Corriere della Sera - La Lettura
Carla Bley Il blues è la vita
La (prima) donna del jazz ha attraversato le diverse stagioni del genere e torna con un nuovo album: «Faccio concerti per suonare la mia musica come va suonata». A «la Lettura» racconta le sue avventure creative : dal padre organista ai grandi con i quali ha lavorato
Da ragazza è stata (anche) campionessa di pattini a rotelle. Nel frattempo si perdeva sempre di più nella musica, studiando con il padre, organista in una chiesa di Oakland, California, dov’è nata l’11 maggio 1938. A un certo punto, prima di diventare la donna del jazz, ha fatto un concerto di beneficenza in un ospedale psichiatrico della sua città. Carla Bley è pianista, compositrice, arrangiatrice, con un fortissimo senso melodico; ha attraversato tutte le stagioni del jazz, guidato formazioni con i migliori solisti, ottenuto ogni genere di premio e riconoscimento in un mondo che è soprattutto maschile, inciso un numero imprecisato di dischi (quello nuovo, per Ecm, esce sabato 15 febbraio e ha un titolo benaugurante, Life Goes On: la vita continua), in trio con Andy Sheppard e Steve Swallow, il suo terzo marito (dopo Paul Bley e Michael Mantler): «Ci siamo conosciuti nel 1959 — racconta Carla Bley a “la Lettura” — quand’ero sposata con Paul. Siamo inseparabili». La signora del jazz ha fondato anche etichette discografiche (Watt e XtraWatt), composto nel 1971 una mastodontica opera jazzistica ( Escalator over the Hill) su libretto di Paul Haines e registrata nell’arco di tre anni, con la partecipazione dei migliori musicisti attivi in quegli anni (Don Cherry, Charlie Haden, Roswell Rudd...). Una vignetta in un suo vecchio disco la ritraeva nelle vesti di una professoressa di astronomia che spiegava stizzita: «L’universo non ha avuto origine da un big bang ma da una big band». Ironia, sempre. E oggi aggiunge: «L’umorismo sarà l’ultima frontiera dell’intelligenza artificiale». Di concerti ne ha fatti tantissimi, anche se ammette: «Mi esibisco solo perché altrimenti la musica che ho scritto non verrebbe riprodotta correttamente in pubblico». Signora Bley, qual è il suo primo ricordo musicale?
«Nella nostra chiesa, mio padre che suonava. Avevo tre anni. Tenevo in mano una tazza di latta per le donazioni, mentre cantavo This Little Light of Mine ». Quanto l’ha influenzata la musica religiosa?
«Mio padre e mia madre, molto religiosi, sono stati i miei primi insegnanti. Mi hanno immersa negli inni cristiani fondamentalisti e nella letteratura pianistica romantica di matrice classica». Da giovane, per amore del jazz, si è trasferita di corsa dalla California a New York.
«Chiunque amasse il jazz, negli anni Cinquanta sognava New York. Ciò che mi attraeva non era quello che sapevo già del jazz ma quello che ancora ignoravo». Non considerava la scena californiana abbastanza importante, per aver deciso di andarsene così presto?
«Ho sottovalutato quella scena. Ero attratta da New York come una falena dal bagliore di una fiamma».
Quando andò, che cosa dissero i suoi genitori?
«Mia madre morì presto. Mio padre disapprovava le mie scelte nella musica e nella vita, non amava il jazz perché lo considerava musica del diavolo ma d’altra parte mi aveva sempre permesso grande libertà...».
I primi concerti che ha visto a New York?
«Andai subito al Café Bohemia, dove suonava Miles Davis in quintetto con John Coltrane, Red Garland, Paul Chambers e Philly Joe Jones. Un miracolo di musica». In un altro locale, il Birdland, lei vendeva sigarette in sala. Che cosa ricorda di quell’ambiente?
«Il Birdland era magico ma era anche un posto orribile. Non mi pagavano e se non riuscivo ad arrivare a un certo incasso ogni notte, mi addebitavano dei conti. Lì però ho potuto ascoltare la musica più stimolante che si possa immaginare, almeno per sei ore ogni sera». Chi le ha aperto le porte del jazz?
«Nel momento in cui avevo più bisogno di incoraggiamento, George Russell mi chiese di poter registrare la mia musica. Fu così che non diventai una sarta...».
In quel periodo di grande fermento sonoro, voi jazzisti eravate interessati a compositori come John Cage, Morton Feldman, Harry Partch?
«Ho sempre amato John Cage, anche perché spesso mi ha fatto ridere. Ho anche una passione per In C di Terry Riley (storica partitura del 1964 legata al minimalismo, ndr), che sembrava esprimere qualcosa di essenziale nel momento preciso del suo inizio. Mi sono goduta anche la musica di Philip Glass...». Le esperienze artistiche del periodo, Robert Rauschenberg, Willem De Kooning, Jackson Pollock...?
«Negli anni Sessanta vivevo in una comunità con artisti di ogni genere. Da loro ho imparato molto».
Per restare in tema: e il Living Theatre?
«Ho adorato loro e anche il Theatre of the Ridiculous. Il merito di Judith Malina e Julian Beck è stato di saper lavorare sull’intersezione fra cultura e politica». E la Beat Generation?
«Quando ero adolescente e vivevo ancora nella casa di mio padre, ho scoperto il City Lights Bookstore e la scena di San Francisco. Mi vestivo con collant neri, andavo in libreria e ascoltavo i poeti con tutta l’attenzione possibile. Nel movimento beat ho visto un’alternativa alla mia vita a Oakland. Non ero né una beatnik né una hippy, poiché appartenevo alla generazione di mezzo; ma ho trascorso molto tempo in entrambi quei mondi». Quando incontrò il suo primo marito, il pianista Paul Bley?
«Era il 1957 al Birdland. Mi piaceva il fatto che la musica sembrava fluire attraverso di lui senza alcuno sforzo».
Quando ha cominciato a scrivere musica?
«A tre o quattro anni ma, per fortuna, nessuna delle mie opere di quegli anni sopravvive. Ma posso ancora cantare pezzi di un’opera che ho scritto quando avevo 8 anni chiamata Over The Hill... ». Che musica ascoltava agli inizi?
«The Supremes. Fantastiche. Oggi ascolto Sonny Rollins e la musica di Charles Wuorinen. Sto scrivendo un pezzo per la Afro Latin Jazz Orchestra di Arturo Chico O’ Farrill, chiamato Palestinian Blue, e come ricerca su questo brano sto ascoltando la voce di Oum Kalthoum». «Escalator Over the Hill», del 1971, è il suo progetto più ambizioso. Che cosa ricorda?
«L’opera nasceva in un momento in cui stavo guadagnando la fiducia necessaria per realizzare grandi lavori con molte parti in movimento. Nacque anche dalla mia amicizia con Paul Haines e dalla mia appartenenza a una vasta cerchia di musicisti».
Ha mai creduto nella libertà totale in musica?
«Sono una compositrice, una compositrice jazz. Il mio compito è fornire agli improvvisatori un contesto. Fin dal mio primo coinvolgimento nella scena jazz, ho sentito che i musicisti hanno bisogno di strutture in cui posizionare le loro invenzioni, che lo sappiano o meno. Sono il gioielliere che mette il diamante su un anello». Com’è stato il suo periodo free jazz?
«La prima volta che vidi Ornette Coleman suonare ho sentito un’ondata di energia pazzesca e ho capito che il jazz non sarebbe più stato lo stesso. Sono arrivata molto più tardi ad apprezzare Cecil Taylor». Esiste una funzione sociale e politica della musica?
«La musica non esiste al di fuori di un contesto sociale. Le persone definiscono e comunicano la loro identità politica in vari modi: attraverso l’abbigliamento, il taglio dei capelli, i libri che leggono, la musica che ascoltano. Un concerto è un evento sociale importante e può anche essere apertamente politico. Quando gli Staple Singers suonarono ai raduni di Martin Luther King diedero al pubblico la sensazione di stare insieme: questa stessa sensazione si verifica in un concerto jazz». Cosa salverebbe del free jazz e cosa butterebbe?
«La mia musica è la mia migliore risposta. Mi sono trasferita nel corso degli anni verso una musica con una struttura chiara, ma spero di essere rimasta vicino al precipizio a cui ci siamo affacciati negli anni Sessanta».
Il brano che dà il titolo al suo nuovo disco «Life Goes On» è un blues. Che cosa rappresenta il blues per lei? È qualcosa di più di una struttura?
«Suonare il blues è un’opera della vita. Riesce a immaginare Charlie Parker che suona senza il blues? Tutti possiamo guardarci dentro e trovare il blues. In noi stessi come negli altri. Il blues è ovunque». Sempre nel nuovo disco c’è una suite in tre parti dal titolo «Beautiful Telephones»...
«È la battuta che fece Donald Trump quando vide lo Studio Ovale della Casa Bianca, mentre stava per assumere la presidenza degli Stati Uniti. Si guardò intorno e fu l’unico commento che fece: che bei telefoni». Le sue collaborazioni (rock) extra-jazzistiche, con Mick Taylor, Jack Bruce, Nick Mason e Robert Wyatt?
«Quando sono affascinata da un tipo di musica, non mi basta ascoltarla, ci devo mettere le mani sopra. Tutto è giusto in amore e musica». Come è nata la Big Band di Carla Bley?
«Mi sono trasferita da una band con sei ottoni a una con dieci, e infine alla classica configurazione big band con tredici. La mia scrittura si è evoluta per contenere sempre più informazioni e quindi ha richiesto un numero maggiore di strumentisti. È qualcosa che mi è successo, non qualcosa che ho fatto». Per «Scrivo quale per strumento i musicisti scrive che mi più interessano, volentieri? a prescindere C’è dallo un rituale strumento prima che di suonano». ogni concerto?
«Non ho rituali coscienti ma sospetto di fare sempre le stesse cose. Siamo tutti creature dell’abitudine». Pianisti che ama?
«Kenny Barron, Thelonious Monk, Garrick Ohlsson e Pierre-Laurent Aimard». Musica classica?
«Dmitrij Shostakovich e Charles Wuorinen». Il concerto più bello al quale ha assistito?
«Uno dei Naked City di John Zorn molti anni fa. È stato anche uno dei più rumorosi che abbia mai ascoltato». Si considera più pianista o compositrice?
«Compositrice. Senza ombra di dubbio».