Corriere della Sera - La Lettura
Scherzare con i fanti, qualche volta con i santi
Le religioni dove convivono il serio e il comico sono quelle più inclusive
Si ride in ogni società. Lo scherzo, l’umorismo, la comicità svolgono un ruolo «anti-gerarchico», scrisse Fabio Ceccarelli nell’ormai classico Sorriso e riso. Saggio di antropologia biosociale (Einaudi, 1988). Riti d’«inversione» come il Carnevale ce lo ricordano ogni anno, coi potenti ridotti a buffoni. L’irriverente sociologo austriaco Peter Berger ( Homo ridens, il Mulino, 1999) si spinse oltre: ridere è atto di «trascendenza», non solo perché in alcune religioni il cammino d’avvicinamento alla divinità prevede il sorriso ma perché l’umorismo ci proietta in una dimensione metaculturale. Ridere cioè, un po’ come viaggiare, come il teatro o la finzione letteraria, ci pone «fuori da noi». Come se potessimo vederci allo specchio, osservare i nostri difetti e la quotidianità da un altro punto di vista.
Sostenere che si ride e si scherza in ogni società, non significa però che il ridere sia presente ovunque e comunque. Nelle religioni monoteistiche, per esempio, si ride poco o per nulla. Dio, i santi, le messe, le chiese, le sinagoghe e le moschee non sono personaggi e luoghi di cui ridere o, peggio, da irridere. Ce lo ricordò, tragicamente, la strage di «Charlie Hebdo», il giornale satirico francese la cui redazione fu massacrata nel 2015 da attentatori che inneggiavano ad Allah, dopo che il giornale aveva pubblicato vignette su Maometto.
Stragi e reazioni estreme a parte, tutte le religioni sono così serie e soprattutto avverse allo scherzo, al ridere, al dileggio? La religione è un ambito contrario a comicità e umorismo? È la domanda di fondo di un volume appena pubblicato, Ridere degli dèi, ridere con gli dèi, firmato da Maurizio Bettini, Massimo Raveri e Francesco Remotti. Addentrandosi rispettivamente nell’antichità classica (Bettini), nelle tradizioni giapponesi e in particolare nella ritualità shintoista (Raveri) e in quelle religioni spesso «senza nome» che caratterizzano molte società africane e amerindiane (Remotti), i tre studiosi propongono addirittura di parlare di joking religion. Negli ambiti citati si trovano esempi di tre tipi di riso: ridono gli dèi di altri dèi (nell’Iliade è Efesto a essere preso di mira per la sua andatura sciancata); si ride con gli déi ( Ta no kami nello shintoismo è il dio della risata, la cui statua panciuta e fallica troneggia nel tempio durante i banchetti comunitari); infine, più raramente, si ride degli déi, come i popoli amerindiani descritti da Pierre Clastres, che producevano una mitologia umoristica in cui sciamani e giaguari (potenti e minacciosi) venivano derisi per la loro goffaggine. È questa terza categoria a essere particolarmente significativa per gli autori. Ridere degli déi, ovvero far convivere umorismo e serietà, comico e tragico, è la chiave delle joking religion. Si crede, ci si affida agli déi, ma nel tempo stesso si mantiene una distanza critica. Ridere degli dèi, dei propri e di quelli degli altri, significa praticare un’opportuna convivenza. Non a caso, le jo
king religion sono quelle in cui c’è spazio per le proprie e per le altrui divinità. Al contrario, le religioni che impediscono (almeno teologicamente) il ridere, sarebbero quelle del «non avrai altro dio fuori di me».