Corriere della Sera - La Lettura

Lo so: solo i pesci morti seguono la corrente

Lo sceneggiat­ore Nicola Guaglianon­e racconta a «la Lettura» il nuovo film girato con l’amico Gabriele Mainetti, «Freaks out» «Sarà come se il Mago di Oz incontrass­e i Guardiani della galassia». E fa tesoro della massima del barista di Charles Bukowski

- COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA

«Dopo il successo di Lo chiamavano Jeeg Ro

bot (2015, ndr) con Ga b r i e l e Mai n e t t i , che lo aveva diretto, eravamo preoccupat­i. Ci siamo visti per un mese, temporeggi­avamo. Il primo film è sempre una scommessa. Ma se lo imbrocchi, al secondo ti vengono un sacco di paure, come quella di perdere la lucidità e scegliere il progetto sbagliato. Il lavoro di un artista, anche se mi fa ridere definirmi così, non è quello di andare incontro ai desideri del pubblico, e quindi magari ripetersi, ma di fornire un nuovo punto di osservazio­ne». E quindi? «Gli ho portato sette idee, tra cui una che mi piaceva molto per la quale avevo già dei personaggi interessan­ti: un albino, una ragazzina, un uomo-lupo… Una sorta di Mago di Oz che incontra Guardians of

the Galaxy. Solo che mancava qualcosa. Un giorno, mentre stavamo passeggian­do, butto lì: “Ma se lo ambientass­imo nella Seconda guerra mondiale?”. Così è nato Freaks out ».

Romano, 46 anni, lo sceneggiat­ore Nicola Guaglianon­e anticipa a «la Lettura» il suo nuovo film, nelle sale il 22 ottobre. Storia di quattro personaggi in cerca d’autore: Matilde, Cencio, Fulvio, Mario. Lavorano in un circo a Roma e quando il proprietar­io, che è anche il loro padre putativo, scompare, si trovano allo sbando. Senza qualcuno che li assista, e soprattutt­o senza il circo, hanno smarrito la loro collocazio­ne sociale. Si sentono solo fenomeni da baraccone, a piede libero in una città in guerra.

Si ricompone la squadra di «Lo chiamavano Jeeg Robot». Oltre al regista Mainetti, co-sceneggiat­ore, nel cast c’è Claudio Santamaria, qui con Aurora Giovinazzo e Pietro Castellitt­o.

«È un film di formazione su una ragazzina di 14 anni in un momento storico buio. Ma ci sono tutti i temi che mi sono cari: il rapporto con il diverso, l’immaginazi­one come fuga dalla realtà…».

Personaggi imperfetti, e però eroi.

«Come diceva lo psicoanali­sta Otto Rank, alla nascita l’uomo è già un eroe. Sono film che raccontano le trasformaz­ioni dell’animo umano. Non mi piacciono i personaggi perfetti: Enzo di Jeeg è l’Uomo Qualunque che viene investito di un grande potere. All’inizio cerca di ottenere la felicità materiale, poi scopre che la vera felicità è dei sentimenti».

Un ladruncolo romano si ritrova con dei superpoter­i ma non ha alcuna intenzione di salvare l’umanità.

«Una storia di conflitti morali. Riflettevo su come in Italia il potere non fosse mai un servizio, quanto un privilegio».

Come ci siete arrivati?

«Venivamo da tre cortometra­ggi; uno,

Tiger Boy, era anche finito in shortlist agli Oscar. Era il momento di crescere, di pensare a un vero film. Gli ho detto: “Gabrie’, ma coi sentimenti o le pistole?”. E lui: “Sicurament­e le pistole”. Alla fine abbiamo fatto un film di sentimenti ma con le pistole. Ho scritto un trattament­o di una trentina di pagine: una storia seminale su due corrieri della coca. Non c’erano supereroi né superpoter­i. Al terzo atto del soggetto, mentre stavo tirando le fila, ho capito che la direzione era sbagliata. Noi avevamo sempre cercato di rendere credibili i miti del passato: gli anime, Lupin, Tiger Boy. “Dobbiamo mirare in alto”, dissi. “Fare qualcosa che non è mai stato fatto”. Con voce incerta gli proposi: “Ma se facessimo un film su un supereroe a Tor Bella Monaca?”. Gli brillavano gli occhi: “Una figata. Proviamoci”. Come due ragazzini».

Da dove arrivano le idee?

«Sotto la doccia. Il migliore ufficio che si possa trovare».

Lei insegna alla Luiss. Che cosa accomuna i giovani sceneggiat­ori?

«È una generazion­e che ha viaggiato, bombardata di input e di immagini. Eppure riesce ad amalgamare tutto con un grande senso di novità».

Ha iniziato con Leo Benvenuti...

«Ero troppo pigro per fare il regista e troppo timido per fare l’attore. Lo sceneggiat­ore sembrava un buon compromess­o. Stai a casa tua, scrivi le tue cose, dormi fino al pomeriggio… Il problema è che a un certo punto devi farle leggere a qualcuno».

Quali sono i suoi riferiment­i?

«Tutto. Oltre a Rank e a Benvenuti, Pasolini, i Vanzina, il cinema americano degli anni Ottanta, dai Goonies a Karate Kid, il supermachi­smo di Rocky e Ram

bo, Pietro Germi, Antonio Pietrangel­i,

Sotto il sole di Roma di Renato Castellani che ho rivisto per Freaks out. E poi ovviamente Tarantino, Alexandre Rockwell, Kevin Smith di Clerks… Ho sempre amato i miti. Nei miti cercavo la sicurezza in me che non avevo. Quando senza una lira andai a Los Angeles, nel 1999, il mio mito era Charles Bukowski. Entrai da Musso & Frank Grill, il suo ristorante preferito, e iniziai a bere gin tonic. C’era un vecchio barista messicano che l’aveva conosciuto. Guardò questo pivello di 25 anni e pensò di scrivermi qualcosa sulla Moleskine. “Solo i pesci morti seguono la corrente”. Lì per lì ero tutto contento. Una settimana dopo capii che il pesce morto ero io. E che dai miti bisogna separarsi».

Perché abbiamo bisogno di miti?

«Per comprender­e la morte. Come diceva Bukowski, tutto quello che facciamo è per dimenticar­ci che siamo a scadenza. Un mese prima che uscisse Jeeg mio padre è morto d’infarto. Ero smarrito, ho cercato dei surrogati. Un avvocato, un commercial­ista: persone che mi sembravano affidabili. Poi ho capito che a 42 anni non dovevo cercare dei padri ma essere io il padre di me stesso».

Parliamo del tessuto sociale che accomuna «Jeeg» e «Indivisibi­li» di Edoardo De Angelis (2016).

«Era importante per rendere credibili i personaggi. Serviva un contesto iperrealis­ta. Jeeg, dicevo sempre, è un Pasolini

sci-fi. Un Claudio Caligari, per l’attenzione alla ricerca sociale, al disagio e alle borgate. Sono cresciuto sopra la Magliana, ho fatto il servizio civile a Tor Bella Monaca: quella disperazio­ne la conosco, il desiderio di borghesia degli anni Ottanta. Caligari diceva che quando cambiano le droghe, in un contesto sociale, ne cambiano la direzione. Quando a Roma sono arrivate le pasticche è cambiata anche la musica. Il pariolino ha preso la camicia e l’ha messa fuori dai pantaloni. Non amo invece le storie ambientate nei non-luoghi. Anzi, le detesto».

Lei fa anche cinepanett­oni. Il più recente, «Il primo Natale», con Ficarra e Picone.

«Amo il cinema popolare, ci sono cresciuto. Metto lo stesso impegno che per qualsiasi film. Perché la verità è che non c’è differenza, conta solo se hai una bella storia. Se possiedi la capacità di emozionare e divertire. Non sono uno snob: una delle più grandi lezioni, per me, è stata lavorare su una sitcom di Raidue che si chiamava 7 vite. Con Menotti scrivemmo 100 puntate. La cassetta degli attrezzi di un autore va continuame­nte rinnovata. Se avessi lavorato negli anni Ottanta non avrei detto no ai film di Pierino per salvaguard­are la mia autorialit­à».

E dopo «Freaks out»?

«Sto scrivendo due horror ambientati in Italia. Non amo il metafisico, non credo a niente, sono ateo. Ciò che mi spaventa è la violenza gratuita».

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