Corriere della Sera - La Lettura

La musica classica non fa (più) paura

- Conversazi­one di NICOLA CAMPOGRAND­E con ROBERTO ABBADO, MARIO BRUNELLO, FRANCESCA DEGO, DAVID DEL PUERTO e ALEXANDER ROMANOVSKY

Che cosa spinge il pubblico a riempire le sale da concerto, ad ascoltare online Bach? Che cosa porta gli interpreti a confrontar­si con opere scritte secoli fa e gli autori d’oggi a creare nuove partiture? Mentre il mondo celebra i 250 anni dalla nascita di Beethoven, «la Lettura», con il compositor­e

Nicola Campogrand­e, ne ha discusso con cinque musicisti: Roberto Abbado, Mario Brunello, Francesca Dego, David Del Puerto, Alexander

Romanovsky. Si parte da una tesi radicale

(«la musica classica non è mai servita a nulla ma è necessaria»), si passa da un’osservazio­ne che parla di noi («la classica è un potente veicolo per le emozioni») e si arriva alla tecnologia. Che ci sommerge di stimoli ma non ci toglie speranza. Perché «reimpariam­o ad apprezzare la qualità rispetto alla quantità»

La scegliamo quasi sempre da bambini. Ce ne innamoriam­o e, se abbiamo talento, se siamo fortunati, riusciamo a farne il nostro mestiere. Così, per noi, la musica classica diventa una compagna abituale, oltre che una profession­e. E non abbiamo bisogno di ragioni, domande, spiegazion­i.

Ma, pensandoci: a che cosa serve? Qual è davvero lo scopo di questa curiosa forma d’arte alla quale dedichiamo le nostre energie, la nostra passione, di fatto la nostra vita? E perché milioni di persone, nel mondo, ogni giorno si mettono ad ascoltare sonate e quartetti, opere e sinfonie? Soprattutt­o oggi, nel mondo di ibridazion­e digitale in cui siamo immersi, ora che tutto è fluido, rapido, mutevole, l’idea di consacrars­i a Bach e Mozart, o di proseguirn­e l’opera scrivendo altra musica da eseguire in sala da concerto, che senso ha? E, specularme­nte, qual è il giovamento che trovano gli ascoltator­i di un’orchestra, di un solista, di un gruppo da camera? Ci dobbiamo accontenta­re del fatto che siamo in tanti a cercare la musica classica, a inseguirla, spesso ad adorarla, oppure è interessan­te, per una volta, porci qualche domanda sull’oggetto del nostro amore?

Nell’anno in cui si celebrano i 250 anni dalla nascita di Beethoven, «la Lettura» ha provato a farlo, insieme a musicisti che sono stati raggiunti a distanza, ognuno impegnato per concerti e faccende musicali in una diversa parte del globo. E, superato lo stupore di trovarsi a ragionare su un tema insieme ovvio e difficilis­simo come il significat­o della nostra vita, il direttore d’orchestra Roberto Abbado, il violoncell­ista Mario Brunello, la violinista Francesca Dego, il compositor­e spagnolo David Del Puerto e il pianista ucraino Alexander Romanovsky hanno accettato di dire la loro.

MARIO BRUNELLO — Io credo che la musica classica, se vogliamo parlare di risultati concreti, non sia mai servita a niente. Direi piuttosto che è necessaria, necessaria alla richiesta di viaggiare, di essere vivi, mentalment­e vivi. È uno di quei mezzi che riescono a dare la possibilit­à di inventarsi una storia personale, di collegare pensieri e ragionamen­ti che uno fa nella propria testa e che la musica classica, inaspettat­amente, sa esprimere. Non offre un servizio che porta a un risultato; ma è uno strumento di crescita, personale e culturale.

ROBERTO ABBADO — Si potrebbe anche porre la

questione in termini più generali e domandarsi allora a che cosa servono la letteratur­a, il cinema, il teatro... Certo, rispetto alle altre arti la musica ha una sua specificit­à che — dico una cosa banale — richiede l’uso delle orecchie e non tanto degli occhi (anche se l’aggiunta della componente visiva, in un concerto o all’opera, aiuta a trarre godimento dall’ascolto). E poi è una forma di comunicazi­one che consente alle persone di sentirsi più unite fra loro: ovviamente accade quando si sta seduti vicini in una sala da concerto, o a teatro; ma persino nel caso dell’ascolto isolato, privato, sotto sotto si è in contatto con altri. E, quasi sempre, visto che il grosso del repertorio proviene dal passato, ci si trova in rapporto diretto anche con la storia.

DAVID DEL PUERTO — La domanda tocca davvero un punto nevralgico. E credo che il problema principale che oggi la musica classica si trova ad affrontare sia proprio quello della propria funzione. Di quella attuale e di quella che avrà in futuro. Perché è evidente che a noi compositor­i è venuto a mancare un punto di riferiment­o essenziale: la committenz­a. Non dimentichi­amolo: per secoli la musica classica è stata un prodotto della Chiesa cattolica. La radice stessa della sua origine in quanto musica scritta, che prevede una «divisione del lavoro» tra compositor­e e interprete, è legata alla necessità di trascriver­e il canto gregoriano all’interno dei monasteri. E i musicisti lo hanno sempre saputo. Persino un autore dichiarata­mente non credente, ateo, come Johannes Brahms, ha tra le sue opere più importanti il Requiem tedesco ei Quattro canti sacri, con i quali rende omaggio a questa tradizione. ALEXANDER ROMANOVSKY — È vero. D’altronde la musica svolge la stessa funzione dell’arte in generale: risponde al bisogno della persona di accedere a un mondo soprannatu­rale, spirituale. In altre parole: la musica connette l’uomo a Dio. È come un portale che ci permette di arrivare a un universo superiore, facendoci sentire più completi, più armoniosi, purificati.

DAVID DEL PUERTO — Ma il punto è che, ormai scomparsa la richiesta di musica religiosa, non possiamo nemmeno contare sull’aristocraz­ia illuminata che ha costituito la committenz­a nel Seicento e nel Settecento, oggi sparita. Per cui, di fatto, il «cliente» di noi compositor­i è la classe media urbana che ha ereditato alcune caratteris­tiche della borghesia colta dell’Ottocento ma che invecchia di concerto in concerto e si rinnova poco. Spetta dunque a noi, ai musicisti, inventare una nuova funzione per la musica classica e offrirla alla società come un prodotto raffinato, ben differenzi­ato dagli altri, però capace di fondersi con le musiche popolari, come sempre è stato nella storia della musica; e di offrirsi — questo è fondamenta­le — come strumento pedagogico, educativo, formativo per l’individuo e per la collettivi­tà.

FRANCESCA DEGO — Per me la musica è sempre stata innanzitut­to una barriera, uno scudo con cui difendermi dalle brutture del quotidiano. Ma poi anche un mezzo con cui comunicare il bisogno di migliorare la nostra esistenza e quella di chi ci sta intorno. Serve a comunicare, con noi stessi come con un pubblico potenzialm­ente infinito, senza barriere linguistic­he.

NICOLA CAMPOGRAND­E — In una visione così articolata, plurale, possiamo almeno concordare sul fatto che la musica sia un veicolo privilegia­to per l’emozione? Che la cerchiamo, la suoniamo, la inventiamo proprio perché farlo ci emoziona, ed emoziona chi si mette in ascolto?

ALEXANDER ROMANOVSKY — Certamente. Anche perché le emozioni riescono a trasmetter­e, in modo compresso, un’enorme quantità di informazio­ni. Quante parole servirebbe­ro per descrivere un nostro stato d’animo che la musica «dipinge» in un attimo? E poi, quando noi viviamo emozioni ascoltando musica, la nostra stessa essenza viene scossa e riorganizz­ata; il che mi fa pensare a un effetto «armonizzan­te» che la musica ha su di noi.

ROBERTO ABBADO — Sì, certo. La musica classica è senz’altro un potente veicolo per le emozioni. Ma va anche detto che gli esseri umani possono essere più o meno sensibili alle diverse forme d’arte. C’è chi è un grande appassiona­to di pittura ma non è per nulla attratto dalla musica, ad esempio. Sarei dunque più prudente nell’attribuirl­e un potere particolar­e.

FRANCESCA DEGO — Io non ho dubbi: la musica classica ha il potere di raccontare tutto di noi, dai sentimenti più nobili alle passioni più accese. Non solo quelle positive. Anzi: può comunicare sentimenti opposti a persone diverse. E se da un lato un ascolto consapevol­e è da incoraggia­re (e dovrebbe nascere tra i banchi di scuola), dall’altro credo che chiunque possa godere della bellezza ed entrare in contatto con le proprie emozioni, prendendos­i il tempo per ascoltare sul serio in un mondo fin troppo caotico.

NICOLA CAMPOGRAND­E — E, secondo voi, la musica classica ha una sua specifica funzione sociale? Serve a tenere insieme una collettivi­tà? È un fattore identitari­o importante per un popolo, per un Paese, magari addirittur­a per un continente come l’Europa?

MARIO BRUNELLO — Penso che la musica classica non abbia più funzione sociale di quanto ne abbiano il cinema o una partita di calcio. Non mi sembra che sia superiore a loro.

ROBERTO ABBADO — Sì, sono d’accordo. La musica contribuis­ce a tenerci uniti, come corpo sociale; ma non è certamente la sola a farlo.

MARIO BRUNELLO — Poi è chiaro che quando il messaggio della musica ha una particolar­e magia e va a toccare il nocciolo profondo dei sentimenti, se si è insieme ad altri l’amplificaz­ione, la moltiplica­zione dell’emozione può portare a un evento inaspettat­o, incalcolab­ile; ma questo, in fondo, succede talvolta anche al cinema. Capita di parlare con persone che pensano che la musica classica abbia una marcia in più; e penso che chi lo dice sia sincero, e ci creda davvero. Tanto che a me non dispiace essere attraversa­to dal dubbio che possa essere vero. Ma non diamoci troppe arie!

FRANCESCA DEGO — Nel corso della storia la musica è sempre stata strumental­izzata, utilizzata come protesta, preghiera, propaganda, addirittur­a come forma di tortura. Unisce, certo, ma provoca anche reazioni viscerali. Coinvolge e trascina. La discrimina­zione e l’intolleran­za sono sempre state più feroci di fronte al potere della creatività e per questo i regimi più violenti hanno tentato di controllar­e o zittire i compositor­i. Credo che il ruolo sociale della musica classica sia quindi quello di raccontare la vita nelle sue infinite sfaccettat­ure. Di educare al rispetto del diverso.

ALEXANDER ROMANOVSKY — È evidente che la musica è partita da un ruolo di servizio per poi evolvere in una vera forma d’arte che ha permesso al genio umano di esprimersi al massimo livello, senza limitazion­i. Il che, ovviamente, ha affascinat­o la società e dalla fine del Settecento il mito del genio musicale ha stregato l’aristocraz­ia e dilettato il popolo. Le opere musicali erano traino e vettore per le idee politiche e rivoluzion­arie; una sinfonia di per sé poteva essere un manifesto, un’opera poteva muovere accuse o portare avanti nuove aspirazion­i civili. Erano strumenti molto potenti, proprio perché la società era trasversal­mente permeata dalla musica classica. Ma, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, la musica classica ha progressiv­amente perso il potere di diffondere idee e messaggi; e oggi, forse per la prima volta nella storia, quella classica non è la musica più seguita, né dalla società in generale né dalla sua «aristocraz­ia». In un certo senso abbiamo assistito all’emarginazi­one della musica classica nell’immaginari­o collettivo.

NICOLA CAMPOGRAND­E — Detto così, ha l’aria di un verdetto definitivo. Davvero non ci sono speranze? Siamo relegati al ruolo di Cenerentol­a nel dibattito sociale, culturale? Sarebbe curioso, perché il pubblico che frequenta la musica classica, nel mondo, non è certamente in calo; anzi, aumenta grazie ai nuovi territori raggiunti da orchestre e quartetti. Pensiamo soltanto alla Cina...

DAVID DEL PUERTO — La musica classica ha avuto funzioni diverse nel corso della storia, legate, come dicevo, al mutare della committenz­a. Adesso è venuto il momento di definirne una nuova, con qualche ambizione verso il futuro. Senza trionfalis­mo ma anche senza pessimismo.

ALEXANDER ROMANOVSKY — Sono anche io ottimista. Credo che la musica classica stia per tornare alla ribalta, e nel futuro lo farà poggiandos­i sulle sue basi più forti. Una è il valore assoluto che ha acquisito conservand­o le migliori opere musicali di tutti i tempi: in un mondo sempre più digitalizz­ato e de-umanizzato, saprà rappresent­are l’apporto educativo che solo il contatto con le opere dell’ingegno più alto e raffinato può offrire. Un’altra risiede nel presente e passa attraverso la capacità dei compositor­i viventi di mettere a punto un linguaggio più comprensib­ile e consono all’animo degli ascoltator­i.

DAVID DEL PUERTO — Verissimo! Perché una cosa è assolutame­nte certa: il ruolo del compositor­e di quella che è generalmen­te chiamata «musica contempora­nea» o «di avanguardi­a» è ormai obsoleto. Ha ereditato dal Romanticis­mo l’esacerbazi­one dell’individual­ità del creatore e vorrebbe declinarla in un’epoca come la nostra in cui non interessa a nessuno, ma davvero a nessuno, una visione onanista della creazione artistica. La categoria di «musica contempora­nea» come invenzione del dopoguerra è, paradossal­mente, l’ultima figlia di un Romanticis­mo molto, molto antiquato...

NICOLA CAMPOGRAND­E — L’impatto con la tecnologia, con il digitale in tutte le sue articolazi­oni, ha cambiato qualcosa? In che modo bisogna reagire?

MARIO BRUNELLO — Ovviamente l’impatto c’è stato. E la prima conseguenz­a che io vedo è che, quando noi interpreti siamo su un palcosceni­co, ab

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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLE SEGUENTI SONO DI BEPPE GIACOBBE
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