Corriere della Sera - La Lettura
Ecco i favolosi marmi della collezione Torlonia
Un archeologo si misura con il passato come uno psicoanalista, intento a far riaffiorare i fantasmi dell’inconscio partendo da indizi minimi e marginali. Egli, come ricordava il filosofo Enzo Melandri, deve ripercorrere «in senso inverso la reale genealogia degli eventi di cui si occupa», concependo la propria azione come una terapia tesa a recuperare il «rimosso storico». Si abbandona, perciò, a una regressione: per comprendere ciò-che-è-stato, procede a ritroso. Come un detective, si affida al metodo indiziario, lavorando su dati veri e su dati verosimili. Prova ad accostare ciò che è sopravvissuto con ciò che non si vede più. Dà vita così a ricostruzioni incerte, sempre in divenire, in cui sperimenta inattesi cortocircuiti tra epoche diverse: si confronta con l’antico partendo dal presente.
Queste esplorazioni insicure sono attraversate da alcune domande decisive. Che cosa ha ancora da dirci la classicità? Qual è il suo senso? E, infine: qual è il suo futuro? Intorno a queste domande ruota un illuminante libro di Salvatore Settis pubblicato nel 2004 da Einaudi (intitolato, appunto, Futuro del «classico» ), dove si parla del classico come di una necessità. Non meta raggiunta, ma riserva per l’avvenire.
La sfida più ambiziosa: trattare fossili, tracce e reliquie come relitti ancora emozionanti, afferrando e liberando ciò che, in essi, è movimento, ritmo, tensione, vita sotterranea, significato non ancora espresso.
Questa filosofia è stata all’origine di Serial Classic, la mostra curata da Salvatore Settis (e Anna Anguissola) nelle sedi di Venezia e di Milano della Fondazione Prada nel 2015, nella quale è stato esplorato il rapporto ambivalente tra originalità e imitazione nella cultura romana. Che spesso ricorre alla pratica della diffusione di multipli, pensati come omaggi all’arte greca. Questa esposizione ha ribaltato tante consuetudini storiografiche. Molto spesso consideriamo l’unicità come uno tra i tratti distintivi dell’arte classica. In nessun periodo dell’arte occidentale, invece, la creazione di copie di capolavori del passato è stata tanto decisiva quanto nella Roma della tarda Repubblica e dell’Impero: si ricordino le diverse versioni del Discobolo, di Venere, di
Apollo, di Penelope, delle Cariatidi.
Capitolo ulteriore di questo discorso critico è la mostra The Torlonia Marbles. Collecting Masterpieces cui Settis, insieme con Carlo Gasparri, sta lavorando da molti anni. Tra gli eventi espositivi più attesi del 2020, nei prossimi mesi verrà «esportata» in prestigiose sedi museali europee e statunitensi.
L’inaugurazione è fissata per il prossimo 4 aprile alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Si tratta della più recente tra le grandi collezioni romane di scultura antica che, per la ricchezza e la qualità delle opere conservate (ne sono catalogate 620), si è imposta come una tra le più importanti raccolte private d’arte classica, capace di reggere il confronto con il patrimonio delle maggiori istituzioni museali italiane e straniere. Dunque, dalla prossima primavera un’accurata selezione di novantasei marmi della Collezione Torlonia sarà visibile al pubblico nella nuova sede espositiva di Roma Capitale dei Musei Capitolini a Palazzo Caffarelli. Avremo la possibilità di incontrare significativi momenti di una raccolta che è esito di una lunga serie di acquisizioni. Anzi, si può dire che, nel loro insieme, i marmi dei Torlonia costituiscano una sorta di collezione di collezioni o, meglio, uno spaccato rappresentativo e privilegiato della storia del collezionismo di antichità a Roma tra il XV e il XIX secolo. Busti, rilievi, statue, sarcofagi ed elementi decorativi scelti e ordinati da Settis e da Gasparri non sono solo meravigliosi esempi di arte, ma possono essere interpretati anche come il riflesso di un processo culturale — il passaggio dalla collezione al museo — di fondamentale importanza nella museografia moderna.
Scandita in cinque sezioni, la mostra ripercorre la formazione dell’archivioTorlonia. Per «allestire» questo archivio straordinario, Settis ha coinvolto un’archistar intimamente «classica» come David Chipperfield. In anteprima, Settis e Chipperfield hanno accettato di svelare a «la Lettura» le tappe di questa difficile e unica impresa.
La Torlonia è non solo l’ultima tra le grandi collezioni principesche di Roma, ma anche una raccolta avvolta in un’aura leggendaria.
È la più rappresentativa collezione privata di arte antica nella città che ne è più ricca, è avvolta da un’aura leggendaria, da decenni non è visitabile. Tra poco 96 sculture delle oltre 600 saranno esposte a Roma in una mostra curata da Salvatore Settis con l’allestimento di David Chipperfield
SALVATORE SETTIS — Per cogliere le ragioni di tale mitizzazione, non basta dire che questo è il più grande insieme di sculture di età classica in mani private, né sciorinarne una per una le tante virtù. Si deve aggiungere che, da decenni, la raccolta non era visitabile. La più rappresentativa collezione privata di arte antica nella città che più ne è ricca, Roma, è stata a lungo anche la più nascosta: l’aspro contrasto tra la sua importanza e il suo segreto spiega la leggenda che intorno a essa si è venuta formando, e le aspettative che in tutto il mondo circondano questo suo uscire dall’ombra. Come inizia questo progetto?
SALVATORE SETTIS — Negli anni, ci sono state tante controversie. A lungo, ho sperato che quelle controversie potessero risolversi. Poi, qualche anno fa, un funzionario del ministero di notevole valore, Gino Famiglietti, ha convinto gli eredi della famiglia Torlonia a stipulare un accordo con il Mibact. I primi sopralluoghi?
SALVATORE SETTIS — Non avevo mai visitato il Museo Torlonia di via della Lungara fondato dal principe Alessandro Torlonia nel 1875. Una parte delle sculture lì custodite sono riprodotte in qualsiasi libro di storia dell’arte antica. Ma non avevo mai ammirato dal vero quel patrimonio mitico. L’impatto è stato fortissimo. Uno choc. Mi sono ritrovato in enormi stanze piene di sculture prodigiose. Come entrare in un mondo fatato. O in una macchina del tempo. Qual è stata, invece, la sua «rivelazione» della collezione Torlonia?
DAVID CHIPPERFIELD — Per la prima volta ho visto le sculture circa quattro anni fa, con Giuseppe Zampieri, direttore di David Chipperfield Architects di Milano. Si trovavano in un deposito in cui erano state conservate per motivi di sicurezza fin dalla guerra. Oltre 600 pezzi. Siamo rimasti sbalorditi dalla quantità e dalla qualità delle sculture. Le singole statue erano di rara bellezza, di grande valore culturale ed erano legate da tante affinità. Ma era affascinante considerarle anche come parti di una collezione. Inoltre, abbiamo seguito i pezzi selezionati per la
mostra durante le fasi del loro restauro. All’origine di questa mostra, sembra esserci «Serial Classic». SALVATORE SETTIS — Idealmente, questa mostra è iniziata proprio da Serial
Classic: da quel modo di leggere e di presentare l’arte antica. Quando ho curato
Serial Classic, ho osservato le sculture classiche con la sensibilità contemporanea, cercando di dimostrare che quelle opere hanno anticipato inclinazioni e ossessioni tipicamente novecentesche. Inoltre, ho messo in risonanza quelle sculture con l’architettura di Koolhaas. Le tappe di questa impresa?
SALVATORE SETTIS — Non avevo mai studiato in maniera approfondita la collezione Torlonia. Per questo, ho chiamato come co-curatore Gasparri, che a lungo ha esplorato questa raccolta. È stata una sfida difficile. Lunghi i tempi di preparazione: studi filologici su tutte le opere, accurati restauri. Nel catalogo, questa attività è documentata con puntualità. Avevamo di fronte a noi diverse strade. Soffermarci sull’iconografia degli imperatori romani o su quella degli déi. Invece, abbiamo scelto di muovere dalla formazione di questa raccolta, ricostruendone le stratificazioni. È una raccolta che contiene al suo interno tante altre collezioni. Come un gioco di scatole cinesi. O come una matrioska. Ne è emerso un intrecciarsi di preferenze, di riprese e di influenze che scandiscono la storia del gusto a Roma. Perché il Museo Torlonia rappresenta un nodo capitale nella storia del gusto e del rapporto con l’antico. Ecco: è come se avessimo voluto ricostruire la biografia di una collezione e del suo fondatore, affiancandola con la biografia dei singoli oggetti. Mi interessava rispettare l’identità del patrimonio dei Torlonia e, insieme, ho provato a suscitare interesse anche in un pubblico di non-specialisti. «The Torlonia Marbles» è anche un invito a ri-guardare l’antico. SALVATORE SETTIS — Sì, questa mostra può essere interpretata anche come un tentativo per interrogare la storia, in un tempo come il nostro nel quale è forte il timore di perdere la memoria.
Lei, Chipperfield, che rapporto ha con l’archeologia e con la classicità?
DAVID CHIPPERFIELD — Non posso rivendicare alcuna conoscenza approfondita del mondo classico. Da architetto, è difficile non essere emozionato dalle rovine dei templi greci e delle costruzioni romane. Ho avuto la fortuna di trascorrere parte della mia carriera misurandomi con edifici caratterizzati da una dimensione archeologica o classica, ideando spazi per collezioni di straordinari manufatti antichi, lavorando a strutture composte da complesse stratificazioni storiche, restaurando edifici ispirati al classicismo. Per molti di questi progetti, ho avuto la fortuna di dialogare con archeologi, curatori e studiosi, che mi hanno istruito ulteriormente sulla nostra vicenda culturale condivisa e su come trattarla rispettosamente.
Che cosa l’affascina maggiormente delle rovine? «Rovine, mia famiglia…», recita un verso di Baudelaire. DAVID CHIPPERFIELD — Mi piace l’idea che, nelle rovine, l’architettura torni a essere di nuovo vicina alla natura. Le rovine sono architettura nella forma più pura: restano solo i materiali che si sono conservati per la loro bellezza.
Sembra decisivo il riferimento all’immaginario classico nel suo lavoro, come dimostrano soprattutto alcune sue opere realizzate negli ultimi vent’anni, come il Museo di Letteratura Mo d e r n a d i Ma r b a c h a m N e c k a r (2006), il Neues Museum di Berlino (2009) e l’ampliamento del Saint Louis Art Museum (2013). DAVID CHIPPERFIELD — Nel mio lavoro, non cerco consapevolmente di far rivivere generi e motivi antichi. Ma sono interessato al linguaggio della classicità, alla sintassi elementare e alla tettonica dell’architettura greca e romana. Per secoli, siamo stati attratti dal senso del luogo — temporale e fisico — che l’archeologia ci aiuta a definire. Forse oggi, in un mondo frenetico e sempre più digitale, stiamo sviluppando un maggiore apprezzamento verso ciò che è fisico e permanente: siamo alla ricerca di identità