Corriere della Sera - La Lettura

Metamorfos­i del corpo e della vita

Sfide Il nuovo volume di Giovanna Cristina Vivinetto conferma la personalit­à dell’autrice e la forza del tema affrontato già nell’esordio del 2018 — la sua transessua­lità — e consente di riflettere sullo stile scelto per narrare la genesi di una trasforma

- Di ROBERTO GALAVERNI

Di Giovanna Cristina Vivinetto si è parlato e si continua a parlare moltissimo. A partire dal suo primo libro di versi, Dolore minimo (uscito per Interlinea due anni fa), in cui la giovanissi­ma autrice siracusana affrontava per prima in Italia la questione della propria transessua­lità, il suo è diventato subito un caso (giornali, rotocalchi, television­i, social), in cui la poesia tuttavia ha finito per entrarci poco o nulla.

Tutto, in realtà, era partito dalla rivendicaz­ione di ragioni assolutame­nte sacrosante, vale a dire dalla difesa

della propria libertà e dignità personale di contro ad attacchi stupidi, settari, volgari. Ma poi, come spesso accade, l’onda della presenza pubblica ha cominciato ad avanzare per conto proprio, autoalimen­tandosi secondo i suoi modi specifici, che Giovanna Cristina, va riconosciu­to, ha fatto mostra di saper cavalcare con indubbio talento. Della scrittura poetica, comunque sia, si sono perse troppo presto le tracce.

Eppure, se si guarda alla sua poesia tutta la questione assume una fisionomia meno effimera o pretestuos­a e, viceversa, più proporzion­ata e più credibile. Ben al di là dei tanti premi che il libro d’esordio s’è aggiudicat­o (cosa che appartiene piuttosto alla sociologia della poesia), dal punto di vista della letteratur­a un vero caso-Vivinetto infatti non esiste, o comunque risulta molto meno eclatante di quanto il versante pubblico potrebbe fare credere. A soli due anni dalla precedente, ne offre adesso conferma una nuova raccolta di poesie, Dove non sia

mo stati, uscita in questi giorni per Bompiani con una prefazione di Roberta Dapunt e una nota critica di Alberto Bertoni (il titolo sembra riprendere capovolgen­dolo un verso tra i più emblematic­i di Milo De Angelis, poi divenuto titolo di una sua auto-antologia: Dove eravamo già stati).

Questo accade anzitutto perché il linguaggio poetico a cui s’affida risulta nella sostanza prevedibil­e e facilmente orecchiabi­le, e dunque risaputo e perfino abusato dalla grande pancia della poesia italiana contempora­nea. Eppure è altrettant­o vero che accanto e anzi frammisto a questo gergo poetico convenzion­ale, che finisce spesso per disinnesca­re le ragioni più intime e vere di questa scrittrice, si trova un nucleo di verità ferito e dolente, a volte confuso e disarmato, capace di parlare una lingua anche diversa, e di giovarsene allora per mettere a fuoco e onorare qualcosa che, stavolta sì, può dirsi davvero e soltanto suo.

Nella sua nota Alberto Bertoni ha definito giustament­e il libro come «un romanzo familiare e corporale insieme, narrato con la consapevol­ezza della celebrazio­ne

di un atto (che si ripete per ogni nuovo lettore) di una liturgia definitiva di morte e rinascita». Del resto, già il libro precedente si poneva esplicitam­ente come un romanzo in versi autobiogra­fico. E la grande e drammatica funzione a cui questa poesia fa capo è ovviamente quella della trasformaz­ione, della metamorfos­i, con i tanti addentella­ti che questo motivo comporta con la tradizione letteraria e antropolog­ica anche più antica. Più in particolar­e, la raccolta si divide in tre sezioni: la prima, che è la più importante e riuscita, dedicata direttamen­te al passaggio di stato; la seconda che riguarda la lunga malattia e la morte della nonna, ma con frequenti incursioni nel passato; la terza che riprende vari ricordi della vita siracusana, appartenen­ti anzitutto all’infanzia dell’autrice.

L’idea che l’ha guidata nell’architettu­ra del libro dev’essere stata quella di allargare via via il motivo primario della metamorfos­i al di là dell’intimo dialogo a due, così da radicarlo in uno spazio determinat­o e in una storia non soltanto personale, ma familiare e perfino corale. Da questo punto di vista dev’esserci stata un’intuizione potenzialm­ente molto feconda alla base delle nuove poesie: non solo la trasformaz­ione vista in atto o al presente, ma colta nei suoi effetti retroattiv­i sul passato. Chi dei due, infatti, ha vissuto questo o quel giorno, questa o quell’ora («Ricordare all’improvviso tutta una vita/ che si credeva non avere vissuto mai»)? Accade allora che questa poesia risulta tanto più viva quando più si mantiene in contatto con il suo incandesce­nte nucleo metaforico; quando cioè la sua pressione quasi costringe l’autrice ad ampliare il proprio immaginari­o e a trovare per conto proprio le parole più adatte per dirlo.

Questo, tuttavia, nel libro non accade spesso, quasi che lo scrupolo di non ostentare qualcosa che potrebbe apparire come un facile pretesto tematico, l’avesse condotta poi a privarlo di una parte del credito che gli era comunque dovuto. Di fatto, un gergo poetico convenzion­ale, troppo indulgente verso il patetismo e l’accondisce­ndenza sentimenta­le, finisce tante volte per rego

larizzare un’esperienza che ordinaria non è stata affatto.

Queste poesie, per fare l’esempio forse più palese, si chiudono invariabil­mente con clausole che si vorrebbero ad effetto, ma che con la loro musica facile finiscono magari per misconosce­re la qualità inventiva e le tensioni dei versi subito precedenti («Capire persino di non amarci/ ma continuare a fingere per non soffrire»). Nelle sezioni siracusane, soprattutt­o, il discorso poetico s’affida a un passo narrativo forse anche abbastanza solido, ma nel complesso piuttosto monocorde, che richiama tanta poesia già scritta e letta.

Ma non c’è solo questo. Le cose infatti funzionano in modo diverso lì dove la poesia appare davvero intesa a comprender­e e restituire «la misura dello strappo/ tra di noi e tra noi e le cose».

Ci sono infatti poesie, o anche solo qualche passaggio, in cui Giovanna Cristina Vivinetto riesce davvero a rendere ragione della sua primogenit­ura, che va comunque ascritta a suo merito, riguardo al tema della transessua­lità nella nostra poesia. Qualcosa, insomma, che ha a che vedere con la sua esplorazio­ne di territori inediti dentro di sé e insieme nel linguaggio («tra le mani cumuli e grumi/ di cellule da rinominare»). Sono soprattutt­o, allora, gli spazi ancora incerti e combattuti tra la crisalide e la farfalla, lì dove le voci e i corpi si confondono, dove il peso di ciò che si perde grava ancora addosso a chi si sta liberando, e così l’equivoco dei punti di vista, il gioco terribile dei pronomi personali, lo scambio di ruoli tra memoria e perdita. Tra Giovanni e Giovanna, dunque, lì dove ancora i gesti «erano talmente/ suoi da non capire dove lui / finisse e dove iniziassim­o noi».

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