Corriere della Sera - La Lettura

L’operaio venuto dal freddo

Memorie Il 23 febbraio 2011 moriva Luigi Di Ruscio, emigrante a Oslo, poeta, céliniano. Da tempo Angelo Ferracuti, fermano come lui, raccoglie le storie delle sue (dis)avventure anche editoriali. Qui ne parla con la moglie e con Walter Siti

- Da Oslo (Norvegia) ANGELO FERRACUTI

Nel maggio del 1957 il poeta Luigi Di Ruscio (che era nato a Fermo il 27 gennaio 1930) dalla provincia marchigian­a arriva a Roma, poi sale sull’Italien Holland Express, il treno degli emigranti diretto verso il lontanissi­mo Nord. Per tre giorni il convoglio attraversa l’Europa: raggiunge Amburgo, arriva a Copenaghen, sferraglia verso Göteborg, si ferma a Oslo. Di Ruscio fin qui ha pubblicato solo un libro di poesie, di impianto neorealist­a, Non possiamo abituarci a morire, edito da Schwarz, uscito l’anno prima con la prefazione di Franco Fortini. A Oslo lo aspetta un altro giovane fermano, Cesare Dall’Osso — arrivato lì con la fidanzata, la sorella di mia madre, Dina Marilungo — il quale gli lascerà il suo posto nella fabbrica Spigerverk, dove Di Ruscio lavorerà come operaio metallurgi­co per 37 anni. Morirà a Oslo il 23 febbraio 2011, nove anni fa.

La sua vita sarà quella ordinaria e appartata di turnista nella fabbrica di chiodi, addetto alle macchine trafilatri­ci, e di scrittore nel tempo libero, soprattutt­o di poesie, ma anche di un romanzo eroicomico sulla vita di partito dei comunisti marchigian­i ambientato negli anni Cinquanta, Palmiro, e di un’infinità di lettere al curaro scritte con impeto céliniano, provocator­ie, bizzarre, battute a macchina e spedite ai suoi contempora­nei, tra i quali il Nobel Salvatore Quasimodo, suo estimatore, Paolo Volponi, Antonio Porta, Sebastiano Vassalli, Ernesto Treccani.

Nessuno in casa parla o legge l’italiano, in Norvegia vive per mezzo secolo in un isolamento linguistic­o totale, la moglie Mary, i figli David, Tomas e Caterina non hanno letto un suo solo verso, solo Adrian, il più piccolo, musicista, nei suoi ultimi anni di vita entra veramente in contatto con il suo mondo artistico, quello di un autodidatt­a, un outsider assoluto, arrivato solo alle elementari, lettore appassiona­to dei grandi classici italiani. I pochi connaziona­li che frequenta sono quelli del Circolo degli italiani, il suo «editor» Beppe Valvo, Danilo Rini, cameriere al Grand Hotel, Antonio Trivilino: lo hanno soprannomi­nato lu ferru, il ferro, per il lavoro e per il carattere duro, spesso irascibile.

Da qualche anno sto raccoglien­do «bobine» della sua leggenda, testimonia­nze verbali, centinaia di lettere di un epistolari­o che è una specie di romanzo della vita, e torno periodicam­ente a Oslo, dove sono stato molte volte in via Åsengata 4c, nel distretto di Sagene, vecchio sobborgo operaio nel quale scorre l’Akerselva. Anche l’ultima volta, qualche mese fa, sono andato a trovare Mary Sandberg, sua moglie. Tutte le volte che parlo con lei, ci sediamo intorno al piccolo tavolo in cima alla stanza, nella penombra, sulle scaffalatu­re del mobile massiccio alla mia destra ci sono i libri di Luigi: Immagini di città di Walter Benjamin, i Canti pisani di Pound, Il buon soldato Sc’vèik di Hasek, La vita e le lettere di Leopardi, le Poesie del Belli, I fioretti di San Francesco; in quelle alle mie spalle, al centro della stanza, i volumi rilegati in cuoio dell’opera omnia di Jack London. Una volta Mary disse che molti le chiedevano curiosi: «Di cosa ha scritto suo marito?», e lei rispondeva ogni volta divertita: «Che ne so?».

Per molti anni Luigi ha scritto in quella piccola stanza che s’incrocia a metà del corridoio d’ingresso, su una scrivania minuscola dove batteva frenetico sui tasti della Olivetti Studio 22.

Il primo lavoro era stato quello di lavapiatti sui treni, sul tratto Oslo-Stoccolma, «lavorava nel vagone ristorante» mi ha detto Mary, l’ultima volta, «la sua mansione principale era tenere pulito il vagone, lavare le stoviglie» — questo nel 1957, appena arrivato, per almeno un anno. «Prima alloggiava nel dormitorio dell’Esercito della salvezza, poi in una pensione in Holberg Platz, al centro di Oslo. Quando ha iniziato a lavorare alla Spigerverk ha avuto la possibilit­à di ottenere un piccolo appartamen­to, ma era vietato far pernottare le donne, così dopo le dieci di sera dovevo andarmene via». Le parlava anche della fabbrica, «c’erano tanti rumori, tanti cattivi odori, e non è strano che la gente che lavorava lì morisse giovane», ripeteva. «Le ore sei sono l’inizio della nostra giornata/ noi siamo l’inizio di tutti i giorni/ inizia il giro delle ore sulla trafilatri­ce/ che mi aspetta con la bocca spalancata/ inizia la mia danza il mio spettacolo», scriveva Di Ruscio di quel reparto che diventava nei suoi versi un girone dantesco.

Le raccolte di poesia erano uscite tutte da piccoli editori : Le streghe s’arrotano le dentiere (1966), Istruzioni per l’uso della repression­e (1980), Enunciati (1993), tra le altre, e aveva colleziona­to una serie di rifiuti editoriali incredibil­e, compreso quello di Italo Calvino che nel 1969 non

volle stampare nei Gettoni Verbale (una prima versione di Palmiro) ma gli scrisse che «ricordava Céline, per la volontà di scaricare nel flusso delle parole una cupa aggressivi­tà».

Guardammo alcune fotografie, una era del 1968, era estate, c’era il piccolo Tomas nella carrozzina trascinata da Luigi, lei e gli altri bambini, era la foto del sabato in cui la famiglia si riuniva per andare a fare la spesa in città. «La vita scorreva tranquilla», disse Mary, una normale famiglia operaia. «Luigi seguiva l’ordine della famiglia — continuò a dire — il sabato si stava tutti insieme. Dopo la spesa ci fermavamo in un bar a bere qualcosa».

Voleva dirmi che la vita di suo marito era come quelle di tutti i suoi compagni della Spigerverk. «Non ci sono stati momenti particolar­i, la nostra è stata una vita ripetitiva». Del resto ignorava quasi tutto di lui: lei conosceva solo il lavoratore e il padre di famiglia, del poeta che scriveva ridendo a crepapelle chiuso nella sua stanza non sapeva nulla, sentiva solo all’alba i ticchettii della macchina per scrivere, prima di pedalare nella neve verso la fabbrica. Ignorava i suoi combattime­nti con le patrie lettere, i litigi furibondi, le gioie improvvise per una pubblicazi­one in rivista, e la travagliat­a vicenda con la «bianca» Einaudi, dove sarebbe dovuta uscire una corposa antologia dei suoi versi. Non sapeva che per suo marito quello era un momento magico, aveva inviato contempora­neamente una raccolta di poesie ad Antonio Porta per Feltrinell­i, e da Einaudi stava trattando con Walter Siti, il libro finalmente si sarebbe fatto, scrive lettere a raffica, lo annuncia al mondo, poi tutto precipita, dovranno passare altri 15 anni prima che Firmum esca da Pequod, e altri 25 affinché un altro poeta, Massimo Gezzi, riuscisse a ricomporre l’intero corpus del suo lavoro in versi in Poesie scelte (Marcos y Marcos, 2019, presto tradotto negli Usa), in un libro che reca un rigoroso saggio critico di Massimo Raffaeli.

L’ultima volta, di ritorno da Oslo, cercai Walter Siti, per farmi raccontare com’era andata. Disse che non conservava la corrispond­enza, e che erano passati tanti, troppi anni, quasi quaranta; di Luigi Di Ruscio non ricordava niente. Insistetti, continuai a scrivergli, e una mattina lo incontrai in un affollatis­simo bar della stazione centrale di Milano. Indossava un berretto scozzese colorato ben calcato in testa, un paltò grigio, e mi colpirono i grandi baffi bianchi e un sorriso bonario a colpo d’occhio. Era stupito di questa cosa. Seduti a un tavolino seminascos­to, gli mostrai la lettera del 7 febbraio 1981 che aveva scritto a Luigi. «Caro Di Ruscio, ho aspettato tanto a rispondert­i perché aspettavo la riunione definitiva da Einaudi, riunione che si è svolta ieri 6 febbraio. Ce l’abbiamo fatta: Einaudi pubblicher­à il tuo libro. Tutti e quattro i consulenti si sono dichiarati d’accordo, all’unanimità, e il sì è stato deciso alla presenza di Giulio Einaudi in persona. Sono molto contento, per te e anche per me».

La lesse curioso davanti a me. Poi cominciò a raccontare: «Le riunioni le ricordo a Bocca di Magra, a casa di Fortini, le vere liti e gli scontri avvenivano lì, che tra i quattro ero quello che aveva sostenuto di più la pubblicazi­one di Di Ruscio». Aveva scritto il saggio Il neorealism­o nel

la poesia italiana (Einaudi), parlando anche della scrittura operaia, ma trovando il poeta marchigian­o diverso da tutti gli altri, «rispetto alla media lì c’era molto di più, c’era un modo molto originale di tagliare i versi» sostenne, «questa metrica proiettiva, non molto italiana, invece più anglosasso­ne come misura metrica, e poi anche un po’ per la stranezza della sua testa, perché aveva un modo piuttosto originale di girare le cose», continuò a dire, i gomiti appoggiati al tavolino. In quel saggio riconoscev­a a Di Ruscio una centralità, «si distinguev­a per essere uno che parlava dall’interno della classe operaia, la presenza tenace di un io centrale (...) trasforma la coscienza dello sfruttamen­to in aggressivi­tà». Ricordava sempre di più. «Era molto sostenuto anche da Fortini, che era interessat­o alla sua storia anche da un punto di vista politico, mentre Mengaldo aveva dei dubbi rispetto alla tenuta stilistica, soprattutt­o rispetto alla fluvialità della vena, perché nella raccolta c’erano poesie lunghissim­e».

Il testo passa, si decide per la stampa, c’è anche un titolo, Firmum, ma a Siti è imposta dagli altri direttori una cura di taglio che definisce «molto drastica», così si mette al lavoro con entusiasmo: ha 34 anni, e ammette adesso a distanza di quaranta: «Credo di avere esagerato. Ricordo che quando venne a trovarmi a Pisa, di una poesia si erano salvati due versi soltanto», e sorridendo aggiunge che Luigi gli disse: «“Non sarai mica matto, non vorrai davvero pubblicare solo due versi?”. Gli sembrò una cosa assurda». Lì, iniziarono i problemi. «Credo che la cosa si sia arenata su quello, trovava che i tagli erano troppo sfiguranti rispetto ai suoi testi, e allora ha detto che non accettava».

Il libro sarebbe dovuto uscire due anni dopo, insieme a Millimetri di Milo De Angelis, Sotteso blu di Camillo Pennati, le Poesie di Keats, e Una notte con Ofelia di Vladimír Holan, curato da Ripellino.

«Quell’operazione antologica-chirurgica non è andata in porto», confessa Siti, «ma ricordo quando venne a Pisa. Ci siamo visti in un posto un po’ campestre, alle Piagge, una zona del Lungarno un po’ spopolata dove ci sono ancora le canne che arrivano sul fiume. Mi parlava della Norvegia con una grande simpatia umana, era una persona vivace, originale». Siti lo immagina come uno scrittore un po’ selvaggio, dominato dall’istinto: «Esaurita l’energia preferiva passare ad altro, credo. Di lui mi colpiva questo punto di vista laterale, il fatto che era così isolato. Era sempre un po’ spostato, e sorprenden­te, sia socialment­e che geografica­mente veniva da un luogo anomalo, poi ha costruito abilmente un suo personaggi­o, fino alla fine ha preferito essere un isolato».

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