Corriere della Sera - La Lettura
Metamorfosi del corpo e della vita
Sfide Il nuovo volume di Giovanna Cristina Vivinetto conferma la personalità dell’autrice e la forza del tema affrontato già nell’esordio del 2018 — la sua transessualità — e consente di riflettere sullo stile scelto per narrare la genesi di una trasforma
Di Giovanna Cristina Vivinetto si è parlato e si continua a parlare moltissimo. A partire dal suo primo libro di versi, Dolore minimo (uscito per Interlinea due anni fa), in cui la giovanissima autrice siracusana affrontava per prima in Italia la questione della propria transessualità, il suo è diventato subito un caso (giornali, rotocalchi, televisioni, social), in cui la poesia tuttavia ha finito per entrarci poco o nulla.
Tutto, in realtà, era partito dalla rivendicazione di ragioni assolutamente sacrosante, vale a dire dalla difesa
della propria libertà e dignità personale di contro ad attacchi stupidi, settari, volgari. Ma poi, come spesso accade, l’onda della presenza pubblica ha cominciato ad avanzare per conto proprio, autoalimentandosi secondo i suoi modi specifici, che Giovanna Cristina, va riconosciuto, ha fatto mostra di saper cavalcare con indubbio talento. Della scrittura poetica, comunque sia, si sono perse troppo presto le tracce.
Eppure, se si guarda alla sua poesia tutta la questione assume una fisionomia meno effimera o pretestuosa e, viceversa, più proporzionata e più credibile. Ben al di là dei tanti premi che il libro d’esordio s’è aggiudicato (cosa che appartiene piuttosto alla sociologia della poesia), dal punto di vista della letteratura un vero caso-Vivinetto infatti non esiste, o comunque risulta molto meno eclatante di quanto il versante pubblico potrebbe fare credere. A soli due anni dalla precedente, ne offre adesso conferma una nuova raccolta di poesie, Dove non sia
mo stati, uscita in questi giorni per Bompiani con una prefazione di Roberta Dapunt e una nota critica di Alberto Bertoni (il titolo sembra riprendere capovolgendolo un verso tra i più emblematici di Milo De Angelis, poi divenuto titolo di una sua auto-antologia: Dove eravamo già stati).
Questo accade anzitutto perché il linguaggio poetico a cui s’affida risulta nella sostanza prevedibile e facilmente orecchiabile, e dunque risaputo e perfino abusato dalla grande pancia della poesia italiana contemporanea. Eppure è altrettanto vero che accanto e anzi frammisto a questo gergo poetico convenzionale, che finisce spesso per disinnescare le ragioni più intime e vere di questa scrittrice, si trova un nucleo di verità ferito e dolente, a volte confuso e disarmato, capace di parlare una lingua anche diversa, e di giovarsene allora per mettere a fuoco e onorare qualcosa che, stavolta sì, può dirsi davvero e soltanto suo.
Nella sua nota Alberto Bertoni ha definito giustamente il libro come «un romanzo familiare e corporale insieme, narrato con la consapevolezza della celebrazione
di un atto (che si ripete per ogni nuovo lettore) di una liturgia definitiva di morte e rinascita». Del resto, già il libro precedente si poneva esplicitamente come un romanzo in versi autobiografico. E la grande e drammatica funzione a cui questa poesia fa capo è ovviamente quella della trasformazione, della metamorfosi, con i tanti addentellati che questo motivo comporta con la tradizione letteraria e antropologica anche più antica. Più in particolare, la raccolta si divide in tre sezioni: la prima, che è la più importante e riuscita, dedicata direttamente al passaggio di stato; la seconda che riguarda la lunga malattia e la morte della nonna, ma con frequenti incursioni nel passato; la terza che riprende vari ricordi della vita siracusana, appartenenti anzitutto all’infanzia dell’autrice.
L’idea che l’ha guidata nell’architettura del libro dev’essere stata quella di allargare via via il motivo primario della metamorfosi al di là dell’intimo dialogo a due, così da radicarlo in uno spazio determinato e in una storia non soltanto personale, ma familiare e perfino corale. Da questo punto di vista dev’esserci stata un’intuizione potenzialmente molto feconda alla base delle nuove poesie: non solo la trasformazione vista in atto o al presente, ma colta nei suoi effetti retroattivi sul passato. Chi dei due, infatti, ha vissuto questo o quel giorno, questa o quell’ora («Ricordare all’improvviso tutta una vita/ che si credeva non avere vissuto mai»)? Accade allora che questa poesia risulta tanto più viva quando più si mantiene in contatto con il suo incandescente nucleo metaforico; quando cioè la sua pressione quasi costringe l’autrice ad ampliare il proprio immaginario e a trovare per conto proprio le parole più adatte per dirlo.
Questo, tuttavia, nel libro non accade spesso, quasi che lo scrupolo di non ostentare qualcosa che potrebbe apparire come un facile pretesto tematico, l’avesse condotta poi a privarlo di una parte del credito che gli era comunque dovuto. Di fatto, un gergo poetico convenzionale, troppo indulgente verso il patetismo e l’accondiscendenza sentimentale, finisce tante volte per rego
larizzare un’esperienza che ordinaria non è stata affatto.
Queste poesie, per fare l’esempio forse più palese, si chiudono invariabilmente con clausole che si vorrebbero ad effetto, ma che con la loro musica facile finiscono magari per misconoscere la qualità inventiva e le tensioni dei versi subito precedenti («Capire persino di non amarci/ ma continuare a fingere per non soffrire»). Nelle sezioni siracusane, soprattutto, il discorso poetico s’affida a un passo narrativo forse anche abbastanza solido, ma nel complesso piuttosto monocorde, che richiama tanta poesia già scritta e letta.
Ma non c’è solo questo. Le cose infatti funzionano in modo diverso lì dove la poesia appare davvero intesa a comprendere e restituire «la misura dello strappo/ tra di noi e tra noi e le cose».
Ci sono infatti poesie, o anche solo qualche passaggio, in cui Giovanna Cristina Vivinetto riesce davvero a rendere ragione della sua primogenitura, che va comunque ascritta a suo merito, riguardo al tema della transessualità nella nostra poesia. Qualcosa, insomma, che ha a che vedere con la sua esplorazione di territori inediti dentro di sé e insieme nel linguaggio («tra le mani cumuli e grumi/ di cellule da rinominare»). Sono soprattutto, allora, gli spazi ancora incerti e combattuti tra la crisalide e la farfalla, lì dove le voci e i corpi si confondono, dove il peso di ciò che si perde grava ancora addosso a chi si sta liberando, e così l’equivoco dei punti di vista, il gioco terribile dei pronomi personali, lo scambio di ruoli tra memoria e perdita. Tra Giovanni e Giovanna, dunque, lì dove ancora i gesti «erano talmente/ suoi da non capire dove lui / finisse e dove iniziassimo noi».