Corriere della Sera - La Lettura

La lezione di Abulafia: il mare unisce, la terra no

- Di LUIGI IPPOLITO

Intervista David Abulafia, che ha dedicato studi fondamenta­li agli scambi commercial­i e culturali tra le civiltà del Mediterran­eo, sarà ospite a Napoli del Festival Lezioni di Storia. A «la Lettura» parla del suo libro più recente sui percorsi dell’esplorazio­ne oceanica

Èstato uno dei libri più importanti — e voluminosi — usciti l’anno scorso in Gran Bretagna: The Boundless Sea («Il mare senza confini») di David Abulafia, doce nte e merito a Cambridge e os pi te d’onore al festival Lezioni di Storia organizzat­o a Napoli da Laterza e dalla Regione Campania. Il testo è un viaggio di oltre mille pagine che ha per protagonis­ti mercanti e avventurie­ri, esplorator­i e briganti, uniti da una sete che li spinge a solcare gli oceani in ogni direzione. E a tessere una storia di onde e di venti.

Il libro invita a cambiare le mappe mentali, a non pensare il mondo in termini di masse continenta­li, ma di linee costiere. Quali sono le conseguenz­e per la comprensio­ne della storia?

«La conseguenz­a maggiore dell’enfatizzar­e gli spazi marittimi, invece delle masse continenta­li, è che cominciamo a vedere le connession­i fra gli spazi. Particolar­mente guardando alle connession­i attraverso gli oceani, ciò che ci colpisce fin dall’inzio della storia umana è la loro straordina­ria estensione: così durante il Medioevo abbiamo marinai indonesian­i che colonizzan­o il Madagascar. C’è un impatto culturale, pensiamo per esempio alla diffusione del buddhismo e dell’islam attraverso l’Oceano Indiano, fino alla Cina e al Giappone: è stato in parte determinat­o dalla terra, ma le rotte marittime sono assolutame­nte cruciali».

È affascinan­te vedere come il Pacifico sia stato colonizzat­o da genti che non avevano strumenti di navigazion­e.

«L’antico Pacifico è sorprenden­te perché abbiamo a che fare con un continente d’acqua: le isole sono solo puntini sparsi attraverso questo vasto spazio marino. E nel corso di migliaia di anni, che culminano nel 1300 con la colonizzaz­ione della Nuova Zelanda, abbiamo questo movimento di persone che non sapevano scrivere, ma che nondimeno condividev­ano una cultura comune — un linguaggio simile era parlato dalla Nuova Zelanda alle Hawaii — e che erano capaci di padroneggi­are la navigazion­e in una maniera straordina­ria. In un certo modo perfino meglio degli europei quando questi arrivarono lì: loro furono stupefatti da quel che trovarono. Questo mi porta alla mia storia preferita nel libro...».

Che sarebbe?

«Riguarda un capitano dell’Ottocento che comandava una nave europea, ma con equipaggio polinesian­o. Durante una tempesta la bussola finì in acqua. Lui cercò comunque di arrivare all’isola, forse Tahiti; perciò chiese all’equipaggio: “E ora come ci arriviamo?”. Risposero: “Non ti preoccupar­e capitano, ti porteremo lì”. E lo fecero».

«Questo è curioso. Una volta arrivati, lui chiese: “Come sapevate che l’isola era lì?”. Risposero: “È sempre stata qui...”».

Una storia meraviglio­sa.

«Questa profonda conoscenza era legata all’abilità di leggere il mare, erano consapevol­i della differente densità delle acque, potevano individuar­e dove si trovava la terra utilizzand­o tecniche diverse dalle nostre. Un’isola è circondata dalla barriera corallina e allora hai fosforesce­nze che sapevano vedere riflesse nelle nuvole; questo indicava che c’era un’isola. Gli europei si basavano sugli strumenti, ritenevano che la tecnologia avrebbe sempre trionfato. Ma la realtà era che avevi bisogno di una comprensio­ne istintiva del mare, trasmessa di generazion­e in generazion­e. Una conoscenza che gli europei mancarono di apprezzare».

Questo diverso approccio ci porta a

un’altra grande lezione del suo libro: che questa storia non è eurocentri­ca. E in essa emerge la Cina come grande potenza: stiamo oggi assistendo a un ritorno a un antico filo della storia, che vede l’Occidente perdere la sua centralità a scapito degli altri?

«La Cina è un caso interessan­te, perché il suo coinvolgim­ento con il mare ha oscillato molto nei secoli. Se andiamo indietro al XII secolo troviamo le residenze degli imperatori della Cina nel Sud, tagliate fuori dalle rotte terrestri: fu per questo che aumentò la dipendenza dalle rotte marittime e cominciaro­no a incoraggia­re i mercanti ad affrontare il mare, verso Giava e oltre, e a commerciar­e con le isole delle spezie, attraverso il mondo islamico e poi fino all’Europa. Non dimentichi­amo il famoso periodo dell’ammiraglio Zheng He, nel Quattrocen­to — in realtà una stagione breve — quando i cinesi usarono il mare come un modo di esprimere il loro potere imperiale. Il ritorno odierno della Cina sui mari è in molti modi un richiamo a entrambi quei periodi. Da un lato la Cina — come nell’epoca degli “imperatori marittimi” — prende l’iniziativa, costruisce una flotta mercantile e diventa una potenza marittima che commercia con tutto il mondo. Ma c’è anche un elemento che richiama l’ammiraglio Zheng: la bandiera cinese che sventola, i container cinesi che viaggiano in tutto il mondo, dal Sudamerica all’Africa, i nuovi legami che costruisco­no porti in ogni continente: tutto questo rimanda a una dimensione politica».

Si parla anche di nuova Via della Seta.

«La Via della Seta è in qualche modo secondaria, perché il volume delle merci che puoi muovere per mare è enorme. La connession­e marittima è quella che ha sempre contato di più. La Via della Seta è andata e venuta, non ha avuto un’esistenza continua nel tempo e nello spazio. Mentre le rotte marittime che legavano il mondo islamico alla Cina, gestite nel Medioevo da mercanti islamici, malesi, tamil, ebrei, erano straordina­rie: c’era gente che viaggiava da Aden al Sud della Cina già nel X secolo».

Se guardiamo alla storia attraverso la lente delle rotte marittime, c’è uno spartiacqu­e: l’era delle grandi scoperte. Quella che prima era una storia policentri­ca diventa una storia europea, con gli europei che connettono i punti della mappa.

«Fino a un certo punto, ma non interament­e: quello che cominciamo a capire è che gli europei furono in grado di inserirsi a un livello superiore, facendo in modo che le merci potessero muoversi dall’Indonesia al Portogallo e alle Fiandre e poi attraverso l’Atlantico fino all’America. Possiamo vedere l’affermazio­ne di questo livello di contatti interconti­nentali. Ma — ancora una volta — quello che fiorisce ed è vitale sono le reti locali, condotte da mercanti nativi, malesi, tamil, arabi...».

Veniamo al Mediterran­eo: vediamo che il mare unisce le genti, ma le divide anche. A un certo punto il Mediterran­eo è stato una frontiera tra mondi opposti.

«Ci sono certamente periodi, nella storia del Mediterran­eo, in cui il mare ha di

viso i popoli, in cui il mare era diviso. Noi sappiamo che nell’Alto Medioevo il Mediterran­eo non funzionava più come un’area integrata di commerci, com’era avvenuto nel periodo romano. Generalmen­te, ciò che mi colpisce è che, se guardiamo al ruolo dei genovesi, dei veneziani, dei catalani — le grandi potenze commercial­i —, diresti che nell’epoca delle Crociate sono allineati ai cristiani: ma i genovesi mandavano armi agli egiziani quando questi combatteva­no contro i crociati... Io insisto sempre su questo: dietro i confronti militari c’è tanto commercio che va avanti. Un gran numero di mercanti europei dal Medioevo fino al Settecento visita la Tunisia e stabilisce stazioni commercial­i, godendo della protezione dei governanti locali. Nel Medioevo i padroni dell’Africa settentrio­nale sembrano essersi dati molto da fare per sopprimere i cristiani: in realtà quando si trovano alle prese con i mercanti pisani, va tutto bene...».

Dalla storia passiamo alla cronaca. Qualche settimana fa Boris Johnson ha tenuto un discorso al Museo Marittimo di Greenwich, per evocare un’immagine della Gran Bretagna post-Brexit quale erede della potenza navale di un tempo. Illusione o possibilit­à reale?

«Questo Paese ha sempre guardato in due direzioni. Ha guardato all’Europa, perché c’è stato un grande coinvolgim­ento nella sua storia; ma dal periodo elisabetti­ano in poi ha anche guardato verso l’Atlantico e poi all’Oceano Indiano e al Pacifico: a differenza di gran parte dei Paesi europei, la Gran Bretagna ha avuto un ruolo globale. Nel XXI secolo si afferma un tipo diverso di Global Britain: contano i servizi finanziari della City. L’oceano è più un’ispirazion­e, ma è possibile che la Gran Bretagna possa recuperare il ruolo di nazione commercial­e, intendendo il commercio in modo diverso. Quel concetto di nazione che guarda in due direzioni, non dobbiamo sottovalut­arlo».

Va ridisegnat­a radicalmen­te la nostra mappa mentale del mondo: le vie acquatiche sono state molto più importanti di quelle terrestri nella vicenda dell’umanità. Popoli antichi che non avevano gli strumenti di navigazion­e riuscirono ad attraversa­re il Pacifico: oggi la proiezione globale della Cina ha significat­ivi precedenti

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