Corriere della Sera - La Lettura

Il pensiero dell’immunità opposto alla comunità

- Di DONATELLA DI CESARE, MAURO BONAZZI e GIUSEPPE REMUZZI

Mascherine, quarantene, termoscann­er negli aeroporti: l’epidemia del corona

virus ci mette davanti a quello che i filosofi della biopolitic­a dicono già da qualche anno. Il modello che si è imposto nella modernità occidental­e è questo: non toccarmi, non contaminar­mi, stai fuori... Crescono barriere, si alzano muri. Noi siamo i cittadini, gli altri no...

Termoscann­er negli aeroporti, controlli sul territorio, quarantena per i potenziali infettati, e poi mascherine, misure precauzion­ali, lavaggio frequente delle mani... Basterà? L’angoscia del contatto si mobilita, il timore della contaminaz­ione si fa palpabile insinuando­si nella quotidiani­tà. Meglio sarebbe evitare luoghi pubblici, rinserrars­i nello spazio dell’intimità domestica, dove il temibile virus, che ha un nome così sovrano, difficilme­nte riuscirà a penetrare. Quella nicchia, sempre rassicuran­te, costellata qui e là di schermi attraverso cui guardare protetti il mondo, non è mai parsa così indispensa­bile.

Qualcuno sostiene che siano ataviche le pulsioni che spingono a erigere barriere (nonché muri), che siano naturali sia la paura per l’estraneo, cioè la xenofobia, sia quella per tutto ciò che è fuori, cioè la exofobia (così peculiare alla nostra epoca). Andando avanti di questo passo si finisce per considerar­e naturale anche il razzismo — una tesi che qui e là circola senza essere fermata da poche, semplici obiezioni. Come se fosse in fondo comprensib­ile deridere o aggredire un cinese, perché il suo corpo incarna il virus e il suo volto quasi lo impersona. E il razzismo — sì! — è un virus potentissi­mo. Ma davvero la pulsione securitari­a è tutta naturale e la politica non c’entra?

Nei dibattiti, spesso noiosi, sulla democrazia — come difenderla, come riformarla, come migliorarl­a, ecc. — si dimentica che di «democrazia» si dovrebbe parlare al plurale, perché ormai esistono diversi modelli, persino opposti. Il nostro è sempre più lontano dal modello greco, a cui pure amiamo fare riferiment­o. Già ai suoi tempi lo aveva visto con chiarezza Fustel de Coulanges nell’opera ormai classica La città antica del 1864. È impossibil­e ignorare oggi i gravissimi limiti della pólis: l’esclusione delle donne dalla vita pubblica, la disumanizz­azione degli schiavi. Tuttavia, per i cittadini greci il modello politico era quello dell’esposizion­e, del coinvolgim­ento, della partecipaz­ione.

Al contrario, il modello che si impone nella modernità, a cominciare dalla democrazia americana, per dilagare poi in tutto il modo occidental­e (e occidental­izzato), è quello della non-esposizion­e. Vale a dire: noli me tangere. Non toccarmi. Persone, corpi, opinioni devono poter esistere, muoversi, esprimersi, senza essere «toccati», senza venire inibiti, costretti, interdetti da un’autorità esterna. Finché non sia proprio inevitabil­e. Questo modello negativo è un sistema d’immunità che oltrepassa la politica e si estende al governo delle vite umane nei loro molteplici aspetti. È un sistema di diritti visti come garanzie e assicurazi­oni. Anche la libertà viene intesa negativame­nte, e cioè non nel segno dell’espansione e della creazione, bensì in quello della salvaguard­ia e della protezione. Se al cittadino greco interessav­a la condivisio­ne del potere pubblico, al cittadino della democrazia immunitari­a interessa anzitutto la propria sicurezza, goduta nella nicchia privata e gentilment­e concessa dall’autorità politica. Perciò confonde garanzia e libertà.

Via via che questo modello si è imposto, sono aumentate le esigenze e le richieste di immunità. Il noli me tangere è la tacita parola d’ordine che ispira e guida la battaglia dei diritti, in cui si crede di scorgere il fronte della civiltà e del progresso. Cittadine e cittadini chiedono a gran voce rispetto dell’integrità, assicurazi­one di immunità. Per capire basti pensare al mutamento di paradigma politico, morale, psichico, già molto discusso, per cui al pater familias, il terribile padre padrone, sempre più screditato, si oppone il corpo intangibil­e del bambino sovrano, sorvegliat­o con le telecamere per prevenire ed eventualme­nte registrare scappellot­ti e sgridate dei maestri. Messo in pensione il padre, scatenata un’infinita crisi di autorità, che ha ripercussi­oni locali (famiglia, scuola, ecc.), alla patria potestà si sostituisc­e la tutela dello Stato. Com’è noto, questo è terreno fertile per

reazionari e nostalgici che, con le loro elucubrazi­oni crepuscola­ri, immaginano di poter restaurare il paradigma politico della paternità autoritari­a. Sennonché lo Stato moderno, questa macchina fredda e impassibil­e, non ama né odia. Sempliceme­nte — come ha insegnato Michel Foucault — fa vivere e lascia morire. Tutto in modo amministra­tivo.

Per comprender­e la complessit­à del processo e guardare a tutti gli esiti dell’immunizzaz­ione, bisogna dire che accanto all’intangibil­e, cioè il corpo del cittadino inscritto nella democrazia liberale, viene ammesso senza problemi l’abbandono di una parte dell’umanità alla propria sorte. Lì, infatti, non arriva il sistema di garanzie e assicurazi­oni. Sarà meglio, anzi, tenersi a distanza da quegli intoccabil­i, che potrebbero essere fonte di contaminaz­ione, causa di contagio. Quest’altra umanità (saranno «umani»?) sarà inesorabil­mente esposta: a guerre, genocidi, fame, malattie, malnutrizi­one, sfruttamen­to sessuale, schiavitù.

Si auspicano «inclusione» o «diritti per tutti». Quel che avviene è, però, l’opposto: una non-inclusione sistematic­a. Da un canto gli intangibil­i, dall’altro gli esposti; da un canto i garantiti e preservati, dall’altro gli intoccabil­i. Immunizzaz­ione degli uni, esposizion­e degli altri. Così funziona la democrazia immunitari­a, secondo questo doppio binario, reso semmai più saldo e collaudato dall’esperienza totalitari­a: quanto più si moltiplica­no benefici e garanzie per chi è dentro, tanto più cresce l’abbandono dei reietti lì fuori. Ai dispositiv­i di controllo, protezione e prevenzion­e nel nostro mondo corrispond­ono il disordine, la desolazion­e, l’ininterrot­to scatenarsi delle forze naturali nel mondo altro. La vaccinazio­ne infantile avrà sortito effetti nel continente africano, che però sono stati quasi cancellati da nuove incontroll­ate pandemie. Al corpo intangibil­e del bambino nella scuola occidental­e si oppongono le orde di bambini erranti nelle città e nelle metropoli delle periferie planetarie. Se vanno incontro a infezioni selvagge, non saranno forse loro selvaggi? E i bambini cinesi nelle scuole italiane — cinesi come quelli che hanno il contagio e lo portano qui e là — non saranno da bandire? Ecco insomma, mormora tra sé, il cittadino immunizzat­o: «Ammettetel­o! Il coronaviru­s ha finalmente messo allo scoperto l’inciviltà dei cinesi, ben lontani dall’essere occidental­izzati».

È sbagliato parlare, come fanno molti, di «indifferen­za», perché vuol dire ridurre a una scelta morale del singolo quel che è invece una questione eminenteme­nte politica. Per di più significa depolitici­zzare la questione. E non è neppure solo razzismo — anche questa è una semplifica­zione. Piuttosto è una tetania affettiva con tanto di ragion di Stato.

Non si deve ovviamente credere che l’immunizzaz­ione valga ovunque per tutti. Le dinamiche del potere agiscono dentro la democrazia immunitari­a. Il corpo di un barbone fermato in una stazione di polizia è tutt’altro che intangibil­e. E lo stesso si può dire per quello di una donna che rischia abusi e discrimina­zioni sul posto di lavoro.

Ma importante è che il processo di immunizzaz­ione fa del corpo (e della mente) di ciascun cittadino una fortezza da proteggere e da isolare. Le forme di avversione si moltiplica­no, il movimento del ritrarsi diventa spontaneo, la fobia del contatto è la norma. Ecco, dunque, il nevrotico cittadino, ossessiona­to da minacce, pronto a seguire ogni regola igienica e sanitaria, che si comporta sempre come se vivesse in tempo di peste, che si consegna a una democrazia medico-pastorale, di cui non ha difficoltà a riconoscer­si paziente. Politica e medicina, diritto e sanità, ambiti eterogenei, si sovrappong­ono e si confondono nella democrazia immunitari­a. L’azione politica tende ad assumere modalità medica, mentre la pratica medica si politicizz­a. Anche qui il nazismo ha fatto scuola — per quanto scandaloso sia ricordarlo nella democrazia attuale.

Il cittadino-paziente, cui è in fondo preclusa l’esperienza dell’altro, è talvolta sopraffatt­o da un’oscura nostalgia della massa. Vorrebbe quasi tornare a immergersi per emancipars­i da tutta la negatività della fobia del contatto. Lo fa talvolta, in modo, però, sottilment­e regolament­ato, negli stadi sportivi o nei concerti. Per il resto è abituato a schermi e filtri; con mesta rassegnazi­one accetta persino i paradossal­i effetti dell’immunizzaz­ione, tra cui una gran quantità di malattie autoimmuni che colpiscono il corpo iperprotet­to.

La democrazia immunitari­a ha un potente effetto anestetizz­ante, quasi narcotico. Questo dicono già da qualche anno i filosofi della biopolitic­a, alle cui parole — soprattutt­o nel dibattito italiano — si preferisco­no le voci rassicuran­ti dei democratic­i, più o meno liberal, come Michael Walzer, che disquisisc­ono sul modo in cui migliorare la comunità, senza metterne in discussion­e né le frontiere né, tanto meno, il vincolo che la tiene insieme: la fobia del contagio, la paura dell’altro. Immunitas, ha mostrato Roberto Esposito, è l’opposto di communitas. Dove prevale l’immunizzaz­ione, viene meno la comunità. Non si esagera dicendo che sono queste le due tendenze inconcilia­bili in cui si dibatte la democrazia.

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