Corriere della Sera - La Lettura
Il torto di Cummins: troppi generi in una sola epopea
Il romanzo su una migrante messicana è accusato di «appropriazione culturale» perché l’autrice è bianca e americana. Ma i limiti del volume sono altri
Bastavano sei minuti per mettersi nelle scarpe di un migrante a chi si immergeva in Carne y Arena, l’esperienza di realtà virtuale di Alejandro Iñárritu, regista messicano premio Oscar, narratore di storie di profughi che attraversano il confine tra Messico e Stati Uniti. Sei minuti per diventare Lina che viene dal Guatemala e ha passato tre giorni chiusa in un furgone. O Carmen, ventiduenne con il figlio di 3 anni a rischio disidratazione nel deserto. Sei minuti per sentire la sabbia sotto i piedi, il vento tra i cactus, i fari delle jeep, i cani che abbaiano, il rumore dell’elicottero, le grida di aiuto di altri disperati compagni di viaggio e i coyote (gli «scafisti» messicani) che spingono il loro gregge stanco. Ci vuole molto più tempo per attraversare le 410 pagine di Il sale della terra, il romanzo di Jeanine Cummins che sta suscitando dibattiti e polemiche negli Stati Uniti. E non perché la lettura non sia coinvolgente, al contrario. Il libro, uscito a fine gennaio negli Usa, ha avuto una fiammata di vendite anche per la serrata campagna pubblicitaria dell’editore, ma è stato accusato di «appropriazione culturale», ultimo peccato in cui possono incorrere gli scrittori, come ha spiegato in queste pagine Pierdomenico Baccalario («la Lettura» #420 del 15 dicembre scorso): un reato basato sulla disparità tra il background di chi scrive e quello di chi si scrive. Inserito nel Book Club di Oprah Winfrey, Il sale della terra è stato giudicato da parte della critica, sopratutto latina, pieno di imprecisioni e stereotipi nella descrizione del Messico e dei messicani. D’altronde — è il presupposto dell’appropriazione culturale — come può una bianca nata in Nord America raccontare la traversata del deserto dei migranti latinoamericani?
Il problema è un altro ed è letterario. Cummins (che nella nota finale si mette al riparo dall’accusa vantando una nonna portoricana e un marito immigrato senza carta verde) spinge sul pedale dell’azione confezionando un romanzo che indubbiamente tiene incollato il lettore fino all’ultima pagina ma come può farlo un buon prodotto d’intrattenimento, senza quel potere intrinseco di denuncia che un testo come questo dovrebbe avere. Siamo lontani dall’operazione di Iñarritu ma anche da quella di un’altra artista messicana, Teresa Margolles. Lei la violenza delle gang e dei cartelli l’ha declinata nella mostra Ya basta hijos de puta, in simboli estremi che passano da strade e obitori: storie di donne uccise e fatte sparire; di migranti annegati nel Rio Grande mentre tentano di passare il confine tra Messico e Usa; di vittime dei narcos, uccise nei modi più brutali.
La protagonista di Il sale della terra, Lydia, è una libraia di Acapulco con marito giornalista d’inchiesta e figlio di 8 anni. Una vita tranquilla, da privilegiati. Certo, le sparatorie, i cadaveri per strada, la corruzione delle forze dell’ordine, le precauzioni da prendere anche nei quartieri belli come quello in cui vive la famiglia sono all’ordine del giorno ma, tutto sommato, ancora a distanza di sicurezza.