Corriere della Sera - La Lettura
La tenerezza di un mostro nel quale nessuno vuole specchiarsi
Mentre si gira Una vita difficile di Dino Risi, Alberto Sordi fa interrompere le riprese. Sono mesi che discute con il suo sceneggiatore di sempre, Rodolfo Sonego, sulla scena che è giunto il momento di girare: Silvio Magnozzi, il personaggio che Sordi interpreta nel film, ha scritto un romanzo ma, per questioni di principio, rifiuta l’assegno dell’editore. Così è scritto nella sceneggiatura, ma Sordi non ci sta. Discute con sceneggiatore e regista, si rifiuta di girare la scena, il film si ferma. E Risi fa andare a prendere Sonego a casa e lo fa arrivare sul set. Sonego continua a spiegare a Sordi il perché di quel gesto, ma Sordi quei soldi dice che Magnozzi li deve prendere. E alla fine, supplica Sonego: «E daje, Rodolfo. E lasciami pijà ’sti soldi! Ma che te frega se Magnozzi prende i soldi?».
In questo episodio ci sono molte caratteristiche di Alberto Sordi tenute insieme: è una specie di sintesi per raccontarlo.
La prima riguarda l’identificazione totale tra personaggio e persona. Come se fosse un attore del «metodo», Sordi dimostra di essere invaso dal personaggio che interpreta. Per questo, molti hanno detto che in fondo era davvero così: il moralista, il seduttore, il dentone, il vedovo, il maestro di Vigevano, il borghese piccolo piccolo e molti altri. Era davvero un uomo che portava dentro l’italiano medio e le sue peggiori intenzioni, capacità, furbizie, meschinità. Ma questa è la solita storia che ascoltiamo anche a proposito dell’autobiografismo, ed è come se si chiedesse: ma quindi è tutto vero? (come se avesse importanza); ma non è più facile così, allora? (no, non è più facile, così). In realtà, Sordi era un attore molto coraggioso, e quando intravedeva la possibilità di un mostro quotidiano, un carattere italiano sordido, scuro — un personaggio che molti altri attori non avrebbero accettato — ci si buttava con entu
siasmo, con ossessività, addirittura con morbosità; si accendeva, e con gesti, idiomi e posture lo rendeva irresistibile, e spaventoso. E spingeva più a fondo, invece di arretrare — per questo motivo voleva accettare l’assegno dell’editore: non aveva intenzione di salvare i suoi personaggi, o almeno non fino a quando non avessero toccato il fondo.
Il coraggio di Alberto Sordi consiste in questo: non ha mai avuto paura di essere spaventoso, lì sullo schermo, di prestare il suo corpo e le sue capacità a un italiano di cui gli altri italiani ridevano (e ridono tuttora) sia perché si sentivano molto diversi e migliori sia perché si vergognavano di assomigliargli nei meandri più scuri della propria coscienza. È come se Sordi, film dopo film, avesse svelato un segreto indicibile di ognuno di noi, di quei segreti che non si possono confessare a nessuno per tutta la vita. E quindi poi, a vederseli davanti, fanno stare male. E intanto che stai male, ridi. Ma ridi in un modo complicato, amaro, fastidioso e infastidito. Ridi con dolore. E far ridere con dolore è una vetta che non in tanti possono raggiungere. Sordi l’ha raggiunta costantemente, fin da quando Totò lo vide per la prima volta in una rivista e sentenziò: «È capacino».
Tutto è cominciato con I vitelloni (in realtà, tutto è cominciato con i personaggi patetici radiofonici e delle riviste, e l’ancor più patetico Sceicco bianco). Ma così come Federico Fellini fonda, con quel film sugli amici nullafacenti riminesi, una commedia amara che sarà poi un filone abbondante e grandioso (ma che Fellini non percorrerà); allo stesso modo Sordi fonda con il personaggio di Alberto (ha il suo nome, è un destino) — molle, esagerato perché disperato, mantenuto dalle donne della famiglia, perduto, affossato per sempre nella provincia — il paradigma dell’inetto, che poi sarà l’antieroe de La grande guerra e di Tutti a casa, il giovane invasato di Un americano a Roma (che gli darà il successo definitivo), e via via tutti gli altri. E quando incontra Sonego durante una di quelle serate in cui si scrive un film in venti, con la gente stesa sotto il tavolo a fumare e a macinare battute, gli propone un sodalizio che scandaglierà con meticolosità ossessiva tutte le caratteristiche dell’italiano inetto, tutte le discendenze possibili del vitellone nullafacente. In questo, Sordi sarà molto diverso dagli attori suoi contemporanei: Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Nino Manfredi mostreranno virilità e seduzione, anche nella commedia (si pensi al Sorpasso), anche nell’inettitudine. Invece Sordi è riuscito ad attraversare tutto il cinema combinando il pensiero cattolico borghese con una antivirilità, antieroicità che lo rendono per questo modernissimo. Se in ogni suo personaggio c’è traccia potente e visibile della grettezza dell’italiano medio, allo stesso tempo il ruolo del maschio è sempre costantemente messo in ridicolo. Anche il personaggio maschile, ci racconta la filmografia di Sordi, è un inetto. Sonego raccontava così la sintesi di tutti i personaggi del grande attore: «Un italiano che non è più né contadino né operaio, ed è diventato mostro. Uno che va a messa con la moglie e davanti alla chiesa ti consegna una busta, dove trovi i soldi di una piccola truffa; una cartella dell’avvocato che lo ha cancellato dalla lista dei contribuenti; e due biglietti aerei del prossimo piccolo weekend con l’amante».
Ecco forse il segreto dell’inafferrabilità di Sordi: di solito non si può tratteggiare personaggi allo stesso tempo reazionari e moderni; gretti e complicati. Di solito non si può tenere insieme gli schemi più retrivi dell’italiano medio e la rivelazione di ciò che diventerà, grazie all’apparizione della sua fragilità. Di solito i personaggi o sono meschini o sono commoventi.
O almeno, era stato così fino a quando non è apparso sulla scena Alberto Sordi: un inutile mostro, un inetto che non ci piace. Ed è esattamente quello che rimane indimenticabile: la tenerezza che proviamo per uno che non ci piace, ed è proprio per questo che lo troviamo irresistibile. Perché in tutti gli altri ci specchiamo, vanitosi; e in Alberto Sordi non ci vogliamo specchiare, per nessun motivo al mondo. Per la paura di ciò che possiamo vedere.