Corriere della Sera - La Lettura
La cocorita filosofa nel serraglio
Racconti Più di un eccentrico, più di un dimenticato: Marcello Barlocco è un caso unico della nostra letteratura, e non tanto per le sue vicissitudini (manicomio incluso). Le sue storie piene di animali dimostrano una tenace aspirazione all’«infamia»
Non tra gli «ingiustamente dimenticati» ma tra gli «inevitabilmente trascurati» va collocato, recita con un pizzico di alterigia la nota editoriale di Giometti & Antonello, Un negro voleva Iole di Marcello Barlocco (1910-1972), racconti per cui non c’è stato e temiamo non ci sarà mai posto nell’archivio della letteratura italiana contemporanea.
Non per l’irregolarità della vita dell’autore (e Campana, allora? E Genet? E tutti gli altri drop out?), nato in una famiglia di farmacisti, scrittore e pubblicista di minima nomea, invischiato in un’inchiesta per traffico di stupefacenti, presto tradotto in un manicomio criminale da cui esce lamentando trattamenti inumani a base di «mineralizzazione»(?), imbalsamazione vivente, sevizie chimiche e riti sacrileghi irripetibili (ma pare che l’autorità giudiziaria abbia preso sul serio le accuse, da quel che della sua scarna biografia si può ricostruire). Declino fisico a parte, alla fama di Antonin Artaud non nocque affatto l’internamento nel manicomio di Rodez.
No, il cono d’ombra, l’inappartenenza, l’oblio, Barlocco se li è guadagnati attraverso ciò che ha scritto. E non perché scriva male: la sua padronanza della lingua è altissima, la miscela di comicità e orrore non cede ai migliori racconti di Tommaso Landolfi. Ma per una deliberata volontà di estraneità che si coglie ad apertura di pagina. Non c’è nessun altro scrittore a cui accostarlo. Bene, si dirà, significa che è originale. No, di nuovo. Fatta la tara della scarsa pregnanza semantica dell’aggettivo, la letteratura è una famiglia ipocrita che si gloria delle sue pecore nere. Con Barlocco non è possibile.
Ogni racconto ci sprofonda in un altrove da una parte abbastanza prossimo, dall’altro assolutamente omicida, se per homo sapiens intendiamo una specie che, non si sa come, è pervenuta alla facoltà di esprimere i suoi desideri. Ma le uniche a saper desiderare, nei racconti di Barlocco, sono le bestie — cui noi, sarà specismo, continuiamo ad attribuire solo la categoria del bisogno. E infatti i suoi umani si trasformano spesso e volentieri in bestie, o ci si accoppiano: un tale, per esempio, compra una cocorita, poi la scopre a postillare dottamente un trattato di filosofia, poi ne accetta la dichiarazione d’amore e ci fa un figlio, un cocouomo, che è costretto a sopprimere dai sofismi stringenti della cocorita sapiente, la quale per di più ingiunge: «Non piangere, non piangere (...) cosa è questa eterna convenzione inventata dagli uomini di dimostrare il loro dolore piangendo? Se soffri veramente devi ridere, ridi, ridi!». I più secchioni ricorderanno qui il Controdolore di Palazzeschi, ma garantiamo che non c’entra. Quello era il riso del mondo alla rovescia. Qui non c’è più né dritto né rovescio.
Così, in pegno per un debito di gioco, si può lasciare indifferentemente uomini, vacche o macchinari. Volpi e cani ridono come iene (ma ecco già che il paragone è improprio: ridono e basta). Un dinamitardo rimasto intrappolato nei pressi di un ordigno innescato si taglia un piede come fanno donnole e faine prese al laccio, e muore mentre i suoi compagni si rassicurano che l’idea non morirà. In un manicomio convivono un uomo normale, cioè uno che dorme con una gallina e la rimprovera perché è ancora troppo presto per alzarsi, e un tipo strano, nientemeno che un licantropo. Ma chi è in realtà il più strano dei due, atteso che il secondo può vantare almeno alle sue spalle una solida bibliografia folklorica e scientifica? Poi ci sono i cuculi sapienti, quelli che contando il numero dei loro «cu» si capisce quanti anni ci restano da vivere. Peccato che tirino a fregare. Pascoli, che pure se ne intendeva, non ci avrebbe mai giocato un colpo gobbo siffatto.
È inutile: questi racconti Barlocco non li ha scritti per noi. Li ha scritti per non essere visto, per rendersi illeggibile — col tutto che sono leggibilissimi, godibilissimi, e li raccomandiamo caldamente. Ogni autore, lo ammetta o meno, aspira alla gloria. Barlocco aspira all’infamia, nel senso etimologico del termine. Nel testo che dà il titolo alla raccolta, Un ne
gro voleva Iole, già urticante fin dall’articolo indeterminativo, il negro, sempre paragonato a una foca, viene impiegato su una nave per pulire taniche tossiche da cui esce ogni volta mezzo morto. E se ne compiace: i bianchi vogliono qualche cosa da lui. Gli spiace semmai di non trovare lui qualcosa da desiderare da loro. Fino a che sulla nave non sale Iole, la figlia del capitano coi suoi bei capelli rossi. È il caos. Ora anche lui vuole qualcosa, e lo dice, rimediando in cambio sghignazzi e una scarica di botte.
Eros unisce e Thanatos divide, diceva Freud, e tutti i narratori hanno lucrato sugli ostacoli frapposti tra Eros e il suo appagamento. Eros e Thanatos in Barlocco coincidono. Ogni raffronto con Kafka è fuori luogo. Se là baluginava ancora la salvezza, anche se non per noi, qui il male di vivere splende ovvio come il sole a mezzogiorno. Non abbiamo niente da imparare da uno del genere. Per questo conviene leggerlo. Non capita tanto spesso di incontrare un irrecuperabile, e di pensare che è giusto così.