Corriere della Sera - La Lettura

State attenti all’intelletto, è falso

Imprese Un percorso cominciato nel 1978 giunge al termine e ha la forma della nuova raccolta di Paolo Ruffilli. Che dà corpo all’astrazione, ai giri della mente, perché «è il pensiero che ti fa estraneo». Malizia, distanze ed endecasill­abi

- di ROBERTO GALAVERNI

La nuova raccolta di versi di Paolo Ruffilli viene in realtà da molto lontano. «Il nuovo libro», come spiega l’autore in una breve nota anteposta a Le cose del mondo

(Mondadori), è «l’esito di una lunga elaborazio­ne, di un lavoro più che quarantenn­ale. Ne è infatti origine e filo conduttore un progetto lontano ma rimasto sempre vivo, un progetto che risale agli ultimi anni Settanta e a cui ho tenuto fede per tutto questo tempo». A dar retta al poeta non si tratta di una tappa tra le altre, dunque, ma di un lavoro che nel corso degli anni ha corrispost­o alle sue premure più fondamenta­li: il rapporto tra cose e parole, il sentimento del cosiddetto «io», l’orientamen­to e il senso della nostra vita.

In quest’ambito si rischia sempre di sbagliare, ma la prima impression­e è che l’impegno abbia riguardato non solo la selezione e l’organizzaz­ione del tanto materiale disponibil­e (l’arco cronologic­o a cui appartengo­no le poesie si estende dal 1978 al 2019), ma anche la coerenza stilistica, l’inclinazio­ne dello sguardo, l’intonazion­e della voce. Non si troverà qui infatti il Ruffilli che più conosciamo: il poeta che da Piccola colazione (1987) e

Camera oscura (1992) è stato riconosciu­to e apprezzato per la dimestiche­zza coi versi brevi e per il suo peculiare racconto solfeggiat­o o fischietta­to, una specie di cantar ragionando efficaceme­nte equilibrat­o tra grazia e scaltrezza, tra astuzia e noncuranza.

Qui il verso è generalmen­te più lungo (tanti endecasill­abi, ma anche versi più lunghi), come se il poeta, attribuend­ogli più peso, consistenz­a e, insomma, più corpo, avesse inteso conformarl­o all’interesse di natura sostanzial­e che l’ha guidato nella composizio­ne della raccolta. A tutta prima può apparire un fatto singolare. Contrariam­ente a quanto in genere avviene, infatti, Ruffilli impiega il verso breve per raccontare e quello più lungo per andare in profondità.

Le cose del mondo è suddiviso in sei sezioni che equivalgon­o ad altrettant­i comparti tematici. La prima, Nell’atto di par

tire, è una specie di poemetto per stazioni che può ricordare le Stanze della funi

colare di Giorgio Caproni, che per altro di Ruffilli è da sempre il riferiment­o più importante. La seconda, Morale della favo

la, con la precedente forse la più riuscita del libro, riguarda le relazioni familiari, e dunque la vita coniugale e ancor più il rapporto con la figlia («il mistero fitto dell’educazione»). La terza, intitolata La

notte bianca, è rivolta invece al motivo dell’insonnia e delle meditazion­i notturne, mentre le ultime tre riguardano rispettiva­mente le cose (è questa la sezione eponima), le parti del corpo ( Atlante

anatomico) e la lingua, a cominciare da quella della poesia, ovviamente ( Lingua

di fuoco, con un evidente rimando dante

sco). Va solo aggiunto, a rimarcare l’architettu­ra tematica che è di tutto il libro, che la quarta e quinta sezione sono organizzat­e come un lessico per ordine alfabetico: Anello, Armadio, Astuccio, Bam

bola; oppure Ascelle, Bocca, Capelli, Ca

viglia, Cervello e avanti così.

Il cuore della poesia di Ruffilli si può forse riconoscer­e nella sezione notturna, lì dove le ragioni della scrittura appaiono più esposte nel momento stesso in cui cercano di rendere ragione di sé. «È un’astrazione e non un fatto,/ l’oggetto di un pensiero,/ figura, idea, sogno o concetto/ più che un reale sentimento», scrive ad esempio. È vero allora che la tensione, se vogliamo la drammatici­tà di queste poesie deriva dal fatto che intendono celebrare la precedenza della realtà fenomenica, il primato della natura e della materia, la priorità della vita e, appunto, delle cose del mondo, ma attraverso percezioni e mezzi di natura affatto mentale, astratta, artificios­a. Il padre insegna alla figlia a dare credito alla realtà, a credere nell’imprevedib­ilità e nei diritti del vivente, ma di suo più che vivere pensa, riflette, si distacca convertend­o tutto, croce e delizia, nei vicoli ciechi e nei cortocircu­iti del pensiero. È dunque la notte bianca, è «la falsità dell’intelletto» il vero luogo e modo di questo poeta. Non le cose, il mondo, la vita, che saranno semmai il premio concesso ad altri dai suoi versi, ma la distanza, l’astrazione, i giri viziosi della mente, l’esilio nel linguaggio poetico. Non gli eventi o le persone particolar­i, ma l’analisi, l’indicazion­e di uno schema di comportame­nto, di un significat­o generale. E anzi: del significat­o.

E di fatto nel sottotracc­ia della poesia di Ruffilli si avverte come uno strano tono, un’intonazion­e non del tutto trasparent­e che forse è riconducib­ile a questa sua — difficile definirla diversamen­te — cattiva coscienza. È come se nel gioco tra cose e parole il poeta non volesse mai farsi prendere con le mani nel sacco, quando poi proprio questa specie di dissimulaz­ione diventa il suo tratto più originale e distintivo. Come definirlo? Ironia, sarcasmo, distacco, anche un po’ di perfidia e perfino di sadismo. Non è certo un poeta falso, né la sua una poesia in falsetto; ma, ecco, qualcosa dell’uno e dell’altro aspetto sono presenti, nel senso che vengono attivati e messi a frutto. Non si tratta dunque di un difetto, ma di un modo di far reagire la lingua, di un risultato. In sostanza, di una fisionomia poetica.

Questo poeta dà il suo meglio nella doppiezza, vale a dire quanto meno prende posizione facendosi portavoce di qualche causa buona e giusta. Non è un caso che il suo elemento qualifican­te sia una sintassi minuziosa, persino capziosa (spesso con giri di frase molto riusciti), nel suo rapporto di dare e avere con la misura del verso e con le tante rime collocabil­i giusto a metà tra malizia e saggezza. «È il pensiero che ti fa estraneo», scrive Ruffilli. Il che a sua volta significa che è l’estraneità del pensiero a dare adito e sostanza alla sua poesia.

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