Corriere della Sera - La Lettura
Mio papà Dino Risi fino all’ultimo respiro
Nel 1989 un grande poeta, Milo De Angelis, scelse per la sua terza raccolta un titolo destinato a rimanere indelebile nella memoria: Distante un
padre. Come dire distante un chilometro, o mille, chissà. La metafora è straordinaria, perché mentre ci fa pensare a qualcosa che riguarda lo spazio, in realtà rivela un aspetto fondamentale del tempo, del quale i padri, volenti o nolenti, sono l’unità di misura più inesorabile. E non basta, perché invecchiando, ai padri si finisce in un modo o nell’altro per assomigliare più di quando si era giovani. Marco Risi ci scherza sopra. «Probabilmente, ora che sono vicino ai settanta sto diventando come lui… però senza la sua vitalità!». Mi mostra un prezioso cimelio, estraendolo da un portaombrelli accanto alla porta di casa, a Roma: il bastone da passeggio di Dino Risi. «Gliel’ho regalato io, faticando moltissimo a convincerlo a usarlo nelle sue passeggiate. Vedi, ha un gommino robusto. Se fosse stato un oggetto più elegante, non l’avrebbe mai usato».
In Forte respiro rapido. La mia vita con Dino Risi (appena pubblicato da Mondadori), buona parte dei ricordi risale agli ultimi anni della vita del padre, quando Marco passava a salutarlo e a informarsi della sua salute al Residence Aldrovandi, «dove pensava di accamparsi qualche settimana, come tutte le persone che entrano in un residence, e finì per passare gli ultimi trent’anni». Naturalmente, il racconto di Marco Risi non si sottrae a quella che in questo particolare legame padre-figlio può legittimamente apparire come la questione centrale. Ovvero: come si cresce all’ombra di un genio assoluto del cinema riuscendo a diventare non solo un regista, ma un regista dotato di un proprio carattere, di uno stile, di una visione del mondo. Il burbero, caustico maestro non largheggiava certo nei complimenti, e non faceva eccezione con i figli (anche Claudio, il fratello maggiore di Marco, è un regista). Forte respiro ra
pido è un ritratto stratificato, in movimento, nel senso che il figlio guarda al padre dal punto di vista del bambino, dell’adolescente, e via via delle altre epoche della vita, fino all’ultimo giorno della vita di Dino, morto a novantuno anni il 7 giugno 2008.
Il bellissimo titolo del libro è un fermo-immagine più unico che raro della fine di un grande uomo. Marco Risi mi mostra un documento molto più impressionante del bastone. È una semplice agenda, di quelle che le banche danno in omaggio, sulla quale Dino Risi (che prima di scegliere il cinema si era laureato in Medicina) segnava scrupolosamente, negli ultimi tempi, le medicine prese, gli acciacchi, gli impegni sempre più diradati. Ebbene, sull’ultima pagina di questa agenda, si leggono queste tre parole, vergate con una calligrafia diventata all’improvviso tremante da perfetta che era sempre stata: FORTE RESPIRO RAPIDO, con la vocale finale ridotta a un piccolo sgorbio, come se proprio in quel punto le forze fossero finite, all’arrivo del buio. «È davvero rimasto lucidissimo e spietato com’era sempre stato, fino alla fine», commenta Marco Risi.
Per un singolare scherzo del destino, solo pochi giorni prima padre e figlio si erano ritrovati nello stesso albergo a Napoli, il primo per girare un film, il secondo invitato a un festival, dove parlò della prima volta che aveva visto il mare, a Genova, più di ottant’anni prima. Con la percezione sottile dei figli, Marco sente che qualcosa non va, ma il padre gli ripete una frase lapidaria, un puro distillato di saggezza: «Pensa al tuo film». Cosa si può dire di meglio a un figlio, prima che il respiro si faccia troppo rapido e poi si fermi per sempre? Pensa a vivere la tua vita, fai quello che devi fare. «Quando me lo ha detto non me lo aspettavo — mi confida Marco Risi — è come se me lo avesse riconosciuto, il fatto di essere un regista: in quel momento mi ha addirittura disorientato». Ma nel libro si troverà almeno un altro consiglio memorabile di Dino Risi, e anche questo contiene il verbo «pensare». Lo diede al suo migliore amico, Vittorio Gassman, che languiva in una delle sue terribili depressioni: «Non ci pensare». Andandolo a trovare al residence, le cui finestre danno sullo zoo di Roma, Gassman si era identificato con una vecchia aquila malata che se ne stava nella sua gabbia senza più nulla da chiedere alla vita. «Non ci pensare» non è una battuta: sottintende tutto un modo di essere, una filosofia. E ovviamente, uno stile di vita che è in rapporto diretto con la creazione di un grande cinema.
Gli uomini come Dino Risi, o Fellini, o Sordi e tutti gli altri fari della commedia all’italiana sono passati alla storia avvolti in una fitta nuvola di aneddoti, capaci di oscurare la persona reale. Ma è pur vero che da un certo modo di intendere la vita, da quella disponibilità e avidità, potevano venire fuori le idee dei grandi film. «Per quello che riguarda Il sorpasso, mio padre citava sempre una storia di gioventù, quando era ancora a Milano e un direttore di produzione, Gigi Martello, era passato a prenderlo in macchina e gli aveva chiesto di accompagnarlo in Svizzera a fare benzina. Di lì, però, invece di tornare indietro, chissà come erano finiti in Lichtenstein, dove erano stati invitati a cena da una principessa… lo stesso tipo di avventure del film».
Non mancano nel libro di Marco Risi pagine dedicate agli anni d’oro, ma è il Dino Risi degli ultimi anni quello destinato a rimanere nella memoria dei lettori di questo libro. Così come il Residence Aldrovandi diventa il perno del racconto. Quell’uomo leggendario non possedeva quasi nulla: pochi vestiti, lo stretto necessario per la cucina. I libri li regalava al portiere dopo averli letti. «In effetti, c’era qualcosa di orientale in lui. Come un maestro giapponese. Anche le persone che frequentava erano poche. In questo non gli assomiglio, vedi tu stesso questa casa, è veramente casa mia, un luogo che amo abitare, dove ci sono molti oggetti che poi sono i ricordi della mia esistenza. E non è stato così solo ai tempi del residence, quello è il caso più evidente, ma anche quando ancora non aveva divorziato con nostra madre… anche le case abitate con la famiglia non erano davvero sue, non ci teneva. La sua vera vita era altrove, fuori: sui set dei suoi film, forse si sentiva più a casa».
Non si diventa «saggi» per vincere una battaglia con il mondo, né si può dire che la saggezza (al contrario di quanto suggeriscano certe odierne divulgazioni filosofiche) sia necessariamente una posizione vantaggiosa. Il novantenne caustico e impeccabile che passeggia per le strade ombrose dei Parioli fiancheggiate dai loro villini liberty (gli stessi luoghi descritti da Elsa Morante in Aracoeli) percepisce la vanità del tutto attraverso l’esperienza individuale dello scemare delle forze. E finché ne ha tempo Marco annota tutto: umori, abitudini, problemi di salute. Questo diario per interposta persona al momento giusto è diventato una miniera di ricordi alla quale attingere per questo ritratto di un padre straordinario, che all’apice della carriera artistica, fra gli anni Sessanta e i Settanta, divenne probabilmente il più acuto, disincantato perfido osservatore della società italiana. Ed ebbe tutto il tempo, come accade a certi grandi, di assistere al tramonto di un’epoca che aveva segnato in maniera così indelebile con la sua opera. Perché a un certo punto, mi ricorda Marco Risi con evidente e condivisibile rammarico, «si decise che certe scorrettezze non erano più possibili, che di certe cose non si poteva più ridere». Dando inizio a un’epoca inutilmente, ipocritamente «virtuosa» nella quale un Dino Risi sarebbe censurato e deprecato un giorno sì e l’altro pure.
Probabilmente, ora che sono vicino ai settant’anni sto diventando come lui... però senza la sua vitalità. È rimasto lucidissimo e spietato fino alla fine, com’era sempre stato