Corriere della Sera - La Lettura
Emmanuelle Béart Il teatro mi ha salvata
«Il teatro ha salvato la mia vita di attrice. Sette anni fa salire sul palcoscenico mi ha dato la possibilità di restare viva, di continuare a recitare ma tentando strade nuove. Adesso posso anche tornare al cinema, e lo farò quest’anno con due film, ma con una libertà e una profondità diverse», dice la star di Un cuore in inverno. Emmanuelle Béart sarà a Bologna il 22 e il 23 febbraio, per il Vie Festival, con la pièce Architecture di Pascal Rambert. È una storia famigliare a più voci, quella del terribile patriarca interpretato da Jacques Weber e dei suoi figli, figlie, nipoti, tutte persone colte e realizzate: scrittori, scienziati, pittrici o psicologa come nel ruolo affidato a Emmanuelle Béart. La vicenda si svolge in uno dei momenti più alti e drammatici della storia europea, comincia a Vienna nel 1911 e si conclude con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938. «È l’affresco famigliare — dice Béart — che m’ha interessato della pièce. Una grande famiglia che si tormenta, che attraversa la grande Europa dell’impero austro-ungarico, che è dotata di grandi mezzi intellettuali ma allo stesso tempo completamente disarmata di fronte al disastro imminente». «La Lettura» ha incontrato s’attrice e l’autore.
Emmanuelle Béart, in questa storia lei è una psicologa, che però non solo non riesce ad aiutare gli altri ma diventa lei stessa malata.
«Una donna che dovrebbe curare le teste degli altri e invece perde la propria. La frase che mi sconvolge di più è “abbandono le rive del linguaggio”, è quello il segno che l’irreparabile ormai è giunto. Pascal Rambert è un autore che si affida molto alle parole, e qui mostra che la catastrofe si manifesta come fallimento del linguaggio. Le parole non servono più a fermare o anche solo a pensare la rovina in arrivo, ma sono semplicemente delle armi. In questa famiglia istruita le parole sono strumenti che servono a umiliare e a ferire, non a comunicare».
È un aspetto che rimanda alla violenza verbale dei nostri giorni?
«Senza dubbio, questa è l’altra ragione che mi ha fatto trovare questo testo affascinante. Ci sono evidenti risonanze con il momento storico che stiamo vivendo, con i populismi che avanzano in tutta l’Europa. Questa pièce è una sorta di ammonimento contro le tentazioni del ripiegamento su sé stessi, dell’accecamento, della chiusura verso gli altri».
Lei in Italia è molto nota e amata come attrice ma molti ricordano anche il suo impegno civile, le immagini nella chiesa Saint Bernard a Parigi al fianco dei «sans papiers». Era il 1996. Quella presa di posizione è la stessa che ritroviamo nella pièce «Architecture»?
«Sì, sono sempre io, questi sono i temi
È artisticamente nata sul palcoscenico, è diventata una star del cinema, sette anni fa — dice — è tornata a teatro per «restare viva, continuare a recitare ma tentando strade nuove». L’attrice
francese, indimenticata interprete di «Un cuore in inverno», sarà protagonista a Bologna di «Architecture», dramma famigliare su un patriarca novecentesco: «Sono una psicologa che perde la testa, la catastrofe si manifesta come fallimento del linguaggio». Autore e regista è Pascal Rambert:
«Svelo la caducità dei rapporti famigliari e delle civiltà»
di una vita. Ho solo cambiato le modalità del mio impegno, ma è quanto cerco di fare a teatro con gli autori con i quali lavoro di più, Stanislas Nordey e Pascal Rambert. Credo che il teatro sia uno spazio di coraggio, di impegno, più profondo e più utile a lungo termine di qualche intervista televisiva fatta sul momento. Non è un caso che mi sia rivolta a quegli autori, a questi testi. Stanislas e Pascal sono persone estremamente impegnate, in loro ho trovato una terra di accoglienza e di responsabilità. Il mio impegno contro le ingiustizie ha preso una forma diversa, artistica, ma è lo stesso di quando stavo in chiesa con i sans papiers ».
Il regista di «Architecture», Rambert, dice di lei che è diventata un’attrice di teatro straordinaria, in grado di cambiare toni e interpretazione a ogni rappresentazione.
«A differenza di Nordey, che preferisce una messa in scena definita nei minimi particolari, Rambert lascia maggiore libertà: la sua preoccupazione fondamentale è il linguaggio, ma sul palcoscenico ci va anche il corpo e ci sono ancora spazi per esprimersi e tentare nuove strade. E io non mi trovo a mio agio con la routine, quindi apprezzo molto la possibilità di ricercare accenti diversi ogni sera. Il testo di Architecture è bellissimo, pieno di sfumature da scoprire e da valorizzare. Dopo l’apertura del Festival di Avignone ho continuato a essere libera e a ricercare e lo farò anche a Bologna».
Pascal Rambert, perché il titolo «Architecture»?
«È una parola che uso per designare le relazioni famigliari e per parlare allo stesso tempo di una struttura che sembrava eterna, l’impero austro-ungarico all’apice del suo splendore. Quando ho cominciato a pensare a questa pièce, qualche anno fa, mi sono venute in mente le grandi strutture architettoniche che mi capita di vedere durante i miei frequenti viaggi di lavoro: le piramidi in Messico, in Perù o in Egitto, la Grande muraglia in Cina. L’uomo ha sempre tentato di costruire qualcosa che potesse sopravvivergli, e talvolta ha avuto l’impressione di esserci riuscito anche con le strutture politiche. Nel 1910, in quella grande famiglia viennese, l’impero austro-ungarico sembrava immutabile, eterno. È il grande momento della civiltà europea, che a un certo punto invece crolla per una sorta di doppio suicidio: la Prima guerra mondiale e poi il nazismo e l’antisemitismo».
C’è qualcosa di autobiografico nella scelta di quel periodo e di quei luoghi?
«Sì, lavoro molto nelle città che furono le perle dell’impero: Budapest, Belgrado, Zagabria, Sarajevo, Trieste, che amo particolarmente. Il mio lavoro si basa su tre pilastri: i viaggi, i libri, la vita privata».
La figura centrale della pièce, Rambert, è quella del padre, interpretato da Jacques Weber. Un grande architetto che ha costruito edifici in tutta Europa, una specie di Zeus che schiaccia i figli e i nipoti, che hanno difficoltà a esprimersi davanti a lui.
«Qui il momento autobiografico non c’è, quell’architetto non è mio padre. Ma adoro le figure dei padri terribili. Sono interessanti, affascinanti, e hanno il merito di fare andare avanti la storia. Da un lato hanno un potere paralizzante, dall’altro finiscono per obbligare gli altri a prendere posizione, a muoversi, a ribellarsi o almeno a provarci. E alla fine Jacques si rivela meno terribile di come sembrava all’inizio. Mi piace l’idea di curva narrativa, personaggi che in partenza hanno idee precise sul mondo e all’arrivo sono in stato di choc».
Scrivendo, pensava a Weber?
«Ho scritto partendo dalla sua parte, sì. Nella struttura narrativa lui è il fulcro, a partire da lui ho creato gli altri personaggi, che hanno con lui un rapporto complesso, pieno di violenza psicologica ed emozione. Mi piacciono i personaggi che si pentono. Sono estremamente duri e poi, nella scena successiva, si rendono conto a quale punto innervosirsi, urlare, essere violenti è ridicolo e finisce per distruggere loro stessi piuttosto che gli altri. E a partire da Jacques Weber ecco il personaggio di Emmanuel Béart».
Qual è il suo rapporto con lei?
«Trovo che sia straordinaria, una grandissima attrice di teatro, ormai. È una star, ha un’immagine che tutti ricordano, ma ha trovato la sua grandezza nella recitazione teatrale. Il suo è un bellissimo personaggio, drammatico, la psicologa che perde la ragione. Devo dire che dalla prima ad Avignone a oggi Emmanuelle ha compiuto un cammino eccezionale e fa qualcosa che le attrici teatrali non osano spesso, ovvero ogni sera si mette in uno stato di pura invenzione, di creatività. E nella compagnia tiene a essere come tutti gli altri, con lo stesso compenso, gli stessi obblighi e impegni. Non le faccio complimenti troppo spesso perché non vorrei soffocare in lei un’ansia che è feconda e la porta a cercarsi ancora».
Non bisogna essere troppo generosi con gli attori?
«No, credo che un autore teatrale debba cercare un difficile punto di equilibrio. Non essere troppo critico, perché altrimenti si arriva a scoraggiare un attore che allora non è più in grado di fare nulla, come succede in tutte le circostanze della vita. Ma non fare neanche troppi complimenti, perché altrimenti l’attore rischia di sentirsi appagato, completo una volta per tutte. L’ideale è essere incoraggianti, ma tenere viva una piccola parte di dubbio, che è quella che spinge a tentare di migliorarsi a ogni rappresentazione. Emmanuel lo fa, ogni sera. E io non le ho mai detto che sta diventando un’immensa attrice di teatro, ma è così».
La storia di «Architecture» procede per strappi temporali, un po’ perché il periodo coperto dalla pièce abbraccia quasi tre decenni, e un po’ perché ci sono momenti di incongruenza cronologica, come quando verso la fine tutti i personaggi tirano fuori i loro computer portatili.
«È un modo per rimettere tutto in prospettiva e per sottolineare che non stiamo assistendo a una rappresentazione storica. La vicenda ha un carattere universale, è ambientata nell’Europa della prima metà del Novecento ma potrebbe svolgersi ai giorni nostri. È questo credo l’interesse e l’attualità della pièce. Dopo la caduta del muro di Berlino pensavamo di vivere in un mondo senza guerre, di progresso inarrestabile, e la pace assicurata. Si parlava di “fine della storia”, regnava l’ottimismo. Guardiamo lo stato del mondo oggi: io sono tra quelli che pensano che la vittoria di Trump negli Stati Uniti, la Brexit, l’avanzata del populismo in Europa siano segni preoccupanti di decadenza, il segnale di un crollo possibile. La storia procede per svolte improvvise, e non sempre verso il meglio. Lavoro spesso in Grecia, e anche se le cose vanno un po’ meglio la situazione è sempre difficile, non ci sono soldi, occuparsi di arte e cultura è quasi impossibile. Lo stesso accade in Messico, dove a teatro si è preoccupati continuamente per i soldi che non ci sono e che mettono a rischio i progetti. Architecture parla della caducità dei rapporti famigliari e delle civiltà. La scenografia cambia, i mobili passano dallo stile Biedermeier al Bauhaus, ma è una storia molto contemporanea».
Emmanuel Béart, in questa pièce lei ritrova Jacques Weber che la diresse nel «Misantropo» di Molière.
«Fu 28 anni fa, ed è una grande emozione oggi stare sul palcoscenico accanto a Jacques. Ogni sera mi sconvolge con la sua interpretazione del patriarca, un aristocratico tiranno. È Jacques che sta al centro della scena e dà a noi altri personaggi la voglia di reagire, di rispondere. È l’anima dello spettacolo».
Assomiglia a suo padre, il compositore, cantante e poeta Guy Béart scomparso nel 2015?
«No, mio padre era autoritario ma non umiliava. Questa è la grande differenza. Aveva idee forti e voleva che i suoi figli le rispettassero ma ho sempre sentito che l’intento era il nostro bene, non la sopraffazione, e questo è decisivo. Mio padre era anche molto dedito al suo lavoro, non era una presenza ingombrante».
Questo l’ha lasciata libera di cercare la sua strada?
«Sì, non ho mai sentito alcuna pressione. Ho potuto scegliere, prendere le decisioni importanti nella mia vita, del tutto in autonomia. Il mio rapporto con la figura paterna non assomiglia per niente a quello che interpreto sul palcoscenico».
È vero che sta preparando un documentario su Guy Béart?
«Sì. Prima uscirà un album tributo con le sue canzoni, poi il documentario al quale lavoro da tempo. Mio padre ha lasciato un patrimonio artistico che sento di dover mantenere e tramandare. Sono andata in Libano, dove lui ha vissuto fino ai 17 anni, alla ricerca delle sue radici. Mio padre è nato al Cairo, ha vissuto in molti Paesi... Una vita affascinante...».
Quest’anno segna anche il suo ritorno al cinema.
«Recito in due film: in Merveilles à
Montfermeil di Jeanne Balibar sono la sindaca di una città utopica; nell’Étreinte di Ludovic Bergery interpreto una cinquantenne che perde i suoi punti di riferimento. Ma il teatro mi ha fatto rinascere come attrice e non lo abbandono: le mie prossime pièce saranno la Pentesilea di Kleist e Orgia di Pasolini».