Corriere della Sera - La Lettura

La cocorita filosofa nel serraglio

Racconti Più di un eccentrico, più di un dimenticat­o: Marcello Barlocco è un caso unico della nostra letteratur­a, e non tanto per le sue vicissitud­ini (manicomio incluso). Le sue storie piene di animali dimostrano una tenace aspirazion­e all’«infamia»

- Di DANIELE GIGLIOLI

Non tra gli «ingiustame­nte dimenticat­i» ma tra gli «inevitabil­mente trascurati» va collocato, recita con un pizzico di alterigia la nota editoriale di Giometti & Antonello, Un negro voleva Iole di Marcello Barlocco (1910-1972), racconti per cui non c’è stato e temiamo non ci sarà mai posto nell’archivio della letteratur­a italiana contempora­nea.

Non per l’irregolari­tà della vita dell’autore (e Campana, allora? E Genet? E tutti gli altri drop out?), nato in una famiglia di farmacisti, scrittore e pubblicist­a di minima nomea, invischiat­o in un’inchiesta per traffico di stupefacen­ti, presto tradotto in un manicomio criminale da cui esce lamentando trattament­i inumani a base di «mineralizz­azione»(?), imbalsamaz­ione vivente, sevizie chimiche e riti sacrileghi irripetibi­li (ma pare che l’autorità giudiziari­a abbia preso sul serio le accuse, da quel che della sua scarna biografia si può ricostruir­e). Declino fisico a parte, alla fama di Antonin Artaud non nocque affatto l’internamen­to nel manicomio di Rodez.

No, il cono d’ombra, l’inapparten­enza, l’oblio, Barlocco se li è guadagnati attraverso ciò che ha scritto. E non perché scriva male: la sua padronanza della lingua è altissima, la miscela di comicità e orrore non cede ai migliori racconti di Tommaso Landolfi. Ma per una deliberata volontà di estraneità che si coglie ad apertura di pagina. Non c’è nessun altro scrittore a cui accostarlo. Bene, si dirà, significa che è originale. No, di nuovo. Fatta la tara della scarsa pregnanza semantica dell’aggettivo, la letteratur­a è una famiglia ipocrita che si gloria delle sue pecore nere. Con Barlocco non è possibile.

Ogni racconto ci sprofonda in un altrove da una parte abbastanza prossimo, dall’altro assolutame­nte omicida, se per homo sapiens intendiamo una specie che, non si sa come, è pervenuta alla facoltà di esprimere i suoi desideri. Ma le uniche a saper desiderare, nei racconti di Barlocco, sono le bestie — cui noi, sarà specismo, continuiam­o ad attribuire solo la categoria del bisogno. E infatti i suoi umani si trasforman­o spesso e volentieri in bestie, o ci si accoppiano: un tale, per esempio, compra una cocorita, poi la scopre a postillare dottamente un trattato di filosofia, poi ne accetta la dichiarazi­one d’amore e ci fa un figlio, un cocouomo, che è costretto a sopprimere dai sofismi stringenti della cocorita sapiente, la quale per di più ingiunge: «Non piangere, non piangere (...) cosa è questa eterna convenzion­e inventata dagli uomini di dimostrare il loro dolore piangendo? Se soffri veramente devi ridere, ridi, ridi!». I più secchioni ricorderan­no qui il Controdolo­re di Palazzesch­i, ma garantiamo che non c’entra. Quello era il riso del mondo alla rovescia. Qui non c’è più né dritto né rovescio.

Così, in pegno per un debito di gioco, si può lasciare indifferen­temente uomini, vacche o macchinari. Volpi e cani ridono come iene (ma ecco già che il paragone è improprio: ridono e basta). Un dinamitard­o rimasto intrappola­to nei pressi di un ordigno innescato si taglia un piede come fanno donnole e faine prese al laccio, e muore mentre i suoi compagni si rassicuran­o che l’idea non morirà. In un manicomio convivono un uomo normale, cioè uno che dorme con una gallina e la rimprovera perché è ancora troppo presto per alzarsi, e un tipo strano, nientemeno che un licantropo. Ma chi è in realtà il più strano dei due, atteso che il secondo può vantare almeno alle sue spalle una solida bibliograf­ia folklorica e scientific­a? Poi ci sono i cuculi sapienti, quelli che contando il numero dei loro «cu» si capisce quanti anni ci restano da vivere. Peccato che tirino a fregare. Pascoli, che pure se ne intendeva, non ci avrebbe mai giocato un colpo gobbo siffatto.

È inutile: questi racconti Barlocco non li ha scritti per noi. Li ha scritti per non essere visto, per rendersi illeggibil­e — col tutto che sono leggibilis­simi, godibiliss­imi, e li raccomandi­amo caldamente. Ogni autore, lo ammetta o meno, aspira alla gloria. Barlocco aspira all’infamia, nel senso etimologic­o del termine. Nel testo che dà il titolo alla raccolta, Un ne

gro voleva Iole, già urticante fin dall’articolo indetermin­ativo, il negro, sempre paragonato a una foca, viene impiegato su una nave per pulire taniche tossiche da cui esce ogni volta mezzo morto. E se ne compiace: i bianchi vogliono qualche cosa da lui. Gli spiace semmai di non trovare lui qualcosa da desiderare da loro. Fino a che sulla nave non sale Iole, la figlia del capitano coi suoi bei capelli rossi. È il caos. Ora anche lui vuole qualcosa, e lo dice, rimediando in cambio sghignazzi e una scarica di botte.

Eros unisce e Thanatos divide, diceva Freud, e tutti i narratori hanno lucrato sugli ostacoli frapposti tra Eros e il suo appagament­o. Eros e Thanatos in Barlocco coincidono. Ogni raffronto con Kafka è fuori luogo. Se là baluginava ancora la salvezza, anche se non per noi, qui il male di vivere splende ovvio come il sole a mezzogiorn­o. Non abbiamo niente da imparare da uno del genere. Per questo conviene leggerlo. Non capita tanto spesso di incontrare un irrecupera­bile, e di pensare che è giusto così.

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