Corriere della Sera - La Lettura
I Boreali, tutte le parole per narrare tutti i Nord
Jan Brokken inaugura a Milano il festival sulle letterature nordiche presentando il nuovo «romanzo di non fiction» su Jan Zwartendijk, il console olandese in Lituania che nel 1940 salvò migliaia di ebrei. A «la Lettura» spiega questa scelta e che cosa vuol dire oggi rischiare la vita. «L’accoglienza coinvolge tutta Europa». Poi cita la capitana della Sea Watch 3 che sfidò Salvini
«Un grido all’Europa, questo è il mio libro. Per ricordare che anche negli anni prebellici e durante la Seconda guerra mondiale furono chiuse le frontiere. È il modo in cui i nazionalisti risolvono i problemi, ma non funziona. Allora ha provocato una tragedia con milioni di morti. Oggi il pericolo è che stiamo tornando indietro».
L’olandese Jan Brokken, raffinato scrittore, giornalista, viaggiatore, già autore di libri come Anime baltiche (2010), inaugurerà a Milano il festival I Boreali. In Italia è appena uscito il suo volume I Giusti (Iperborea): intenso lavoro di oltre 600 pagine, nel quale ricostruisce la storia di Jan Zwartendijk, console olandese a Kaunas, in Lituania, che diede il via a una rischiosa operazione con la quale avrebbe salvato oltre 6 mila ebrei.
In sole tre settimane nell’estate del 1940, in una corsa contro il tempo prima che i sovietici chiudessero il consolato (poi il 22 giugno 1941 sarebbero arrivati i nazisti), Zwartendijk scrisse sui passaporti di chi gli chiese aiuto la seguente frase: «Non è necessario un visto per l’accesso al Suriname, a Curaçao e agli altri territori olandesi in America». Dopo la capitolazione dei Paesi Bassi sotto la Germania hitleriana, il regno olandese non era ancora travolto del tutto. Rimanevano le colonie. Così il console Zwartendijk indicò i territori del Mar dei Caraibi come meta nei passaporti di chi tentava di fuggire, soprattutto ebrei arrivati dalla Polonia occupata dai nazisti: senza una destinazione, non avrebbero potuto nemmeno sperare di lasciare la Lituania. Se poi a Curaçao e dintorni i rifugiati fossero arrivati davvero, sarebbero comunque stati in balia dei governanti locali. Ma questo Zwartendijk lo omise: se lasciano l’Europa — pensò — avranno almeno una possibilità di sopravvivere. E così, per una parte di loro, avvenne. Uscirono dalla Lituania, arrivarono a Vladivostok attraverso la Transiberiana, da lì raggiunsero Kobe in Giappone, poi si rifugiarono altrove, da Shanghai a Città del Capo, all’America, all’Australia. Perché ha deciso di narrare la storia del console?
«Fu Dovid Katz, professore di lingua yiddish a Vilnius, la capitale della Lituania, a parlarmene. Accadde mentre facevo ricerche per Anime baltiche. Mi colpì che la storia fosse completamente sconosciuta, persino in Olanda». Eppure Zwartendijk rischiò tantissimo.
«Non era un console professionista. L’incarico gli fu dato ad interim mentre dirigeva in Lituania una filiale della Philips. Il quartier generale però era nei Paesi Bassi, occupati dai nazisti. Inoltre a chiedergli aiuto furono,
come dicevamo, soprattutto ebrei polacchi fuggiti in Lituania, l’unico Paese che li aveva accolti. Ma anche in Polonia dal 1° settembre 1939 c’erano i nazisti. Zwartendijk sfidò dunque i tedeschi. E nel farlo non mise in pericolo solo sé stesso. Con lui a Kaunas c’erano la moglie Erni, i figli Edith, Jan e Robbie: anche loro rischiarono la vita». Il suo libro è un risarcimento postumo. Zwartendijk non ricevette riconoscimenti mentre era in vita.
«Fu proclamato “Giusto” dal Memoriale di Israele, Yad Vashem, nel 1997. Ma purtroppo era morto nel 1976. E non solo: nel 1963 ricevette persino un richiamo dal ministero degli Esteri olandese per non avere obbedito negli anni di Kaunas. Quando è uscito il mio libro, nel 2018, in Olanda è scoppiato un caso e l’anno scorso sono arrivate alla famiglia le scuse del ministro degli Esteri». Il console morì ignaro di quante vite avesse salvato.
«Dopo la Lituania Zwartendijk stette male, era angosciato di non sapere se i rifugiati ebrei si fossero salvati. Così i familiari chiesero un’inchiesta all’Istituto Wiesenthal di Vienna e al Centro di ricerca dello Yad Vashem. Ma ci vollero anni. La risposta arrivò il giorno del funerale. Non abbiamo una cifra esatta ma in base alle indagini furono oltre 6.000 i sopravvissuti grazie al console». Zwartendijk non condusse da solo il salvataggio.
«Fu decisivo il console giapponese a Kaunas, Chiune Sugihara. Anche lui nell’estate del 1940, con le mani doloranti, diede agli ebrei, contro la volontà del suo Paese, visti transitori per il Giappone. Sugihara era un diplomatico ufficiale, dopo la guerra fu licenziato. Alla fine degli anni Ottanta vendeva lampadine. Ma almeno, seppure anziano, fu proclamato Giusto prima di morire». Come si sono svolte le ricerche per il libro?
«Ci ho lavorato quattro anni. Due figli di Zwartendijk mi hanno accompagnato a Kaunas. Edith aveva 13 anni nel 1940, nel sentirla parlare sembrava di vedere il film della sua giovinezza. Lottando, sono riuscito a consultare gli archivi di stato di Lituania, Olanda, Russia, Giappone. Ho letto persino i documenti del Kgb».
Ricerca storica, in una forma che cattura come un romanzo. Mentre cresce il negazionismo — in Italia il 15,6% della popolazione crede che la Shoah non sia avvenuta — la sua scelta narrativa è anche un modo per trasmettere la memoria in maniera più efficace?
«Il mio libro è un “romanzo di non fiction”. Tutto quello che racconto è vero e documentato. Pubblico molte foto, i fatti sono sacri. Però a tutte le donne e uomini di cui parlo ho dato un volto, una storia. Non scrivo di rifugiati in generale, scrivo di Peppy Sternheim, di Isaac Lewin, di Nathan Gutwirth... per tutti mi sono chiesto: da quale famiglia vengono? Perché fuggono? L’ho fatto anche per Zwartendijk: chi sono i suoi genitori? Perché fa del bene? Ha interessi politici? La risposta è stata “no”. I figli mi hanno raccontato che ogni giorno si chiedeva: “Chi è un uomo buono? Come deve agire?”».
Nel libro ripercorre la vicenda, nel 1939, della nave St. Louis: diretta a Cuba da Amburgo, aveva a bordo 907 passeggeri ebrei; L’Avana li respinse, come poi gli Stati Uniti. I profughi tornarono in Europa e furono ripartiti tra Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda. Ci sono assonanze con il presente?
«Ciò che accade oggi nel Mediterraneo ricorda la St. Louis. Ne ho scritto anche per sottolineare la necessità della collaborazione internazionale. L’accoglienza non è un tema solo italiano, va affrontata da tutta l’Europa».
Ne «I Giusti» cita Jan de Hartog, autore del dramma «Capitano dopo Dio», nel quale il comandante di una nave decide di non riportare indietro i suoi profughi. Carola Rackete, la capitana della SeaWatch 3, può essere considerata una «Giusta» di oggi?
«Sì, lo è. Nel significato più ampio di una persona che non ha perso l’umanità e dice agli altri che non bisogna perderla. Poi, in senso stretto, il riconoscimento di “Giusto” dello Yad Vashem avviene in modo meticoloso. Ci sono criteri specifici, tra i quali l’avere rischiato la vita». Chi sono oggi i Giusti? E i non Giusti?
«È difficile leggere in diretta il proprio tempo. E bisogna stare attenti a fare paragoni: epoche e situazioni sono diverse. Detto questo però, un politico non deve mai perdere l’umanità, mentre ora ne vedo parecchi che la stanno perdendo. I populisti di oggi perseguono il loro interesse, quello del loro piccolo gruppo, non cercano soluzioni alle tragedie del presente. E così abbiamo nuovi muri, abbiamo la Brexit... Anche negli anni Trenta e Quaranta del Novecento ci furono, oltre a Hitler e Mussolini, ministri, generali, molte figure che smarrirono l’umanità ed ebbero come solo scopo il potere».
Al «Corriere» il premio Strega europeo David Diop ha dichiarato: «L’uomo non cambia. E questo mi porta ad avere un grande rispetto per chi, in ogni tempo, combatte le ingiustizie». È d’accordo?
«Nel corso della storia gli esseri umani tornano a comportarsi ciclicamente in modo egoistico. Ci sono state fasi in cui la religione ha definito la nostra morale, ma ora per gran parte della società non accade. Il mio prossimo libro sarà ambientato a Bologna: lì nel XVI secolo studiò Erasmo da Rotterdam e si può dire che lo spirito allora fosse più internazionale di adesso. Stiamo tornando al provincialismo e al nazionalismo». Perché?
«C’è stata la crisi economica. L’Europa è più ricca ma questa ricchezza è nelle mani di pochi. Quanto ai politici, dicevamo, molti sono egoisti. Ma non è solo colpa loro. Siamo noi che votiamo, la responsabilità è individuale. Ecco, se vogliamo leggerla in questa chiave, quella del console olandese è proprio una storia di responsabilità individuale. La responsabilità di correre rischi. E di essere buoni, anche nelle peggiori condizioni».