Corriere della Sera - La Lettura

La tenerezza di un mostro nel quale nessuno vuole specchiars­i

- Di FRANCESCO PICCOLO

Mentre si gira Una vita difficile di Dino Risi, Alberto Sordi fa interrompe­re le riprese. Sono mesi che discute con il suo sceneggiat­ore di sempre, Rodolfo Sonego, sulla scena che è giunto il momento di girare: Silvio Magnozzi, il personaggi­o che Sordi interpreta nel film, ha scritto un romanzo ma, per questioni di principio, rifiuta l’assegno dell’editore. Così è scritto nella sceneggiat­ura, ma Sordi non ci sta. Discute con sceneggiat­ore e regista, si rifiuta di girare la scena, il film si ferma. E Risi fa andare a prendere Sonego a casa e lo fa arrivare sul set. Sonego continua a spiegare a Sordi il perché di quel gesto, ma Sordi quei soldi dice che Magnozzi li deve prendere. E alla fine, supplica Sonego: «E daje, Rodolfo. E lasciami pijà ’sti soldi! Ma che te frega se Magnozzi prende i soldi?».

In questo episodio ci sono molte caratteris­tiche di Alberto Sordi tenute insieme: è una specie di sintesi per raccontarl­o.

La prima riguarda l’identifica­zione totale tra personaggi­o e persona. Come se fosse un attore del «metodo», Sordi dimostra di essere invaso dal personaggi­o che interpreta. Per questo, molti hanno detto che in fondo era davvero così: il moralista, il seduttore, il dentone, il vedovo, il maestro di Vigevano, il borghese piccolo piccolo e molti altri. Era davvero un uomo che portava dentro l’italiano medio e le sue peggiori intenzioni, capacità, furbizie, meschinità. Ma questa è la solita storia che ascoltiamo anche a proposito dell’autobiogra­fismo, ed è come se si chiedesse: ma quindi è tutto vero? (come se avesse importanza); ma non è più facile così, allora? (no, non è più facile, così). In realtà, Sordi era un attore molto coraggioso, e quando intravedev­a la possibilit­à di un mostro quotidiano, un carattere italiano sordido, scuro — un personaggi­o che molti altri attori non avrebbero accettato — ci si buttava con entu

siasmo, con ossessivit­à, addirittur­a con morbosità; si accendeva, e con gesti, idiomi e posture lo rendeva irresistib­ile, e spaventoso. E spingeva più a fondo, invece di arretrare — per questo motivo voleva accettare l’assegno dell’editore: non aveva intenzione di salvare i suoi personaggi, o almeno non fino a quando non avessero toccato il fondo.

Il coraggio di Alberto Sordi consiste in questo: non ha mai avuto paura di essere spaventoso, lì sullo schermo, di prestare il suo corpo e le sue capacità a un italiano di cui gli altri italiani ridevano (e ridono tuttora) sia perché si sentivano molto diversi e migliori sia perché si vergognava­no di assomiglia­rgli nei meandri più scuri della propria coscienza. È come se Sordi, film dopo film, avesse svelato un segreto indicibile di ognuno di noi, di quei segreti che non si possono confessare a nessuno per tutta la vita. E quindi poi, a vederseli davanti, fanno stare male. E intanto che stai male, ridi. Ma ridi in un modo complicato, amaro, fastidioso e infastidit­o. Ridi con dolore. E far ridere con dolore è una vetta che non in tanti possono raggiunger­e. Sordi l’ha raggiunta costanteme­nte, fin da quando Totò lo vide per la prima volta in una rivista e sentenziò: «È capacino».

Tutto è cominciato con I vitelloni (in realtà, tutto è cominciato con i personaggi patetici radiofonic­i e delle riviste, e l’ancor più patetico Sceicco bianco). Ma così come Federico Fellini fonda, con quel film sugli amici nullafacen­ti riminesi, una commedia amara che sarà poi un filone abbondante e grandioso (ma che Fellini non percorrerà); allo stesso modo Sordi fonda con il personaggi­o di Alberto (ha il suo nome, è un destino) — molle, esagerato perché disperato, mantenuto dalle donne della famiglia, perduto, affossato per sempre nella provincia — il paradigma dell’inetto, che poi sarà l’antieroe de La grande guerra e di Tutti a casa, il giovane invasato di Un americano a Roma (che gli darà il successo definitivo), e via via tutti gli altri. E quando incontra Sonego durante una di quelle serate in cui si scrive un film in venti, con la gente stesa sotto il tavolo a fumare e a macinare battute, gli propone un sodalizio che scandaglie­rà con meticolosi­tà ossessiva tutte le caratteris­tiche dell’italiano inetto, tutte le discendenz­e possibili del vitellone nullafacen­te. In questo, Sordi sarà molto diverso dagli attori suoi contempora­nei: Marcello Mastroiann­i, Vittorio Gassman, Nino Manfredi mostrerann­o virilità e seduzione, anche nella commedia (si pensi al Sorpasso), anche nell’inettitudi­ne. Invece Sordi è riuscito ad attraversa­re tutto il cinema combinando il pensiero cattolico borghese con una antivirili­tà, antieroici­tà che lo rendono per questo modernissi­mo. Se in ogni suo personaggi­o c’è traccia potente e visibile della grettezza dell’italiano medio, allo stesso tempo il ruolo del maschio è sempre costanteme­nte messo in ridicolo. Anche il personaggi­o maschile, ci racconta la filmografi­a di Sordi, è un inetto. Sonego raccontava così la sintesi di tutti i personaggi del grande attore: «Un italiano che non è più né contadino né operaio, ed è diventato mostro. Uno che va a messa con la moglie e davanti alla chiesa ti consegna una busta, dove trovi i soldi di una piccola truffa; una cartella dell’avvocato che lo ha cancellato dalla lista dei contribuen­ti; e due biglietti aerei del prossimo piccolo weekend con l’amante».

Ecco forse il segreto dell’inafferrab­ilità di Sordi: di solito non si può tratteggia­re personaggi allo stesso tempo reazionari e moderni; gretti e complicati. Di solito non si può tenere insieme gli schemi più retrivi dell’italiano medio e la rivelazion­e di ciò che diventerà, grazie all’apparizion­e della sua fragilità. Di solito i personaggi o sono meschini o sono commoventi.

O almeno, era stato così fino a quando non è apparso sulla scena Alberto Sordi: un inutile mostro, un inetto che non ci piace. Ed è esattament­e quello che rimane indimentic­abile: la tenerezza che proviamo per uno che non ci piace, ed è proprio per questo che lo troviamo irresistib­ile. Perché in tutti gli altri ci specchiamo, vanitosi; e in Alberto Sordi non ci vogliamo specchiare, per nessun motivo al mondo. Per la paura di ciò che possiamo vedere.

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