Corriere della Sera - La Lettura
Pontiggia docet Ne sa più il testo di chi lo scrive
Maestri Raccolte le lezioni tenute dal 1985 al Teatro Verdi di Milano. Aneddoti, riferimenti a grandi autori, la cautela sugli avverbi e la cura degli aggettivi, la «fatica sorda» della creazione e il consiglio di leggere: la chiave di tutto è la consapev
Non occorre voler fare lo scrittore per divertirsi con le 37 lezioni di Giuseppe Pontiggia raccolte in questo volume che mette alcuni punti fermi sul mestiere di narrare, a patto di tenere ben presente uno dei suoi aforismi più celebri: «I grandi scrittori sono in continuo aumento. Quelli che scarseggiano sono gli scrittori».
In Per scrivere bene imparate a nuotare «Peppo» lancia suggestioni, divaga tra i classici con la dottrina mai pedante che sapeva esercitare. Nonostante avesse tenuto corsi per dodici anni non volle mai farne un manuale, accettò invece l’invito di Giorgio Dell’Arti per una rubrica sulla rivista «Wimbledon. La gente che legge». Si trattava di una simulazione di intervista, con domande e risposte scritte da lui: un contraddittorio a volte ironico e paradossale che — scrive Cristiana De Santis, curatrice del volume — lascia «emergere aspetti della poetica di Pontiggia, come l’amore per il rovesciamento e la coesistenza degli opposti». Elementi che appaiono anche nei quattro testi che scrisse nel 1995 sul settimanale «Sette» del «Corriere della Sera».
Nel 1985 Pontiggia aveva dato avvio, al Teatro Verdi di Milano, a quello che si può considerare il primo corso di scrittura in Italia, alla scuola fondata da Raffaele Crovi. De Santis disegna la scena: Pontiggia seduto a una scrivania illuminata sotto il palcoscenico, gli occhiali da vista sul naso, una bottiglia d’acqua da una parte, alcuni fogli dattiloscritti in mano. Davanti a lui un’ottantina di adulti senza un titolo specifico di studio, con ambizioni letterarie o di formazione professionale.
C’era, da parte di Pontiggia, un «malcelato imbarazzo» (così lo definisce De Santis)neic on fronti dell’aggettivo crea
tivo, considerato« troppo euforico ». L’obiettivo era di insegnare scrittura
espressiva, senza un modello a cui aderire, partendo dall’analisi dei testi, attraverso esempi riusciti, ma anche errori d’autore. Pontiggia non credeva nella «novità assoluta» in letteratura: quella, scrive, «compare solo nelle locandine teatrali, però il compito che uno scrittore affronta è di dire qualcosa che sia nuovo non solo per gli altri, ma per lui». Al contrario di quanto si pensa, per uno scrittore niente è già stato detto. «Il suo atteggiamento — spiega Pontiggia — è semmai di pensare: “Quello che io sto per scoprire attraverso il linguaggio non lo ha mai detto nessuno prima di me”». Per lui non esistono leggi che subordinino l’espressività. «Valéry diceva che c’è un solo genere che non si può accettare ed è il genere noioso». Aggettivo che non si può applicare a queste pagine.
La capacità didattica di Pontiggia si esercita in modo trasparente attraverso riferimenti ai grandi scrittori del passato, mette in guardia dai pericoli della retorica, ricorda che le vocali non sono innocenti ma evocano sempre e comunque immagini acustiche, visive, tattili, persino gustative. Le lezioni offrono accorgimenti utili per tutti, come quello sull’uso degli aggettivi. Sono indispensabili quando la loro soppressione indebolirebbe il testo, come dimostra un memorabile attacco di Ambrose Bierce: «Una mattina di buon’ora del giugno 1872 uccisi mio padre — un atto che, a quel tempo, mi fece una profonda impressione». Basta provare a togliere l’aggettivo «profonda» per capire le conseguenze che porterebbe con sé. Il libro d’altronde è pieno di esercizi come questi: è vero che la «calda estate» si sente di più dell’«estate calda», come suggerisce il titolo del capitolo? Siamo sicuri che dire «mite
e buono» sia più forte che dire solamente «mite»? E i superlativi? Si può credere a qualcuno che si dice «felicissimo» di un nostro successo? «Io dubiterei della sua amicizia», sferza Pontiggia, chiarendo che gli unici peccati che gli interessano sono «quelli espressivi».
L’ossimoro, poi, è una moda o una figura retorica che dice qualcosa della nostra epoca? (Attenzione: molti pensano che si possa essere originali assecondando la moda, contraddizione in termini). Anche gli avverbi, dice Pontiggia, «risentono dell’inflazione», sembra che non bastino mai e spesso non ci si accorge che tolgono energia alla scrittura invece di infondergliene. È anche da lì che passa la differenza tra autorevolezza e perentorietà di chi scrive.
Pontiggia mescola i dettagli tecnici, retorici, con aneddoti partendo dalla distinzione tra sincerità e verità: dire sinceramente il falso è possibile, così come chi usa un linguaggio di luoghi comuni, di frasi fatte finisce per ritrovare nell’esperienza la conferma di essi. Appellandosi ad Erich Auerbach precisa la sua idea di realismo in letteratura distinguendolo dal «pregiudizio realistico». Lo fa ricorrendo anche a un aneddoto raccontato da Ernst Gombrich, che riguarda la pittura e, in particolare, Georges Braque. A una signora che guardando una sua tela gli chiede: «Maestro, perché questa donna ha un braccio più lungo dell’altro?» il pittore risponde: «Guardi, signora, che questa non è una donna, questo è un quadro».
L’attenzione alle parole, alla loro capacità di rivestire esperienze nuove rivelando aspetti sconosciuti e significati imprevedibili è il punto su cui battono queste lezioni. La differenza tra artificio e tecnica è fondamentale. Come suggerisce il titolo del volume, scrivere non è affatto spontaneo, al pari di nuotare. Chi non ha imparato l’arte del nuoto, scrive Pontiggia, compie una serie di movimenti disordinati che provocano l’annegamento. «Allo stesso modo il linguaggio disordinato si ritorce su chi non sa rielaborarlo».
La scrittura è anche un fatto di concentrazione, continuità, «fatica sorda» e molti artisti lo hanno saputo dire in modi paradossali: come Oscar Wilde, secondo il quale uno scrittore può impiegare una mattina per mettere una virgola e un pomeriggio per toglierla. Il motore è sempre la curiosità che per primo chi scrive deve provare. E se non c’è? La soluzione è una sola: «Cambi, correggi, aspetti, imprechi finché, se va bene, torni a provarla». Sbagliare l’incipit, per esempio, si può pagare molto caro in termini di tempo e difficoltà. Pontiggia fa l’esempio di un suo testo, La grande sera che, nella stesura originaria, era centrato su un uomo che una sera estiva lascia la propria casa per sparire nel nulla. «Solo dopo molti tentativi a vuoto ho trovato un inizio che rispondeva al tema embrionale del romanzo: non un uomo che scompare, ma una donna che lo aspetta in uno stato di ansia crescente. Al centro del romanzo infatti non c’è solo il vuoto della scomparsa, ma le reazioni dei molti personaggi che ne sono coinvolti». Insomma, il testo ne sa sempre di più del suo autore.
Come nota Paolo Di Paolo nella prefazione, «consapevolezza» è la parola chiave. Imparare a scrivere significa imparare a leggere. È così che si apprendono capacità di analisi e di giudizio, a mantenere un atteggiamento attivo nei confronti del testo. I classici sono la palestra prima e Pontiggia ne cita in abbondanza, nella forma aforistica e paradossale che predilige, ma anche con brevi inserti critici, come quello che dedica a Proust. «Il principio della narrazione viene scambiato per un principio mnemonico, mentre si tratta di un principio compositivo», scrive a proposito della Recherche, e questo porta all’idea che la sua narrazione sia statica o priva di fatti e addirittura di trama. Insomma la chiave in cui viene letto costituisce il suo fraintendimento. Del resto non era forse Rainer Maria Rilke che diceva: «Che cosa è mai la gloria se non la somma dei malintesi raccolti intorno a un grande nome?».