Corriere della Sera - La Lettura

Come una puntura d’ape ma ho svelato l’assassino

- Di GEORGE PELECANOS

Verdon è figlio di un veterano. Non se la passa bene, ha l’aria di quelli che, se li vedi per strada, ti viene da compatire o sfottere. Ma è l’informator­e migliore che il detective Barnes abbia mai avuto, o almeno così dice. E infatti stavolta Verdon sa. Sa chi ha ucciso Rico. Stavolta Verdon ha risolto un omicidio. Ci è riuscito a un prezzo, il prezzo che sente di dover pagare per ritrovare il padre che nel 1974, sul campo da baseball, aveva deluso

Ero nella sala d’attesa del pronto soccorso, all’ospedale dei veterani vicino a North Capitol Street dove avevo portato mio padre, quando il detective Tony Barnes mi chiamò sul cellulare. Mio padre aveva la fronte appoggiata alla sbarra del deambulato­re e ci sarebbe voluto un po’ prima che qualcuno venisse a chiamarlo.

Andai fuori e mi accesi una sigaretta.

«Ci sono novità, Verdon?», mi chiese Barnes.

«Devo parlarle di Rico Jennings».

«Dai, sputa».

«Non per telefono». Non gli avrei detto niente senza sentirmi tra le dita un po’ dei suoi quattrini.

«Quando possiamo vederci?».

«Il mio Pa’ non sta bene. In questo momento sono con lui. Facciamo alle 9 al solito posto».

Barnes interruppe la comunicazi­one. Io finii la sigaretta e tornai dentro. Mi sedetti accanto a papà, che si stava lamentando.

Eravamo lì già da qualche ora. Una ragazza con il culo alto ci aveva registrati all’arrivo, poi un’infermiera coreana aveva compilato una cartella clinica, ma di un dottore neanche l’ombra.

Gli altri uomini in sala d’attesa avevano tutti passato la cinquantin­a. Avevano l’aria infelice, ma nessuno di quelli che lavoravano lì sembrava farci caso. Ero stato in qualche ospedale dove curano i bianchi e so che non trattano i loro pazienti come questi veterani.

Finalmente venne il turno di mio padre. Un infermiere bianco, di nome Matthew, un tipo dai capelli rossi e gli avambracci alla Popeye, lo collegò a una di quelle macchine per il cuore, poi trovò una vena nel braccio e gli prelevò tre fiale di sangue. Quella mattina papà aveva detto di sentirsi confuso. Da quando ha avuto l’ictus, che l’ha lasciato paralizzat­o da un lato, si spaventa molto facilmente. La testa gli funziona bene, ma quando deve muoversi usa sempre il deambulato­re, persino per andare in bagno.

Lo guardai mentre era lì in letto, le spalle larghe, le mani solide. Nonostante i sessant’anni e l’ictus è più forte di me. So che non mi sentirò mai alla sua altezza, non solo perché ha fatto la guerra del Vietnam ma anche perché aveva fama di uno con cui era meglio andarci piano. Mentre io... be’, io sono io.

«Il dottore sta verificand­o i tuoi esami del sangue, Leon», disse Matthew. Immagino che non sapesse che nel nostro quartiere mio padre veniva chiamato Mr Leon o Mr Coates da quelli più giovani di lui. Mentre si allontanav­a, intonò un inno sacro. Mio padre alzò gli occhi al cielo.

«Scommetto che saresti più contento se a occuparsi di te ci fosse la ragazza coreana», gli dissi con un sorriso complice.

«È filippina», osservò lui in tono acido. Non c’era volta che non mi correggess­e.

Per tutta l’ora successiva non fece che lamentarsi. Poi un medico indiano di nome Singh scostò la tenda ed entrò. Disse a mio padre che gli esami erano tutti a posto, così come l’elettrocar­diogramma, e che quindi non c’era motivo di preoccupar­si.

«Torni a casa e si riposi», disse il dottor Singh in tono affabile. Emanava un odore simile a quello dei ristoranti indiani ma per il resto era un tipo ok.

A questo punto si rifece vivo Matthew che rivestì papà e compilò i moduli per la dimissione. «Il Signore ti ama, Leon», gli disse, prima di andare a occuparsi di qualcun altro.

«Usciamo da questo posto di merda», abbaiò mio padre e io mi diressi verso la stanza dove tenevano le sedie a rotelle.

Una volta a casa, mia madre lo sistemò sulla sua sedia a rotelle, piazzata davanti al televisore dove lui passa gran parte della giornata. Lei lo assiste di continuo e la notte quasi non dorme per paura che possa cadere dal letto. Gli fa la doccia e gli lava il culo. Mia madre è una donna di chiesa, convinta che dopo la morte sarà ricompensa­ta. È solo grazie a lei che mi viene concesso di vivere in casa di mio padre.

La television­e aveva il volume a palla ma è così che gli piace sentirla da quando ha avuto l’ictus. La tiene quasi sempre sintonizza­ta su un canale che trasmette vecchie partite.

«Franco Harris!», gridai indicando lo schermo. «Lui sì che era un campione». Mio padre non girò neanche la testa.

Sarei rimasto anch’io a guardare un po’ di quella vecchia partita degli Steelers se me l’avesse chiesto, ma lui non disse una parola e io salii in camera mia.

Un tempo era anche la stanza di mio fratello. Il letto di James è addossato alla parete opposta e i trofei di basket e football, conquistat­i quando era un ragazzino, sono ancora sul suo cassettone. Si è laureato in Legge alla Howard e se la cava alla grande, alla stragrande per la verità. Abita a Crestwood con la moglie, una donna carina e con la pelle chiara, e i due figli, altrettant­o chiari. Non viene molto da queste parti, anche se da casa sua ci si arriva in un quarto d’ora. Non avrebbe portato papà all’ospedale, né avrebbe aspettato tutto il giorno. Si sarebbe giustifica­to dicendo che aveva troppo da fare, che non poteva mollare lo studio. Eppure mio padre non fa che incensarlo con gli amici. Di me non ha motivo di vantarsi.

Mi infilai qualcosa di caldo e ficcai sigarette e accendino nella tasca del giaccone. Il cellulare lo lasciai in carica; aveva la batteria completame­nte a terra. Quando scesi, mia madre mi chiese dove stessi andando.

«C’è una cosetta di cui mi sto occupando», dissi, abbastanza forte perché mio padre sentisse.

Lui sbuffò, ridacchian­do tra sé. Avrebbe potuto anche aggiungere: «Stronzate», ma non ce n’era bisogno. Tirai su la lampo e uscii.

Aveva cominciato a nevicare. I fiocchi volteggiav­ano nei coni di luce formati dalle lampade stradali. Mi diressi verso il negozio di Giant Liquors su Georgia e comprai una pinta di vodka Popov, che tracannai mentre tornavo su via Quebec. Al di là di Park Place si stendevano i terreni della Soldier’s Home, circondati da una recinzione di ferro nero con i pali che terminavan­o a punta di lancia.

Certe sere io e Sondra la scavalcava­mo, l’estate prima che io mi ritirassi dalla Roosevelt High School. Io portavo un po’ di erba, una bottiglia di vino con il tappo a vite e il mio walkman, e andavamo a sederci sulla riva del la

go. Le parlavo delle auto che mi sarei comprato, dei completi che avrei indossato appena avessi trovato un buon lavoro. Le dicevo che non avevo bisogno di un diploma per procurarmi quel tipo di roba né per dimostrare quanto fossi in gamba. Lei mi guardava come se ci credesse.

Finì per sposare un avvocato con un ufficio sulla strada, a Shepard Park. L’ho rivista una volta che era tornata da queste parti per fare visita a sua madre. Anche lei mi vide mentre camminavo ma voltò la testa dall’altra parte, fingendo di non avermi riconosciu­to.

Ora mi infilai nel vicolo tra la Princeton e la Quebec. Il detective Barnes era in ritardo. Tolsi il tappo della Popov e buttai giù una sorsata. Mentre scendeva la sentii bruciare. Richiusi la bottiglia e mi accesi una sigaretta. «Psst. Ehi, tu».

Guardai verso l’alto, da dove era arrivata la voce. Un ragazzo si sporgeva da uno di quei portici di legno costruiti al secondo piano che sbucavano sul vicolo. Alle sue spalle c’era una porta a vetri con una tenda subito dietro. Accanto a lui si vedeva la ruota di una bicicletta. Da queste parti i ragazzini le mettono sul portico per non farsele rubare.

«Che cosa vuoi?», gli chiesi.

«Niente di quello che puoi darmi», rispose il ragazzo. Sembrava sui dodici anni, era alto e magro con i capelli a treccine sotto il casco nero.

«Allora porta il tuo culo dentro casa».

«Sei tu che gironzoli dove non dovresti».

«Io mi faccio i fatti miei. Niente compiti oggi?».

«Li ho già fatti a scuola».

«Dove vai, alla MacFarland Middle?».

«Sì».

«Anch’io andavo lì».

«E allora?».

Mi venne quasi da sorridere. Aveva la lingua tagliente ma il cuore grande.

«Che cosa ci fai qui?», mi chiese.

«Sto aspettando una persona».

In quel momento l’auto senza contrasseg­ni di Barnes passò lentamente davanti all’imboccatur­a del vicolo. Si fermava sempre in cima alla strada, lo sapevo.

«Ti saluto, ragazzino», gli dissi, buttando via la sigaretta e ficcando la bottiglia nella tasca della giacca. Mi incamminai, sentendomi addosso i suoi occhi.

Mi infilai sul sedile posteriore dell’auto, una Crown Vic color blu notte. Mi abbassai fin quasi a sdraiarmi, la testa contro la portiera sotto il livello del finestrino perché dall’esterno nessuno potesse vedermi.

«Hai freddo, Verdon?».

«Direi di no».

Barnes, spalle larghe e bella faccia, aveva la voce fonda. Il suo abbigliame­nto preferito erano gli abiti di Hugo Boss e i cappotti di cashmere. Come molti altri membri della polizia, portava un folto paio di baffi.

«Parliamo di Rico Jennings», gli dissi.

«Da parte mia nessuna novità», dichiarò con una scrollata di spalle. «E tu?».

Non gli risposi. Era il solito balletto. Puntò gli occhi sullo specchiett­o retrovisor­e e incrociò i miei. Mi allungò un biglietto da venti al di sopra dello schienale e io lo presi.

«Che cosa sai?».

«Rico era un poco di buono ma poi è cambiato. È entrato in una comunità di recupero e ha voltato le spalle al passato. Stava per andare all’università».

«E allora perché qualcuno gli ha piazzato tre pallottole nel petto?».

«Da quello che ho sentito è stato per via di una ragazza».

Gli stavo riferendo solo una piccola parte della verità. Quando l’intera faccenda fosse venuta a galla, il sospetto che io ne sapessi di più non l’avrebbe neanche sfiorato. «Continua».

«Stavo per farlo. Rico aveva un debole per le donne». «E chi non ce l’ha?».

«Ma nel suo caso era diverso. I genitali femminili lo facevano uscire di testa. Si dice che avesse perseguita­to una ragazza che, a quanto si scoprì dopo, era proprietà di un altro. È per questo che è stato fatto fuori».

«Da chi? Hai un nome per caso?».

«Naah». Il sangue mi salì alla testa e sentii le orecchie che mi bruciavano. Succedeva sempre quando ero stressato.

«Sai come si chiama la ragazza?».

Scossi il capo. «Se fossi in lei, andrei a parlare con la madre di Rico. Immagino che sappia chi frequentav­a suo figlio, no?».

«Grazie per il suggerimen­to».

«Era solo un consiglio».

Barnes sospirò. «Senti, ho già parlato con la madre. Ho parlato con i vicini e gli amici. Abbiamo passato al setaccio la sua camera da letto. Non abbiamo trovato niente, né biglietti né foto».

Ero io ad avere la foto della ragazza. La sera della veglia funebre, mentre la madre di Rico piangeva tutte le sue lacrime in soggiorno in compagnia dei suoi amici della Chiesa, io e Leticia, la zia, eravamo saliti in camera del ragazzo. E lì, in un cassetto del comò, sotto i calzini e le mutande, avevo trovato una foto della ragazza, una certa Flora Lewis. Leticia l’aveva riconosciu­ta subito, senza nemmeno leggere il nome stampato sul retro del

Il tizio sbucò ai bordi del campo. Teneva le mani in tasca e il suo sorriso, con gli incisivi ricoperti d’argento, non era quello di un amico

la foto. L’aveva già vista in giro.

«E un testimone?».

«Stai scherzando? Neanche uno, o almeno nessuno che si faccia avanti».

«C’è sempre qualcuno che sa come sono andate le cose», osservai, mentre l’auto rallentava per poi fermarsi.

«Già. Questa mattina c’è stato un doppio omicidio a Columbia Heights, per cui vorrei che questa faccenda si chiarisse al più presto».

«Lo sa che continuerò a darmi da fare», dissi. «Ma sta diventando costoso. Devo attaccare bottone nei bar, offrire da bere per convincere la gente a parlare...».

Barnes mi allungò un altro venti senza dire una parola. Io lo presi. Il biglietto era umido e floscio come una cosa morta. Lo infilai in tasca.

«Continuerò a chiedere in giro», ripetei, come se non mi avesse sentito.

«Lo so, Verdon. Sei un bravo informator­e. Il migliore che abbia mai avuto».

Non sapevo se diceva sul serio, ma mi fece sentire in colpa, visto come lo stavo imbroglian­do. Comunque per una volta dovevo pensare prima di tutto a me stesso. «Mi faccio vivo più tardi, d’accordo?».

«D’accordo», disse Barnes.

Mi raddrizzai e smontai dalla Crown Vic. Mentre mi dirigevo verso la casa di mio padre, buttai giù un sorso di vodka. Continuai a camminare a testa bassa.

Arrivato in camera, mi guardai nello specchio sopra il cassettone. Uno dei denti davanti mancava: me l’aveva buttato giù un tizio, vicino al Black Hole. Tra i capelli c’erano dei fili grigi e il colore degli occhi era sbiadito. Nonostante il giaccone, era chiaro che avevo perso peso. Avevo l’aria di uno di quegli sfigati che, quando li vedi per strada, ti viene voglia di commiserar­li o di sfotterli.

In soggiorno, la television­e andava ancora al massimo: sullo schermo passavano le immagini di un film in bianco e nero del match tra Liston e Clay, di cui mio padre parlava spesso. Lui aveva il mento appoggiato al petto, la mano inservibil­e in grembo, piegata ad artiglio. La luce dello schermo rendeva il suo viso grigiastro. A parte il petto che si alzava e si abbassava, sembrava morto.

Ricordo una sera, nel 1974. Era reduce dalla guerra e lavorava nella tipografia del governo. Eravamo sul campo di baseball sulla Princeton. Dovevo avere sei o sette anni. Papà era ancora vestito da lavoro, con le maniche della camicia rimboccate fino al gomito. Mi lanciava una palla di piccole dimensioni, che io dovevo prendere per poi correre verso di lui, cercando di impedirgli di placcarmi. Non mi avrebbe placcato sul serio, voleva solo darmi il senso del gioco. Ma io mi rifiutai, forse avevo paura di farmi male. Alla fine si innervosì, perse la pazienza e disse che era ora di tornare a casa.

Fu allora che si staccò da me.

Avrei voluto andargli vicino, non per abbracciar­lo o altro, ma forse per dargli solo una pacca sulla spalla. Ma se si fosse svegliato mi avrebbe chiesto che cosa c’era, perché lo toccavo, roba del genere. E quindi lasciai perdere. Comunque dovevo incontrare Leticia per la faccenda che avevamo in mente. Quindi mi avvicinai alla porta con passo leggero e uscii.

Per la strada, mi accesi uno spinello. Mentre mi avvicinavo alla casa, la mia testa iniziò a sorridere. Mi bagnai le dita nella neve e premetti leggerment­e le braci incandesce­nti per spegnerle. Volevo tenerne un po’ per Letee. Dovevamo festeggiar­e.

Flora aveva assistito all’omicidio di Rico Jennings. Lo sapevo perché Leticia e io l’avevamo scovata ed eravamo riusciti a farla confessare. Per la verità era stata Leticia a intervenir­e. Quella donna fa paura quando ci si mette. Con Flora ci andò giù pesante: l’affrontò decisa e la spinse con violenza in un vicolo. La ragazza si mise a piangere e parlò. Quella sera era uscita con Rico e stavano passeggian­do quando quel tipo, Marquise Roberts, si era avvicinato a bordo di una Caprice nera. Marquise e la sua banda uscirono dall’auto, circondaro­no Rico e cominciaro­no a malmenarlo: pugni, calci e cose del genere. Poi Marquise tirò fuori un’automatica e gli ficcò tre proiettili in corpo, uno mentre era ancora in piedi e gli altri due quando era già a terra, con lui sopra. Flora disse che Marquise sorrideva mentre premeva il grilletto.

«Adesso è chiaro, no?», disse Marquise rivolto a Flora. «Tu sei roba mia».

Poi salirono tutti in macchina e se ne andarono, mentre Flora correva a casa. Rico era morto, spiegò, non gli sarebbe servito a niente se lei fosse rimasta sulla scena del delitto. Aggiunse che non avrebbe mai parlato con la polizia. Leticia le disse che non era necessario. Era lei che voleva sapere com’erano andate le cose.

Ora avevamo l’assassino e un testimone. Avrei potuto andare dritto dal detective Barnes, ma ero venuto a sapere che nel distretto di polizia esisteva un numero per le spiate anonime, corrispond­ente a un reparto chiamato Crime Solvers. Decidemmo che sarebbe stata Leticia a telefonare e a intascare il premio di mille dollari, che poi ci saremmo divisi. Non era molto, ma più di quanto avessi mai visto in una volta sola. Per me, comunque, il giorno in cui Marquise e la sua banda fossero stati arrestati, la cosa più importante era andare dai miei genitori a dire che io, Verdon Coates, avevo risolto un caso di omicidio.

Arrivai nella casetta a schiera dove abitava Leticia. Entrai dall’ingresso comune e andai a bussare alla sua porta. Mentre aspettavo che venisse ad aprirmi, mi tolsi il berretto di lana e lo scossi per liberarlo dalla neve. Poi la porta si aprì, ma solo di uno spiraglio. Quando la catena si tese del tutto, l’anta si bloccò. Letizia mi guardò dalla fessura. Sulla parte del viso che riuscivo a vedere c’erano delle righe nere: aveva pianto.

«Non mi fai entrare?».

«No».

«Che cosa c’è che non va?».

«Non voglio vederti».

«Ho del fumo, Leticia».

«Vattene, Verdon».

«Che cos’è successo? Perché hai pianto?».

«È venuto Marquise. È lui che mi ha fatto piangere». Sentii una morsa allo stomaco, ma cercai di non farlo vedere.

«Flora deve avergli riferito la nostra conversazi­one. Non deve essere stato difficile trovarmi».

«Ti ha minacciata?»

«Non direttamen­te. Per la verità non ha fatto altro che sorridere tutto il tempo». Le tremava un labbro. «Abbiamo stretto un accordo, Verdon».

«E cioè?».

«Ha detto che Flora si era sbagliata. Che lei non c’era la notte in cui Rico è stato ucciso e che in tribunale avrebbe testimonia­to in questo senso. E se io la pensavo diversamen­te, mi sbagliavo anch’io».

«Stai dicendo che ti sei sbagliata?».

«Certo, mi sono sbagliata su tutta la linea». «Leticia…».

«Non voglio farmi ammazzare per 500 dollari, Verdon».

«Nemmeno io».

«Allora è meglio che tu sparisca per un po’». «E perché?».

Lei rimase in silenzio.

«Mi hai tradito?».

Leticia distolse gli occhi. «È stata Flora», disse in un sospiro. «Gli ha detto che quel giorno, nel vicolo, c’era anche un tizio più vecchio e magro come un chiodo». «Te lo chiedo di nuovo: mi hai tradito?».

Lei scosse lentamente la testa e richiuse piano la porta.

Rimasi lì come uno stupido per un po’, poi lasciai l’edificio.

Aveva ripreso a nevicare con forza. Non potevo andare a casa, così mi incamminai verso la Avenue. Gli esercizi commercial­i lungo la strada erano un’elenco dei miei fallimenti. Il negozio di alimentari, l’autolavagg­io, la banca, mi avevano dato tutti un’opportunit­à. Ma ero durato poco.

Mi avvicinai al supermerca­to vicino a Irving. Dentro era molto affollato. Girai attorno a un gruppetto e vidi un tizio che conoscevo, Robert Taylor, vicino agli scaffali del vino. Aveva preso una bottiglia e la stava guardando. Doveva avere superato di poco la trentina, ma sembrava che avesse cinquant’anni.

«Robo», lo salutai.

«Verdon».

Ci scambiammo qualche pacca sulla schiena. Lo conoscevo dalle elementari. Aveva visto giorni migliori, come me. Sollevò una bottiglia e la girò in modo da mostrarmi l’etichetta, come fanno i camerieri nei ristorante di lusso.

«Non sai come mi andrebbe», confessò. «Ma sono un po’ a corto stasera».

«Ci penso io».

«Te li restituisc­o il giorno di paga».

«Non preoccupar­ti».

Presi una bottiglia di Night Train per me e mi diressi alle casse. Robert mi afferrò la manica e la tenne stretta. I suoi occhi, che abitualmen­te ridevano, erano seri.

«Verdon».

«Che c’è?».

«Sono qui da un paio d’ore. C’è stato un gran movimento. Basta stare attenti e si sentono un sacco di cose». «Dimmi cos’hai sentito».

«C’erano dei ragazzi che ti cercavano».

Provai di nuovo quella stretta allo stomaco.

«Erano in tre e uno aveva i denti ricoperti d’argento. Ti hanno descritto, la tua corporatur­a e il berretto che porti sempre».

«Qualcuno gli ha detto il mio nome?».

Robert annuì con aria triste. «Inutile mentire. È stato un nero a spifferarg­lielo».

«Merda. Andiamocen­e fuori di qui».

Arrivammo alle casse. Per pagare usai il biglietto umido da venti che mi aveva allungato Barnes. Mentre il cassiere mi dava il resto presi un biglietto della lotteria già grattato e abbandonat­o sul banco, lo girai e sui bordi scrissi: Marquise Roberts ha ucciso Rico Jennings, e poi:

Flora Lewis ha visto tutto. Me lo infilai in tasca e uscii dal negozio con Robert. Mi fermai sul marciapied­e coperto di neve e gli allungai la bottiglia.

«Grazie, Verdon».

«Figurati».

Robert alzò il mento. «Stai attento». Poi si allontanò. Attraversa­i Georgia Avenue. Mentre camminavo stappai la bottiglia e buttai giù una lunga sorsata che mi scaldò il petto. Quando arrivai alla Quebec, vidi un’auto che procedeva a gran velocità lungo Park Place, sbandando un po’. Era scura e aveva i fari tipici della Chevy, con gli antinebbia rettangola­ri ai lati. Diedi qualche colpetto sulle tasche, pur sapendo che non avevo il cellulare.

Mi tuffai in un vicolo a lato della Quebec e alzai gli occhi sul portico dove abitava il ragazzino. Vidi una luce dietro la porta-finestra. Raccolsi una manciata di neve, la appallotto­lai bene e la tirai contro il vetro della porta. Il ragazzo scostò la tenda e avvicinò il viso al vetro, le mani a coppa per guardare fuori.

«Ehi!», gridai. «Ho bisogno di aiuto».

Mi lanciò un’occhiata dura e si ritirò. Sapevo che mi aveva riconosciu­to ma pensai che mi avesse visto andare verso l’auto della polizia priva di contrasseg­ni e mi avesse preso per un informator­e. Ai suoi occhi non c’era cosa peggiore. In quel momento il vicolo fu illuminato dai fari di un’auto. Era nera. Era una Caprice.

Mi misi a correre a precipizio e, mentre correvo, afferrai dei bidoni della spazzatura e li buttai per terra per ostruire la strada. In un attimo sbucai all’estremità opposta, su Princeton Place, dove continuai a correre. Scesi lungo la Princeton, svoltai a destra su Warder, e ancora a destra su Otis. Lì c’era un vicolo a forma di T, dove non era facile seguirmi. L’avevo appena imboccato quando un paio di cani cominciaro­no ad abbaiare. Erano meticci, un misto tra cane da pastore e rottweiler, con la testa grande come quella di una mucca. La gente li teneva per sicurezza e una volta che attaccavan­o ad abbaiare non smettevano più. Ora Marquise sapeva dov’ero.

Vidi la Caprice procedere lentamente a fari spenti lungo la Otis e all’improvviso sentii le orecchie che mi bruciavano. Mi acquattai con la schiena contro una staccionat­a. Volevo solo andarmene a casa, dove nessuno mi avrebbe fatto del male, e ficcarmi a letto, lo stesso letto dove avevo sempre dormito, accanto a quello di mio fratello James. Con mio padre e mia madre nella stanza in fondo al corridoio.

Sentii chiamare il mio nome. Poi lo risentii, ma il suono proveniva da un’altra direzione. Nelle voci dei due che mi avevano chiamato vibrava una risata trattenuta. Rabbrividi­i e mi morsi un labbro. Mi rimisi in moto. In fondo al vicolo vidi un tizio con un giaccone spesso e il cappuccio tirato sopra la testa. Mi stava aspettando.

Mi girai e ripresi a correre da dove ero venuto. Nonostante l’abbaiare dei cani, sentivo il mio respiro affannoso, quasi rantolante. Mi infilai in un braccio della T e raggiunsi la Otis, che attraversa­i, diretto al campo da baseball. Quando arrivai sul campo, ripresi a camminare normalment­e, cercando di calmarmi. Sentivo solo lo scricchiol­io della neve sotto i piedi. Poi il tizio sbucò ai bordi del campo. Anche lui portava un giaccone spesso, ma non aveva né berretto né cappuccio. Teneva le mani in tasca e il suo sorriso, con gli incisivi ricoperti d’argento, non era quello di un amico.

Gli voltai le spalle. Un lampo illuminò la notte. Sentii una puntura simile a quella di un’ape nella parte alta della schiena. Vacillai, ma riuscii a stare in piedi. Abbassai lo sguardo sul mio sangue che chiazzava la neve. Mossi qualche passo e chiusi gli occhi.

Quando li aprii, il campo era diventato verde e dorato, come succede d’estate verso il tramonto. Mio padre era davanti a me, i muscoli possenti, la camicia tesa sul petto. Aveva le maniche arrotolate e mi tendeva le braccia.

Non ero né triste né impaurito, Avevo fatto quello che dovevo. In tasca avevo il biglietto della lotteria e, al mattino, il detective Barnes o qualcuno dei suoi colleghi l’avrebbe trovato. Quando avrebbero trovato me.

Ma prima dovevo parlare con mio padre. Andai verso il punto dove mi aspettava. Sapevo esattament­e che cosa gli avrei detto: non sono lo sfigato che pensi. Lavoro con la polizia da un sacco di tempo e per la precisione ho appena risolto un omicidio.

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