Corriere della Sera - La Lettura
Canto Johnny Cash perché è uno della Bassa
Un po’ è una questione generazionale: Bobby Solo è un artista del dopoguerra che dell’America ha abbracciato l’irragionevolezza. Sta di fatto che l’omaggio dell’autore di «Una lacrima sul viso» al grande musicista non è nostalgia né mestiere. Anzi
Due tacchi vertiginosi in prima fila per una scarpa lastricata di brillanti d’argento. Un paio di scollature generose in platea, un pantalone laminato. Uno Stetson Hat autentico nei palchi: glamour piuttosto contenuto per una serata che avrebbe potuto essere bollata come mero revival e che invece ha solleticato altre corde.
L’audience, intanto. Che non si sarebbe potuta immaginare più numerosa e bollente di quella che ha stipato il teatro di Cadelbosco Sopra, Reggio Emilia. Tutto esaurito e delusione per chi non è potuto entrare, stasera Bobby Solo canta Johnny Cash e sarà sorprendente constatare come il pubblico non sia lì per i grandi successi sanremesi ma per quella musica americana che ha saputo impadronirsi del cuore di una pianura tutt’altro che disponibile a farsi colonizzare.
Questa fascia tra la città e il Po ha fatto suoi da decenni i paradigmi della migliore tradizione musicale statunitense, non solo per i suoi grandi eroi — Elvis, Bob Dylan, Johnny Cash — ma con la conoscenza dettagliata di tutta una folla di comprimari che ha influenzato il «pensarsi» di più di una generazione. Gente concreta, questa nel teatro, pratica e laboriosa, ma che mantiene nel proprio mondo segreto una percentuale di voglia di immaginarsi là. Per la franchezza — presunta — dei modi, per l’esagerazione di quelle vite condotte all’eccesso, per l’avventura quotidiana, la malinconia e il senso di un destino perduto che accompagna quelle canzoni memorabili. Centinaia di gruppi musicali sono nati in queste terre esprimendo con una mistura di country, blues, hillbilly, bluegrass sia l’incapacità di accontentarsi del quotidiano di una provincia pur tumultuosa come quella emiliana che l’indolenza indotta dalla vicinanza del grande fiume.
«Nel 1965 ho comprato tutto il catalogo della Cbs destinato al macero, 400 vinili, c’era Marty Robbins, Bud Owens, c’era Hank Snow. E c’erano 20 album di Johnny Cash. Con questa faccia dura in copertina, quella voce. Sono andato in estasi. Anni dopo — avevo venduto due
milioni di copie di un mio album in tedesco, dicevano che la morbidezza della mia voce addolciva il sound della loro lingua — ero in Germania quando il capo della Cbs tedesca mi invita alla base Airforce di Ramstein dove il giorno dopo si sarebbe esibito proprio Cash», dice Bobby Solo.
Dylan scrive che Cash è la stella polare su cui orientarsi. Una presenza monumentale, maestosa. Ce lo descrive? «Un metro e novanta, due spalle così, un cappottone nero lungo fino ai polpacci. Una mano larga come una bistecca alla fiorentina dentro la quale la mia scompariva. C’era la moglie, la cantante June Carter, c’era Carl Perkins, l’autore di Blue
Suede Shoes. Non ho avuto il coraggio di dire una parola».
Quando con la chitarra Martin nera in mano Cash si siede sull’amplificatore Fender Twin — identico a quello sul palco di Cadelbosco stasera — e canta assieme a June Will the Circle Be Unbroken,
Bobby Solo cade in un innamoramento mai più rinnegato. Dedicandogli un primo album nel 2004, Homemade Johnny
Cash, e ora questo tour in occasione dei 50 anni di quello che forse è il più celebrato album di Cash, il live tenuto nel penitenziario di Folsom Prison, in California, dove un pubblico tutt’altro che raccomandabil e a c c o g l i e i l c a nt a nte d e l - l’Arkansas con entusiasmo trionfale riconoscendolo come uno di loro, per attitudini e probabilità.
Bobby, ma non si sente in imbarazzo a cantare una frase come «Ho ucciso un uomo a Reno, giusto per vedere come faceva a morire»? «Un attore che recita Amleto probabilmente alla sera torna a casa e si fa due spaghetti all’amatriciana. Un cantante non necessariamente deve riflettere solo sé stesso. Crea storie».
Una mezz’ora di riscaldamento con i BroadCash — il gruppo che lo accompagnerà — a ravvivare sapientemente l’atmosfera, e un boato accoglie l’entrata scenica di Bobby. Un saluto plateale, un paio di mosse, nessun istrionismo negli abiti di scena. Comincia una tessitura sapiente tra autoironia e autentica bravura, quasi un gioco recitato da un fratello maggiore che ne ha viste tante, dove ogni ammiccamento al pubblico viene condito di urla e applausi.
Quello che un artista meno dotato avrebbe potuto trasformare in una catastrofe caricaturale — chi può coscientemente affrontare questo repertorio senza soccombere? — nelle mani di Bobby acquista una presenza sempre più convincente. Per la profondità della voce, l’intonazione, la pronuncia accurata, la capacità di improvvisare e di tenere il palco a piacimento. Bobby contorna ogni canzone con aneddoti con un tono da ragazzaccio irredento cui è difficile resistere senza sorridere, mostrando quanto quella musica d’oltreoceano si sia assestata nei cromosomi di una generazione, la sua, che è
nata all’uscita dalla guerra e ha abbracciato non tanto le ragioni dei vincitori quanto la loro irragionevolezza, facendola propria.
Sul palco escono Hold the Line, Wheels of Fire, Riders in the Sky, fino a una
sorprendente versione di Girl from the
North Country di Dylan. Ma di là dal ruolo di cantante leggero cui la fama lo ha consegnato popolarmente, la vera sorpresa è la disinvoltura con cui maneggia la sua Fender Stratocaster Olympic White. Uno stile che non può nascere a scuola e che lui stesso definisce da analfabeta, con il solo pollice destro che corre all’ingiù lungo le sei corde, negli accordi come nei numerosi assoli.
«Non so mai cosa sto suonando. Come nel blues rurale», racconta al pubblico. «Mi piace buttarmi senza rete, mettere un accordo perché mi suona bene, anche se non so quale è. Decidere la scaletta delle canzoni direttamente sul palco». Per la disperazione sorridente del gruppo che lo accompagna e che peraltro dimostra un’eccellente capacità nell’assecondarlo sull’istante.
«Da quando avevo vent’anni ho cercato di capire da dove Elvis prendesse l’ispirazione. Mi sono comprato tutti i dischi che lui ascoltava, Lowell Fulson, Bill Monroe, Dean Martin. Io non sono un imitatore, il mio stile nasce dai miei limiti. Elvis aveva un’estensione di due ottave e un quarto, io sono un baritono con un’ottava a malapena. Con l’età la mia voce si è ingrandita. Questo è l’unico modo di fare musica: ascoltare i grandi».
E ora? «Ascolto Tinariwen, tuareg del Mali. E Roberto Murolo». Come è cominciato tutto? «Avevo un falegname sotto casa, sapeva che ero bravo con la fionda tirando chiodi piegati in due. A ogni topo che gli uccidevo, mi insegnava un accordo sulla chitarra. Quattro topi, quattro accordi: do, la minore, re minore, sol. Con quelli ho scritto Una lacrima sul vi
so. Ero in cucina con mia madre Marilina che cucinava patate, in tre minuti ho composto la melodia. Poi ho incontrato quel genio di Mogol, nel viaggio verso lo studio di registrazione ha scritto il testo. In quindici minuti».
E il suo nome d’arte? «Mio padre, colonnello dell’aeronautica, detestava i cantanti pop, per lui erano tutti straccioni, da Elvis a Modugno, ha diffidato la Ricordi dall’usare il cognome di famiglia. Così Vincenzo Micocci, dirigente della casa discografica dice: chiamiamolo all’americana, Bobby. E la segretaria: Bobby come? E lui: solo Bobby. La segretaria, solerte, appunta: Bobby Solo».
«Cry cry cry», canta Cash. «And the tears that I cry». Sempre lacrime sul viso, nelle canzoni? «Noi italiani amiamo la sinfonia, l’orchestra con 40 violini o il gruppo rock con le chitarre distorte. Cerchiamo la magnificenza. L’ho detto alle prove ai ragazzi che suonano con me, calma, non c’è bisogno di correre, noi suoniamo blues con lo shuffle. Tu, batterista: non serve tutto quel ferro nei microfoni, non c’è bisogno di tirare in avanti. Ricordatevi che l’unico modo vero di suonare è stare appoggiati, come Romano Prodi quando parla».
Forse questa è un’Emilia che ha bisogno di rassicurazioni, e queste canzoni trasportano in un mondo già raccontato che è più semplice da affrontare. O forse è solamente sacrosanta voglia di divertirsi, in una sera di gennaio inoltrato, a due giorni da un voto regionale che nessuno dei presenti in questo momento può pronosticare. Fatto sta che stasera non riesce a lasciare il palco, Bobby, per l’entusiasmo che lo contagia. E lui ci sta, per lanciarsi in una Lacrima sul viso rivisitata con accordi jazz seguita da una serie di bis dedicati all’altro grande amore, Presley. A ogni mossa d’anca — obbligatoria — un’ovazione. Mima un affanno che non ha, e resta a bordo palco a stringere mani riconoscenti e lanci di baci. Settantacinque anni. Che spirito e che voce.
Due chitarre in mano, Bobby Solo si avvia verso l’uscita. Non vuole aiuti. Ci pensa lui, alle sue cose. Rock’n’ roll, basico e disincantato fino in fondo.