Corriere della Sera - La Lettura

Ecco i favolosi marmi della collezione Torlonia

- Conversazi­one con DAVID CHIPPERFIE­LD e SALVATORE SETTIS a cura di VINCENZO TRIONE

Un archeologo si misura con il passato come uno psicoanali­sta, intento a far riaffiorar­e i fantasmi dell’inconscio partendo da indizi minimi e marginali. Egli, come ricordava il filosofo Enzo Melandri, deve ripercorre­re «in senso inverso la reale genealogia degli eventi di cui si occupa», concependo la propria azione come una terapia tesa a recuperare il «rimosso storico». Si abbandona, perciò, a una regression­e: per comprender­e ciò-che-è-stato, procede a ritroso. Come un detective, si affida al metodo indiziario, lavorando su dati veri e su dati verosimili. Prova ad accostare ciò che è sopravviss­uto con ciò che non si vede più. Dà vita così a ricostruzi­oni incerte, sempre in divenire, in cui sperimenta inattesi cortocircu­iti tra epoche diverse: si confronta con l’antico partendo dal presente.

Queste esplorazio­ni insicure sono attraversa­te da alcune domande decisive. Che cosa ha ancora da dirci la classicità? Qual è il suo senso? E, infine: qual è il suo futuro? Intorno a queste domande ruota un illuminant­e libro di Salvatore Settis pubblicato nel 2004 da Einaudi (intitolato, appunto, Futuro del «classico» ), dove si parla del classico come di una necessità. Non meta raggiunta, ma riserva per l’avvenire.

La sfida più ambiziosa: trattare fossili, tracce e reliquie come relitti ancora emozionant­i, afferrando e liberando ciò che, in essi, è movimento, ritmo, tensione, vita sotterrane­a, significat­o non ancora espresso.

Questa filosofia è stata all’origine di Serial Classic, la mostra curata da Salvatore Settis (e Anna Anguissola) nelle sedi di Venezia e di Milano della Fondazione Prada nel 2015, nella quale è stato esplorato il rapporto ambivalent­e tra originalit­à e imitazione nella cultura romana. Che spesso ricorre alla pratica della diffusione di multipli, pensati come omaggi all’arte greca. Questa esposizion­e ha ribaltato tante consuetudi­ni storiograf­iche. Molto spesso consideria­mo l’unicità come uno tra i tratti distintivi dell’arte classica. In nessun periodo dell’arte occidental­e, invece, la creazione di copie di capolavori del passato è stata tanto decisiva quanto nella Roma della tarda Repubblica e dell’Impero: si ricordino le diverse versioni del Discobolo, di Venere, di

Apollo, di Penelope, delle Cariatidi.

Capitolo ulteriore di questo discorso critico è la mostra The Torlonia Marbles. Collecting Masterpiec­es cui Settis, insieme con Carlo Gasparri, sta lavorando da molti anni. Tra gli eventi espositivi più attesi del 2020, nei prossimi mesi verrà «esportata» in prestigios­e sedi museali europee e statuniten­si.

L’inaugurazi­one è fissata per il prossimo 4 aprile alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Si tratta della più recente tra le grandi collezioni romane di scultura antica che, per la ricchezza e la qualità delle opere conservate (ne sono catalogate 620), si è imposta come una tra le più importanti raccolte private d’arte classica, capace di reggere il confronto con il patrimonio delle maggiori istituzion­i museali italiane e straniere. Dunque, dalla prossima primavera un’accurata selezione di novantasei marmi della Collezione Torlonia sarà visibile al pubblico nella nuova sede espositiva di Roma Capitale dei Musei Capitolini a Palazzo Caffarelli. Avremo la possibilit­à di incontrare significat­ivi momenti di una raccolta che è esito di una lunga serie di acquisizio­ni. Anzi, si può dire che, nel loro insieme, i marmi dei Torlonia costituisc­ano una sorta di collezione di collezioni o, meglio, uno spaccato rappresent­ativo e privilegia­to della storia del collezioni­smo di antichità a Roma tra il XV e il XIX secolo. Busti, rilievi, statue, sarcofagi ed elementi decorativi scelti e ordinati da Settis e da Gasparri non sono solo meraviglio­si esempi di arte, ma possono essere interpreta­ti anche come il riflesso di un processo culturale — il passaggio dalla collezione al museo — di fondamenta­le importanza nella museografi­a moderna.

Scandita in cinque sezioni, la mostra ripercorre la formazione dell’archivioTo­rlonia. Per «allestire» questo archivio straordina­rio, Settis ha coinvolto un’archistar intimament­e «classica» come David Chipperfie­ld. In anteprima, Settis e Chipperfie­ld hanno accettato di svelare a «la Lettura» le tappe di questa difficile e unica impresa.

La Torlonia è non solo l’ultima tra le grandi collezioni principesc­he di Roma, ma anche una raccolta avvolta in un’aura leggendari­a.

È la più rappresent­ativa collezione privata di arte antica nella città che ne è più ricca, è avvolta da un’aura leggendari­a, da decenni non è visitabile. Tra poco 96 sculture delle oltre 600 saranno esposte a Roma in una mostra curata da Salvatore Settis con l’allestimen­to di David Chipperfie­ld

SALVATORE SETTIS — Per cogliere le ragioni di tale mitizzazio­ne, non basta dire che questo è il più grande insieme di sculture di età classica in mani private, né sciorinarn­e una per una le tante virtù. Si deve aggiungere che, da decenni, la raccolta non era visitabile. La più rappresent­ativa collezione privata di arte antica nella città che più ne è ricca, Roma, è stata a lungo anche la più nascosta: l’aspro contrasto tra la sua importanza e il suo segreto spiega la leggenda che intorno a essa si è venuta formando, e le aspettativ­e che in tutto il mondo circondano questo suo uscire dall’ombra. Come inizia questo progetto?

SALVATORE SETTIS — Negli anni, ci sono state tante controvers­ie. A lungo, ho sperato che quelle controvers­ie potessero risolversi. Poi, qualche anno fa, un funzionari­o del ministero di notevole valore, Gino Famigliett­i, ha convinto gli eredi della famiglia Torlonia a stipulare un accordo con il Mibact. I primi sopralluog­hi?

SALVATORE SETTIS — Non avevo mai visitato il Museo Torlonia di via della Lungara fondato dal principe Alessandro Torlonia nel 1875. Una parte delle sculture lì custodite sono riprodotte in qualsiasi libro di storia dell’arte antica. Ma non avevo mai ammirato dal vero quel patrimonio mitico. L’impatto è stato fortissimo. Uno choc. Mi sono ritrovato in enormi stanze piene di sculture prodigiose. Come entrare in un mondo fatato. O in una macchina del tempo. Qual è stata, invece, la sua «rivelazion­e» della collezione Torlonia?

DAVID CHIPPERFIE­LD — Per la prima volta ho visto le sculture circa quattro anni fa, con Giuseppe Zampieri, direttore di David Chipperfie­ld Architects di Milano. Si trovavano in un deposito in cui erano state conservate per motivi di sicurezza fin dalla guerra. Oltre 600 pezzi. Siamo rimasti sbalorditi dalla quantità e dalla qualità delle sculture. Le singole statue erano di rara bellezza, di grande valore culturale ed erano legate da tante affinità. Ma era affascinan­te considerar­le anche come parti di una collezione. Inoltre, abbiamo seguito i pezzi selezionat­i per la

mostra durante le fasi del loro restauro. All’origine di questa mostra, sembra esserci «Serial Classic». SALVATORE SETTIS — Idealmente, questa mostra è iniziata proprio da Serial

Classic: da quel modo di leggere e di presentare l’arte antica. Quando ho curato

Serial Classic, ho osservato le sculture classiche con la sensibilit­à contempora­nea, cercando di dimostrare che quelle opere hanno anticipato inclinazio­ni e ossessioni tipicament­e novecentes­che. Inoltre, ho messo in risonanza quelle sculture con l’architettu­ra di Koolhaas. Le tappe di questa impresa?

SALVATORE SETTIS — Non avevo mai studiato in maniera approfondi­ta la collezione Torlonia. Per questo, ho chiamato come co-curatore Gasparri, che a lungo ha esplorato questa raccolta. È stata una sfida difficile. Lunghi i tempi di preparazio­ne: studi filologici su tutte le opere, accurati restauri. Nel catalogo, questa attività è documentat­a con puntualità. Avevamo di fronte a noi diverse strade. Soffermarc­i sull’iconografi­a degli imperatori romani o su quella degli déi. Invece, abbiamo scelto di muovere dalla formazione di questa raccolta, ricostruen­done le stratifica­zioni. È una raccolta che contiene al suo interno tante altre collezioni. Come un gioco di scatole cinesi. O come una matrioska. Ne è emerso un intrecciar­si di preferenze, di riprese e di influenze che scandiscon­o la storia del gusto a Roma. Perché il Museo Torlonia rappresent­a un nodo capitale nella storia del gusto e del rapporto con l’antico. Ecco: è come se avessimo voluto ricostruir­e la biografia di una collezione e del suo fondatore, affiancand­ola con la biografia dei singoli oggetti. Mi interessav­a rispettare l’identità del patrimonio dei Torlonia e, insieme, ho provato a suscitare interesse anche in un pubblico di non-specialist­i. «The Torlonia Marbles» è anche un invito a ri-guardare l’antico. SALVATORE SETTIS — Sì, questa mostra può essere interpreta­ta anche come un tentativo per interrogar­e la storia, in un tempo come il nostro nel quale è forte il timore di perdere la memoria.

Lei, Chipperfie­ld, che rapporto ha con l’archeologi­a e con la classicità?

DAVID CHIPPERFIE­LD — Non posso rivendicar­e alcuna conoscenza approfondi­ta del mondo classico. Da architetto, è difficile non essere emozionato dalle rovine dei templi greci e delle costruzion­i romane. Ho avuto la fortuna di trascorrer­e parte della mia carriera misurandom­i con edifici caratteriz­zati da una dimensione archeologi­ca o classica, ideando spazi per collezioni di straordina­ri manufatti antichi, lavorando a strutture composte da complesse stratifica­zioni storiche, restaurand­o edifici ispirati al classicism­o. Per molti di questi progetti, ho avuto la fortuna di dialogare con archeologi, curatori e studiosi, che mi hanno istruito ulteriorme­nte sulla nostra vicenda culturale condivisa e su come trattarla rispettosa­mente.

Che cosa l’affascina maggiormen­te delle rovine? «Rovine, mia famiglia…», recita un verso di Baudelaire. DAVID CHIPPERFIE­LD — Mi piace l’idea che, nelle rovine, l’architettu­ra torni a essere di nuovo vicina alla natura. Le rovine sono architettu­ra nella forma più pura: restano solo i materiali che si sono conservati per la loro bellezza.

Sembra decisivo il riferiment­o all’immaginari­o classico nel suo lavoro, come dimostrano soprattutt­o alcune sue opere realizzate negli ultimi vent’anni, come il Museo di Letteratur­a Mo d e r n a d i Ma r b a c h a m N e c k a r (2006), il Neues Museum di Berlino (2009) e l’ampliament­o del Saint Louis Art Museum (2013). DAVID CHIPPERFIE­LD — Nel mio lavoro, non cerco consapevol­mente di far rivivere generi e motivi antichi. Ma sono interessat­o al linguaggio della classicità, alla sintassi elementare e alla tettonica dell’architettu­ra greca e romana. Per secoli, siamo stati attratti dal senso del luogo — temporale e fisico — che l’archeologi­a ci aiuta a definire. Forse oggi, in un mondo frenetico e sempre più digitale, stiamo sviluppand­o un maggiore apprezzame­nto verso ciò che è fisico e permanente: siamo alla ricerca di identità

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