Corriere della Sera - La Lettura
Il suolo racconta storie «Salviamo il terreno »
Tilman Latz è un architetto dei paesaggi, direttore della progettazione di uno studio che si occupa (anche) di recupero ambientale delle aree di archeologia industriale. Parteciperà alle Giornate internazionali sul paesaggio della Fondazione Benetton
Il suolo ci parla. Non solo base su cui immaginare, costruire, vivere ma parte integrante di noi: «La storia di un luogo è legata a filo doppio al suo terreno e a ciò che con esso si può fare. E non solo per le proprietà fisiche e chimiche: il suolo racconta storie che possono diventare metafore potenti, capaci di orientare il lavoro di chi fa progettazione architettonica». Tilman Latz è un architetto tedesco dei paesaggi, il 20 e 21 febbraio sarà a Treviso per le Giornate internazionali di studio sul paesaggio della Fondazione Benetton Studi Ricerche quest’anno dedicate al suolo come paesaggio. Il suo studio, Latz + Partner, ha un peso importante nell’evoluzione dell’architettura del paesaggio a partire da suo padre Peter, un pioniere della riqualificazione industriale autore del progetto di riconversione del Landscape Park di Duisburg Nord, nella tedesca Ruhr. Nel 1989 l’idea di trasformare una ex acciaieria Thyssen in un parco pubblico, reinventando la memoria del nostro passato industriale, si dimostrò vincente.
Che cosa ha significato quel progetto?
«Tutto era cominciato già tempo prima, quando lavoravamo al progetto dell’Hafeninsel Saarbrücken, un ex porto fluviale nella Saar, ma con Duisburg Nord la nostra concezione ha trovato il compimento. Il problema principale da cui partire era rendere neutra la percezione delle archeologie industriali, e poi, via via, farne una base di partenza positiva su cui lavorare. Il primo passo è stato classificare un sito industriale, le sue architetture, le topografie come elementi del paesaggio, come “paesaggio” essi stessi. Questo ci ha aperto un mondo affascinante di opportunità di trasformazione, design, simbolismi estetici. Ci siamo chiesti: un altoforno può diventare un simbolo della natura? Sì, può diventarlo».
Il vostro progetto fu scelto anche perché, diversamente da altri, non intendeva cancellare il passato.
«Anche se spesso sono la base per la ricchezza di una regione, storicamente le aree industriali sono percepite dalle persone con connotazioni prevalentemente negative, e in molti casi è così ancora adesso. Il punto è se consideriamo la storia del lavoro e della produzione industriale allo stesso livello di quella di una dinastia reale, di un castello, di un sacrario di guerra. Quindi, a ogni nuovo progetto, si deve stabilire nuovamente se preservare, trasformare o rimuovere quello che resta. La quantità e il tipo di composti inquinanti possono porre limiti alla nostra volontà di intervento ma di solito questi fattori limitanti interessano solo parti di un sito industriale e possono essere gestiti con un trattamento intelligente dei suoli senza mettere a rischio le persone».
Oggi il parco di Duisburg Nord ospita quasi 700 specie di piante: la natura cura il suolo contaminato?
«Sì e no. Da un lato, le piante hanno il potere di risanare il terreno da alcune sostanze. Dall’altro, alcune sostanze, anche molto inquinanti, sono alla base della sopravvivenza di certe specie perché le fanno vivere o perché inibiscono la crescita di specie concorrenti. Di conseguenza gli architetti del paesaggio, e con loro i committenti, gli ambientalisti e i cultori delle specie a rischio, devono prendere decisioni difficili su cosa vale di più: decontaminare un luogo per renderlo fruibile al massimo per le persone o preservare la sopravvivenza di specie specifiche in via di estinzione».
Esistono suoli creati dall’azione umana che, nei secoli, sono in qualche modo diventati «naturali».
«Ciò che percepiamo come “naturale” o “artificiale” dipende in gran parte dal momento storico in cui viviamo. Ciò che a noi oggi sembra naturale spesso è già stato trasformato molte volte. In certi casi non sappiamo più cosa sia realmente “naturale” e forse non saremmo più neanche in grado di viverci. È una questione che tocca la durata delle cose e la nostra capacità di percezione influenzata dai fattori culturali».
Modificare il suolo, magari creando parchi nel deserto, come lo giudica?
«Già nell’antichità le oasi erano un modo intelligente di rendere artificialmente abitabile un ambiente apparentemente ostile. Ma è tutta una questione di equilibrio. Credo che sia sempre importante valutare un tipo di approccio tenendo conto delle risorse naturali esistenti. E se ciò significa piantare milioni di alberi per impedire la desertificazione di vaste regioni (ad esempio le Landes francesi all’inizio dell’Ottocento e, oggi, le piantagioni del Sahel in Africa), allora ben vengano la maggior parte di queste strategie. Se invece si vuole mantenere un parco con prati all’inglese in un Paese petrolifero benché questo provochi uno spreco di acqua potabile spesso prodotto con dispiego di energia prodotta da impianti petroliferi e con conseguente salinizzazione dei suoli, lo definirei piuttosto discutibile».
Quanto è importante pensare alla difesa del suolo come parte integrante del nostro habitat?
«Moltissimo. Siamo alla vigilia di un radicale cambiamento di modi di produzione, stili di vita e mobilità nelle nostre società. Alla fine questo si tradurrà in una visione del tutto diversa del paesaggio, in tutto il mondo».