Corriere della Sera - La Lettura
L’invenzione delle ferite invisibili
Stati Uniti/1 Daniel Mason utilizza le sue competenze di docente di psichiatria per raccontare — all’antica, con compassione — la storia di un ufficiale medico nella Prima guerra mondiale alle prese con un caso di stress post-traumatico
In Galizia
L’ospedale è una postazione di pronto soccorso non lontano dal fronte, dove l’unica infermiera è una suora col fucile a tracolla
Lucius Krzelewski è uno studente di medicina con «un’attitudine inconsueta a percepire le cose che si trovano sotto la superficie». Così scrivono di lui i professori all’Università di Vienna nell’anno 1914. E lui s’identifica così tanto con quelle parole che le copia in polacco, la lingua materna; poi in tedesco, quella adottiva; e infine in latino. E si convince di avere trovato propria missione.
Lucius è il ventiduenne protagonista dello straordinario romanzo storico di Daniel Mason, una galoppata letteraria che racconta la Prima guerra mondiale da un’angolazione particolare: il lavoro dei medici alle prese non soltanto con cancrene, amputazioni e ferite da proiettile, ma con quel demone allora ancora non identificato che oggi chiamiamo stress post-traumatico. E che non essendo riconosciuto è trattato spietatamente per quello che non è: una messinscena motivata dalla codardia, una recita punita con il ritorno immediato in prima linea — se non, come si vedrà in questo romanzo, con l’Anbinden: cioè con l’esposizione del soldato al gelo, nudo, e legato a un albero: una punizione che quasi sempre portava all’amputazione dei piedi congelati, se non anche delle gambe, e in qualche caso alla morte.
Quando Lucius si arruola prima ancora di aver conseguito la laurea, lo fa per giovanile sete di esperienza, incoraggiato da un padre ex ufficiale e da una madre non solo ricchissimi e nobilissimi — lei discende da Jan Sobieski, re di Polonia e granduca di Lituania — ma anche proprietari di una miniera di ferro che la guerra renderà una gallina dalle uova d’oro.
Meglio quindi correre ai ripari, per non passare per sciacalli, e sacrificare alla patria quel figlio così sensibile nato fuori tempo, ultimo di una nidiata di sei. Un figlio caduto, in una famiglia così fortunata, è quasi un male necessario. Del resto la madre di Lucius è così poco sentimentale che quando Gustav Klimt le fa un ritratto con Lucius in braccio, lei gli chiede di cancellare il bambino nascondendolo dietro una delle sue meravigliose colate d’oro.
E così Lucius parte. Per Lemnowice: un angolino sperdutissimo della Galizia nel mare magnum dell’impero austroungarico. E quando arriva a destinazione scopre che l’ospedale a cui è assegnato è in verità una postazione di pronto soccorso non lontano dal fronte, dove l’unica infermiera è una suora col fucile a tracolla, e dove l’ufficiale medico in capo — l’unico medico in assoluto — è scappato qualche settimana prima: e dunque l’ufficiale medico in capo ora è proprio lui, Lucius. Il quale avrà anche «un’attitudine inconsueta a percepire le cose che si trovano sotto la superficie» — e dunque una fascinazione molto viennese per i meandri della psiche umana — ma non ha alcuna esperienza di arti rotti, membra congelate, pance squartate, mandibole distrutte, e mani, piedi, gambe a braccia da amputare.
Se tutto ciò non si trasforma in un romanzo dell’orrore, è perché Daniel Mas on, romanziere navi g a to e quarantaquattrenne professore di psichiatria all’Università di Stanford, introduce a questo punto un personaggio stupefacente: la meravigliosa, ruvida, intelligentissima, rozza, sapiente, saggia e profondamente umana suor Margarete, unica sopravvissuta a Lemnowice a un’epidemia di tifo che ha ucciso tutte le altre infermiere. Una giovane donna capace di vera compassione: ma anche di farsi rispettare dai soldati negando loro, se si comportano male, la morfina.
Con l’aiuto di Margarete, Lucius trasformerà la chiesa di Lemnowice in un ospedale, a costo di utilizzare panche da chiesa al posto di tavoli operatori; e con i suoi consigli imparerà l’arte della chirurgia, soccorrendo le decine di soldati che giorno dopo giorno arrivano portati da carri, cavalli e mezzi di trasporto di ogni sorta.
S’innamoreranno, i due giovani? Certo che s’innamoreranno. E le sorprendenti sfumature di quell’amore inibito dai voti sono la prova che dove c’è amore, sulla pagina, c’è vita. Poi arriva un ospite silenzioso, e come in un romanzo di Conrad, tutto cambierà per sempre.
È un soldato all’apparenza incolume ma non più capace di parlare e di muoversi. Nella giacca, per tenersi caldo, ha infilato decine di disegni bellissimi: è un artista. Altro non si sa, a parte che si chiama Horvath ed è ungherese. E l’arrivo di quel paziente che non può essere tagliato, cucito e rispedito al fronte come gli altri, fa commettere a Lucius un errore che tutti pagheranno caro.
Daniel Mason ha impiegato quattordici anni a scrivere questo romanzo, il suo terzo, dopo che il primo, L’accordatore di piano, l’aveva fatto conoscere in tutto il mondo. E lo ha fatto remando controcorrente: scegliendo cioè lo storytelling più classico e raffinato in un momento in cui la moda privilegia l’autofiction più sperimentale di Rachel Cusk e Karl Ove Knausgård.
Il risultato è un romanzo all’antica, che si legge d’un fiato: intelligente, profondo, molto documentato e pieno di compassione. E persino capace di offrire, alla fine, l’ancora di salvezza di una qualche redenzione.