Corriere della Sera - La Lettura

Le tecnologie leggere salveranno il pianeta

- da New York MASSIMO GAGGI

L’intervista Economista del Mit di Boston, arruolato nella pattuglia dei «New Optimists», Andrew McAfee è autore di alcuni degli studi più illuminant­i sull’impatto della rivoluzion­e digitale sul mercato del lavoro e sui modelli di produzione. Il suo saggio più recente, «Di più con meno», in uscita in Italia, sostiene una tesi audace e controcorr­ente: «Il capitalism­o ha oggi gli strumenti tecnici per risolvere i grandi problemi ambientali anche senza regolament­azioni pubbliche». Ecco come

Dematerial­izzazione è, per Andrew McAfee, la parola chiave. Davanti alle spinte dei movimenti ambientali­sti e dei gruppi della sinistra americana decisi a cambiare radicalmen­te il modo in cui funziona il capitalism­o e a ridare forza ai poteri di indirizzo dello Stato per salvare il pianeta dall’autodistru­zione, l’economista del Mit di Boston sostiene una tesi controcorr­ente: archiviata l’era dell’industria pesante, le tecnologie digitali, leggere e impalpabil­i, consentono all’economia di mercato di cominciare a risolvere i problemi dell’inquinamen­to e dei cambiament­i climatici anche in assenza di regolament­azioni pubbliche (comunque opportune). Tesi decisament­e coraggiosa in una stagione nella quale perfino la Business Roundtable, l’organismo che in America riunisce gli amministra­tori delegati di quasi tutte le grandi corporatio­n, fa autocritic­a.

Tesi audace ma ascoltata, quella contenuta nel suo nuovo saggio More from Less che sta per essere pubblicato anche in Italia da Egea con il titolo Di più con meno, perché McAfee non è un polemista o un esperto che usa la scienza per costruire scenari avventuros­i: direttore dell’Iniziativa per l’economia digitale del Massachuse­tts Institute of Technology, ha scritto con Erik Brynjolfss­on alcuni dei libri più illuminant­i sull’impatto della rivoluzion­e digitale sul mercato del lavoro e sui modi di produrre: da La nuova rivoluzion­e delle macchine a Machine, Platform, Crowd, ora pubblicato in Italia da Feltrinell­i con il titolo La macchina e la folla.

Arruolato d’autorità nella pattuglia dei cosiddetti New Optimists, a fianco di personaggi come Bill Gates e lo psicologo cognitivo Steven Pinker, McAfee è consapevol­e che per molti le sue tesi sono difficili da accettare.

McAfee, come pensa di convincere i suoi critici?

«Con i dati. E cercando di far capire la profonda differenza tra ciò che accade oggi e le precedenti rivoluzion­i industrial­i, dominate da tecnologie come il motore a vapore: quelle sì fortemente inquinanti. Ma con il digitale cambia tutto. Non c’è bisogno di proporre la decrescita, con la quale saremmo tutti più poveri: grazie alle nuove tecnologie l’America, rispetto al 2000, ha già ridotto il consumo di acciaio del 15% e quello di rame del 40%. Cali anche per il legname, un terzo, e la carta, un quinto. Per capire cosa sta accadendo basta pensare alle lattine d’alluminio delle bevande gasate: nel 1996 pesavano 85 grammi, oggi meno di 13. Stessa storia nell’agricoltur­a: dal 1992 a oggi i raccolti sono aumentati del 20%, mentre il consumo di fertilizza­nti è calato di altrettant­o. Consumiamo anche meno acqua per irrigare: un risparmio del 13%. Infine l’energia: l’economia è cresciuta del 20% dal 2008, l’anno della Grande Recessione, ma nel 2018 l’America ha consumato la stessa quantità di energia del 2007. Insomma, le imprese stanno imparando a risparmiar­e anche senza prescrizio­ni dei governi: è convenient­e».

Un cambiament­o davvero profondo, struttural­e?

«La differenza tra le rivoluzion­i industrial­i del passato e quella attuale, fatta di automazion­e e intelligen­za artificial­e, sta nella natura dei suoi strumenti digitali che sfruttano in misura molto minore le risorse del nostro pianeta, pur continuand­o a soddisfare i desideri di consumo della gente. Ora, poi, succede anche altro. Molti, soprattutt­o i giovani, si stanno allontanan­do dal materialis­mo: le esperienze diventano più importanti del possesso di oggetti fisici. Così l’economia può continuare a crescere, e con essa il

tenore di vita, pur con un impatto ambientale minore». Vale per i Paesi avanzati. E quelli in via di sviluppo?

«Lì ci sono problemi, è vero, ma sappiamo poco delle economie emergenti, mancano i dati. Comunque il processo di urbanizzaz­ione dell’umanità, il trasferime­nto dalle campagne alle grandi aggregazio­ni urbane, ormai è quasi completato. E poi queste comunità, anche quando a r r i va i l benessere, non consumano quantità massicce di risorse come in passato è accaduto agli Stati Uniti o all’Italia: nell’era dei cellulari la Nigeria non avrà bisogno di stendere cavi e mettere pali ovunque per costruire una rete telefonica fissa, né il Bangladesh arriverà ad avere una densità di auto private simile a quella dell’America. Per chi entra in scena oggi ha più senso usare diverse forme di trasporto e i nuovi servizi di condivisio­ne».

L’America consuma meno acciaio e alluminio, d’accordo. Ma non dipenderà dall’outsourcin­g, il trasferime­nto di fabbriche all’estero?

«È un elemento rilevante, certo: le statistich­e ci dicono quanto rame importiamo come minerale, ma non quanto ne entra nei prodotti finiti come i computer. Secondo me, comunque, questa differenza non altera la tendenza di fondo. Pensi all’impatto ambientale: consumi di energia sostanzial­mente stazionari da un decennio nonostante l’ininterrot­ta crescita. E anche la produzione di CO2 sta calando». Ma la dematerial­izzazione non è

sempre senza peccati: i computer assorbono molta energia. Secondo la rivista «Wired», nell’esperiment­o nel quale un braccio meccanico è riuscito a trovare la soluzione per il cubo di Rubik sono stati usati mille computer che hanno bruciato 2,8 gigawatt di energia: quanta ne viene prodotta in un’ora da tre centrali nucleari.

«È vero: crescendo, l’economia digitale assorbe più elettricit­à. Eppure, nonostante questo, il consumo totale di energia elettrica dell’America, come dicevo prima, non aumenta. Questo vuol dire che, a mano a mano che l’economia si sviluppa, le imprese imparano a usare l’energia in modo più efficiente». Davvero non vede un ruolo per i governi?

«La politica non fa abbastanza. Anche dove l’inquinamen­to cala, la situazione è fragile: se non intervieni le cose possono peggiorare. Quanto ha fatto l’Ammini

strazione Trump in America — ridurre o eliminare i limiti che erano stati introdotti per l’inquinamen­to — è una cosa terribile. E non è solo mancanza di regole. I governi sono anche responsabi­li per non avere sfruttato adeguatame­nte le tecnologie più efficienti e pulite come l’energia nucleare. Considero i pregiudizi contro l’atomo gravi come quelli contro i vaccini».

Paragone audace: la diffidenza per il nucleare è dettata, oltre che dai ben noti timori, dagli enormi costi e dai rischi dello smantellam­ento degli impianti e dello stoccaggio delle scorie radioattiv­e.

«I dati sono chiari. Anche tenendo conto di incidenti come Chernobyl e Fukushima, la sicurezza del settore nucleare è di gran lunga superiore a tutte le altre tecniche di produzione di energia. Le scorie sono pericolose, è vero. Fino a oggi, però, il numero di morti nel mondo per le scorie è zero, e zero è anche il numero di attacchi di terrorismo nucleare. Intanto abbiamo un milione di morti l’anno per via dei residui del carbone e degli altri combustibi­li fossili. L’energia da idrocarbur­i uccide ogni anno centinaia di migliaia di persone nel mondo. Le conclusion­i, per me, sono evidenti. Abbiamo bisogno di quattro cose: tecnologia, capitalism­o, ma anche pubblica consapevol­ezza e regole introdotte dai governi in modo responsabi­le: no alla decrescita e alle economie centralizz­ate».

Nel libro cita esempi di inefficien­za della vecchia Unione Sovietica. Oggi, però, il modello di riferiment­o rischia di essere quello cinese: autoritari­smo tecnocrati­co assai efficiente. E Pechino è diventata leader in vari campi, ad esempio l’energia solare.

«Non mi sorprende, è l’effetto della specializz­azione. Taiwan è leader nei semicondut­tori. L’Italia in molti tipi di tessuti. È così che funziona l’economia. La Cina è molto diversa dagli altri sistemi per il suo regime autoritari­o e l’assenza di garanzie giuridiche, ma all’origine del suo successo economico c’è l’abbandono del vecchio sistema comunista di pianificaz­ione centralizz­ata. Loro, oggi, sono molto più capitalist­i e orientati al mercato: non è una vittoria del modello comunista. Il fatto che molti giovani oggi siano affascinat­i dal socialismo mi spaventa. La pianificaz­ione centralizz­ata è un’idea terribile: non ha mai funzionato nella storia dell’umanità. L’ultimo esempio è il Venezuela: una catastrofe umanitaria».

Come incide la dematerial­izzazione sul mercato del lavoro?

«Per ora i dati indicano che l’automazion­e non crea un problema di quantità di posti di lavoro: basta vedere le lusinghier­e statistich­e americane della disoccupaz­ione. C’è invece, di sicuro, un problema di qualità del lavoro, troppo spesso bassa. Bisogna cercare di migliorare la qualità, riducendo le diseguagli­anze».

Certi risultati, effettivam­ente, tardano a materializ­zarsi. Da anni si parla delle vetture a guida autonoma che nei soli Usa dovrebbero mettere fuori gioco 3,5 milioni di camionisti. Ma quella rivoluzion­e ancora non è arrivata. Anzi, la domanda di camionisti cresce per l’espansione delle vendite online con consegna a domicilio. Prima o poi, però, l’intelligen­za artificial­e produrrà i suoi effetti.

«Vero, ma nessuno sa tra quanto. L’intelligen­za artificial­e può sconvolger­e il mercato del lavoro? Sì, entro un secolo. O, forse, nell’arco della mia vita biologica. Ma non accadrà l’anno prossimo né tra cinque anni. È sbagliato chiedere oggi il blocco di progetti di sviluppo temendo conseguenz­e negative sul mercato del lavoro che non si sa se e quando si manifester­anno».

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La mostra e le immagini Upgrade in progress (in alto alcune immagini di Rolando Paolo Guerzoni e Philipp Hänger) di Jeong Geumhyung (Seul, 1980: qui sopra) inaugura il 28 febbraio alle 18 alla Fondazione Modena Arti Visive, Palazzina dei Giardini, corso Cavour 2. Fino al 2 giugno (fmav.org)

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