conto a quale punto innervosir­si, urlare, essere violenti è ridicolo e finisce per distrugger­e loro stessi piuttosto che gli altri. E a partire da Jacques Weber ecco il personaggi­o di Emmanuel Béart».

Qual è il suo rapporto con lei?

«Trovo che sia straordina­ria, una grandissim­a attrice di teatro, ormai. È una star, ha un’immagine che tutti ricordano, ma ha trovato la sua grandezza nella recitazion­e teatrale. Il suo è un bellissimo personaggi­o, drammatico, la psicologa che perde la ragione. Devo dire che dalla prima ad Avignone a oggi Emmanuelle ha compiuto un cammino eccezional­e e fa qualcosa che le attrici teatrali non osano spesso, ovvero ogni sera si mette in uno stato di pura invenzione, di creatività. E nella compagnia tiene a essere come tutti gli altri, con lo stesso compenso, gli stessi obblighi e impegni. Non le faccio compliment­i troppo spesso perché non vorrei soffocare in lei un’ansia che è feconda e la porta a cercarsi ancora».

Non bisogna essere troppo generosi con gli attori?

«No, credo che un autore teatrale debba cercare un difficile punto di equilibrio. Non essere troppo critico, perché altrimenti si arriva a scoraggiar­e un attore che allora non è più in grado di fare nulla, come succede in tutte le circostanz­e della vita. Ma non fare neanche troppi compliment­i, perché altrimenti l’attore rischia di sentirsi appagato, completo una volta per tutte. L’ideale è essere incoraggia­nti, ma tenere viva una piccola parte di dubbio, che è quella che spinge a tentare di migliorars­i a ogni rappresent­azione. Emmanuel lo fa, ogni sera. E io non le ho mai detto che sta diventando un’immensa attrice di teatro, ma è così».

La storia di «Architectu­re» procede per strappi temporali, un po’ perché il periodo coperto dalla pièce abbraccia quasi tre decenni, e un po’ perché ci sono momenti di incongruen­za cronologic­a, come quando verso la fine tutti i personaggi tirano fuori i loro computer portatili.

«È un modo per rimettere tutto in prospettiv­a e per sottolinea­re che non stiamo assistendo a una rappresent­azione storica. La vicenda ha un carattere universale, è ambientata nell’Europa della prima metà del Novecento ma potrebbe svolgersi ai giorni nostri. È questo credo l’interesse e l’attualità della pièce. Dopo la caduta del muro di Berlino pensavamo di vivere in un mondo senza guerre, di progresso inarrestab­ile, e la pace assicurata. Si parlava di “fine della storia”, regnava l’ottimismo. Guardiamo lo stato del mondo oggi: io sono tra quelli che pensano che la vittoria di Trump negli Stati Uniti, la Brexit, l’avanzata del populismo in Europa siano segni preoccupan­ti di decadenza, il segnale di un crollo possibile. La storia procede per svolte improvvise, e non sempre verso il meglio. Lavoro spesso in Grecia, e anche se le cose vanno un po’ meglio la situazione è sempre difficile, non ci sono soldi, occuparsi di arte e cultura è quasi impossibil­e. Lo stesso accade in Messico, dove a teatro si è preoccupat­i continuame­nte per i soldi che non ci sono e che mettono a rischio i progetti. Architectu­re parla della caducità dei rapporti famigliari e delle civiltà. La scenografi­a cambia, i mobili passano dallo stile Biedermeie­r al Bauhaus, ma è una storia molto contempora­nea».

Emmanuel Béart, in questa pièce lei ritrova Jacques Weber che la diresse nel «Misantropo» di Molière.

«Fu 28 anni fa, ed è una grande emozione oggi stare sul palcosceni­co accanto a Jacques. Ogni sera mi sconvolge con la sua interpreta­zione del patriarca, un aristocrat­ico tiranno. È Jacques che sta al centro della scena e dà a noi altri personaggi la voglia di reagire, di rispondere. È l’anima dello spettacolo».

Assomiglia a suo padre, il compositor­e, cantante e poeta Guy Béart scomparso nel 2015?

«No, mio padre era autoritari­o ma non umiliava. Questa è la grande differenza. Aveva idee forti e voleva che i suoi figli le rispettass­ero ma ho sempre sentito che l’intento era il nostro bene, non la sopraffazi­one, e questo è decisivo. Mio padre era anche molto dedito al suo lavoro, non era una presenza ingombrant­e».

Questo l’ha lasciata libera di cercare la sua strada?

«Sì, non ho mai sentito alcuna pressione. Ho potuto scegliere, prendere le decisioni importanti nella mia vita, del tutto in autonomia. Il mio rapporto con la figura paterna non assomiglia per niente a quello che interpreto sul palcosceni­co».

È vero che sta preparando un documentar­io su Guy Béart?

«Sì. Prima uscirà un album tributo con le sue canzoni, poi il documentar­io al quale lavoro da tempo. Mio padre ha lasciato un patrimonio artistico che sento di dover mantenere e tramandare. Sono andata in Libano, dove lui ha vissuto fino ai 17 anni, alla ricerca delle sue radici. Mio padre è nato al Cairo, ha vissuto in molti Paesi... Una vita affascinan­te...».

Quest’anno segna anche il suo ritorno al cinema.

«Recito in due film: in Merveilles à

Montfermei­l di Jeanne Balibar sono la sindaca di una città utopica; nell’Étreinte di Ludovic Bergery interpreto una cinquanten­ne che perde i suoi punti di riferiment­o. Ma il teatro mi ha fatto rinascere come attrice e non lo abbandono: le mie prossime pièce saranno la Pentesilea di Kleist e Orgia di Pasolini».

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 ??  ?? L’appuntamen­to Architectu­re, in prima nazionale e uniche date in Italia, ha aperto il Festival d’Avignone il 4 luglio 2019. Testo, ideazione e installazi­one sono di Pascal Rambert (sopra, foto di Patrick Imbert). È in scena sabato 22 febbraio (ore 19.30) e domenica 23 (ore 16) al Teatro Arena del Sole di Bologna (via Indipenden­za, 44). Durata: tre ore, in francese con sovratitol­i in italiano (info: viefestiva­l.com; emiliaroma­gnateatro.com); biglietti: € 25-7. Il testo è pubblicato nella collana Linea di Ert Fondazione e Luca Sossella Editore. Di Rambert esce anche Soeurs (Marina & Audrey), traduzione di Chiara Elefante
L’appuntamen­to Architectu­re, in prima nazionale e uniche date in Italia, ha aperto il Festival d’Avignone il 4 luglio 2019. Testo, ideazione e installazi­one sono di Pascal Rambert (sopra, foto di Patrick Imbert). È in scena sabato 22 febbraio (ore 19.30) e domenica 23 (ore 16) al Teatro Arena del Sole di Bologna (via Indipenden­za, 44). Durata: tre ore, in francese con sovratitol­i in italiano (info: viefestiva­l.com; emiliaroma­gnateatro.com); biglietti: € 25-7. Il testo è pubblicato nella collana Linea di Ert Fondazione e Luca Sossella Editore. Di Rambert esce anche Soeurs (Marina & Audrey), traduzione di Chiara Elefante
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Qui accanto: foto di gruppo della produzione con gli attori e il regista e autore Pascal Rambert. A sinistra: Emmanuelle Béart (Gassin, Francia, 14 agosto 1963; anche in basso) in scena con Laurent Poitrenaux (foto di Jean Louis Fernandez). Lo spettacolo è una coproduzio­ne italo-francese con, tra gli altri, Emilia-Romagna Teatro Fondazione, Festival d’Avignone, Théâtre National di Strasburgo, Théâtre National de Bretagne a Rennes
Le immagini Qui accanto: foto di gruppo della produzione con gli attori e il regista e autore Pascal Rambert. A sinistra: Emmanuelle Béart (Gassin, Francia, 14 agosto 1963; anche in basso) in scena con Laurent Poitrenaux (foto di Jean Louis Fernandez). Lo spettacolo è una coproduzio­ne italo-francese con, tra gli altri, Emilia-Romagna Teatro Fondazione, Festival d’Avignone, Théâtre National di Strasburgo, Théâtre National de Bretagne a Rennes

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